Tutto Calvino in 146 voci
Apri il libro a caso e troverai una pagina che rimanda a tutte le altre. Accanto compare un’altra pagina, che dispiega una figura che alla precedente si associa, per cui l’incontro dà principio a una storia.
Darei queste istruzioni, esemplate sul modello, reader-oriented, di Se una notte d’inverno un viaggiatore e su quello, casualmente combinatorio, di Il castello dei destini incrociati, per la lettura di Calvino A-Z, a cura di Marco Belpoliti (Electa, pp. 504): una mappa concettuale per viaggiare nel mondo dell’autore che il centenario della nascita (1923-2023) sta rischiando di santificare, ma potrebbe anche rilanciare e arricchire.
Libro calviniano per eccellenza, A-Z non è una guida a Calvino attraverso le parole-chiave del suo mondo poetico e intellettuale, ma è un labirinto borgesiano, nel quale ogni sentiero porta a un altro, senza via d’uscita, perché la costruzione stessa dell’insieme è una metafora dell’opera di Calvino: opera dalla quale non si esce mai, a dispetto delle sue continue pretese di fuga, perché è un’opera totale, un monolite strutturale, l’unica vera opera-mondo dell’intero Novecento italiano, presa tutta insieme. Aveva voglia Calvino a dire che inseguiva sempre il nuovo, che non avrebbe mai saputo individuare il filo della sua identità, che era mimetico e metamorfico: nessuno scrittore più di lui è stato così capace di costruire il proprio involucro, self-contained, esemplare ragnatela di fili argentini di un secolo intero. Ragno oltre che conchiglia, per aggiungere una metafora a quella, di suo conio, recentemente adottata da Domenico Scarpa come sigillo del suo metodo di lavoro.
Scarpa è tra i tanti autori delle voci, che a loro volta s’inseguono, sovrappongono, intersecano e scambiano nelle pagine del libro, come in un ariostesco castello d’Atlante: le metafore abbondano e si sprecano, per definire un libro che è di per sé una macchina per generare metafore, altra specificità tipicamente calviniana. Letto infatti come sistemazione, ordinata cronologicamente attraverso parole-guida, il libro rischia di perdere il suo potenziale esplosivo, la sua energia dinamica, che sta proprio nell’incapacità costitutiva di ridurre il caos a forma, in quanto la materia sfugge sempre, si dirama, si allarga, si dipana e scappa.
Non va fatto l’errore, intendiamoci, di confondere questo blocco dai pezzi mobili con un’idea di continente, come se veramente tutto si tenesse, tanto in Calvino quanto nel libro che lo descrive: avremmo in tal caso un ritorno al principio illuministico dell’enciclopedia (tanto amato da Calvino, e, con lui, e dopo di lui, da Eco) e al carattere onnivoro del romanzo ottocentesco (a sua volta una sua predilezione). Mentre qui si tratta di arcipelago, in cui tutte le parti si corrispondono, avendo una radice e una genesi comuni, ma restano anche sparse, ciascuna con una sua ben definita individualità. Troveremo allora singole voci che sono ciascuna un’introduzione a Calvino, in sé compiuta, ma pure un pezzo di un puzzle che non riesce mai a comporsi fino all’ultimo, come se mancasse sempre la fatidica ultima tessera perduta.
Costruito per parole-sonda, più che chiave, finalizzate all’immersione per prelevare campioni (da «animali» a «Zavattini», passando per «antropologia», «arte», «biblioteca», «città, «classici, «Carlo Levi» e «Primo Levi», fino a «Sanremo», «scienza» e «vita»), il libro presenta un indice iniziale che funge da direzione d’orchestra, tradendo il disegno autoriale, fin troppo sistematico, col rischio dell’accusa di aver mancato questa o quella voce (da «architettura» a «neovanguardia» a «ricezione», per esempio, o da «Giorgio Agamben» a «Benedetto Croce» a «Renato Serra», o da «Pinocchio» a «Lord Jim»); ma l’indice, appunto, è una spugna anziché un idrante, ha assorbito in entrata anziché sputare in uscita, è un pieno anziché un vacuum dentro cui si muovono atomi impazziti che cercano continuamente l’incontro.
Il rischio di un’operazione del genere è lo spezzettamento, il particolarismo, la perdita della storia; ma il vantaggio sta nel recupero dell’esperienza del soggetto, che non è più fagocitato dal fondale della grande narrazione collettiva. Attraversabile, ritagliabile, parcellizzato e frammentato, eppure integro, Calvino è veramente restituito a sé stesso, sottratto alle formule di una critica troppo spesso convenzionale (che proprio lui tuttavia ha contribuito a creare: leggero, molteplice, sperimentale, ecc.) e rilanciato verso prospettive che lo mettono in dialogo con quei concetti che sempre aleggiano sul crinale frastagliato della storia (e che lui tanto prediligeva). Quasi metafisico, infine, visto che l’esperienza così ripercorsa è tutta intellettuale anziché biografica: ma del suo rapporto con una lettura metafisica del mondo, con i fatti sempre riportati alle idee, bisognerà prima o poi render conto.
Nell’introduzione intitolata «Istruzioni per l’uso», d’après Perec (chiaro senhal ermeneutico), il curatore richiama la recensione di Calvino all’Enciclopedia Einaudi pubblicata a partire dal 1977 sotto la direzione di Ruggiero Romano: piuttosto che recensire, Calvino affidava la parola al signor Palomar, «ghiotto degustatore d’enciclopedie», che del nuovo prodotto editoriale apprezzava la capacità, ipertestuale chiosa Belpoliti, di tenere insieme il sapere e l’organizzazione, la quantità enorme d’informazioni accumulatesi negli scantinati dell’umanità e la selezione ai fini del presente che le usa. Proiettare il passato verso l’uso, rovistando come un bricoleur, è la prospettiva dell’antropologo che raccoglie non per collezionare, ma per risistemare, posizionare e capire: allo stesso modo, citando da Collezione di sabbia, questo libro prende a motto il detto di Calvino che «viaggiare … serve a riattivare per un momento l’uso degli occhi, la natura visiva del mondo».
Cartine, grafici, statistiche e alberi (sul modello proposto da Franco Moretti e praticato efficacemente nell’Atlante della letteratura italiana anch’esso targato Einaudi) qui non ce ne sono, ma la ragione è semplice: il mondo di Calvino e dei suoi lettori è fatto prima di tutto di parole, per quanto la loro origine e la loro ricaduta possano essere anche visive o persino materiali. Restituire Calvino alla scrittura, che è il motivo principale per cui lo ricordiamo, e all’interpretazione, che è il motivo principale per cui continuiamo a leggerlo, significa introdurre al punto originario di tutta la nostra ammirazione: il piacere del testo, che è insieme il suo piacere a scriverlo e il nostro a leggerlo.
Ha scritto il già citato Scarpa (Calvino fa la conchiglia, indispensabile introduzione al mondo di Calvino per chiunque voglia seguirne l’intreccio tra biografia, storia, scrittura e pensiero) che fra i due aforismi di George Braque, il pittore francese di primo Novecento, «Non credo alle cose, credo ai loro rapporti», e di Roland Barthes, il critico anch’egli francese di metà Novecento, «Le fait n’a jamais qu’une existence linguistique», Calvino starebbe decisamente dalla parte del primo, perché, come dichiarava in un’intervista del 1967 con Madeleine Santeschi:
“Io non sono tra coloro che credono che esista solo il linguaggio, o solo il pensiero umano ... Io credo che il mondo esiste indipendentemente dall’uomo; il mondo esisteva prima dell’uomo ed esisterà dopo, e l’uomo è solo un’occasione che il mondo ha per organizzare alcune informazioni su se stesso.”
La percezione di questo mondo, però, per l’uomo è solo linguistica e Calvino l’ha inseguita per tutta la vita. Dentro le maglie del linguaggio converrà allora interrogare Calvino A-Z, a partire da due voci, «Lingua» (di Paolo Zublena) e «Segni» (di Gianfranco Marrone), che delimitano un po’ i confini dell’intero mondo dello scrittore: da un lato, la ricerca di quella medietà linguistica (che Pasolini aborriva), in una funzione comunicativa universale (che Pasolini inseguiva); dall’altro, il bisogno di marcare il territorio (che Sanguineti adorava), in una tensione ontologica che ambisce quasi alla rinuncia mistica (che il «vivente inesistente» Sanguineti detestava). Due Calvino antitetici e complementari (non a caso rispettivamente sotto gli ombrelli del «neorealismo» e dell’«antropologia», nella struttura a tendina che Belpoliti ha saputo mirabilmente mimare da internet), a mediare fra i quali potrebbe esserci il «Mondo scritto e mondo non scritto» (di Roberto Dedier), perché Calvino è ancora dentro le grandi dialettiche che lui stesso ha costruito, eppure continua a sfuggire: perfino nel rapporto coi suoi due più complicati interlocutori intellettuali italiani contemporanei, Pasolini (di Marco Bazzocchi) e Sanguineti (senza voce), rispetto ai quali le artificiose antinomie mente/corpo e cose/parole non funzionano più (ma Carla Benedetti andava almeno nominata). Nel 1971, quattro anni dopo l’intervista citata poco fa, in occasione della mostra del miniaturista Ettore Sobrero, Calvino dichiarava di invidiare ai pittori «il privilegio di essere affrancati dal peso diretto o indiretto della parola»: davvero provocatorio, per uno che alla parola ha dedicato tutta la vita.
Un vertiginoso clinamen è il movimento che questo libro mette in atto, attraverso una squadra di cinquantacinque tra i migliori contemporaneisti del mondo (da contributi d’autore come quelli di Ferrero, Rizzante e Sarchi ai calviniani doc Barenghi, Falaschi e Falcetto, dagli usual suspects Cortellessa, Gordon, Manica, Pedullà e Scaffai a brillanti voci emerse ed emergenti come Baldini, Brogi, Cinquegrani, Dellacasa e Manetti), dove tutti cozzano con tutti, fino a un sinergico e lisergico abbraccio con metafore ludiche come i tozza tozza o con riferimenti pop come l’Annalisa di «lei che bacia lui che bacia lei»: un tourbillon senza sosta, che finisce con l’intercettare pure ciò che non ci può essere, per banali motivi cronologici (è uscito a libro compiuto) come l’ultimo numero di California Italian Studies (a cura di Anna Botta e Lucia Re, con saggi di alcuni degli autori delle voci qui, ma anche suggestive incursioni nei campi del jazz e della traduzione). Ma al Calvino che vuol fare l’americano (su cui si vedranno il «Messico» e la «New York» di Alessandro Raveggi) fanno eco gli autori che ricorrono al vezzo anglosassone del secondo nome puntato tra il nome e il cognome. Se la macchina rischiava di prevalere sul contenuto, perché la struttura è più importante, accentrando e concentrando, la pluralizzazione degli spazi e delle voci garantisce il relativismo dei punti di vista.
Ecco cosa allora il libro c’invita a fare: scalfire il guscio. Sottrarre Calvino a Calvino, liberarsi dalla sua straordinaria citabilità, indagarne i meccanismi linguistici in funzione narrativa, grattare la superficie fino a smascherare l’ideologia sottostante, farlo stridere e interagire con tutto ciò di cui ha saputo impadronirsi, sottoporlo al vaglio della continuità e discontinuità, sfilacciare ciò che è compatto e vivificare ciò che è formulaico: tutto questo è ancora a venire, ma grazie a questo libro è ora finalmente davvero a portata di mano.