Un mare di oggetti 3. Ombrellone

22 Luglio 2023

C’è un'insolita sequenza di due foto che immortalano Pablo Picasso sulla spiaggia di Golfe-Juan, in Costa Azzurra. A scattarle è stato Robert Capa, nel ferragosto del 1948.

Nel primo scatto l'artista andaluso è colto mentre, sradicato dalla sabbia un ombrellone, lo brandisce con aria fiera, quasi fosse un trofeo, le gambe divaricate ben piantate nella rena e le braccia incrociate sul petto. Pare un guerriero.

Dall’espressione del suo viso si intuisce che ha in mente qualcosa.

Infatti, nel secondo scatto, eccolo attuare il suo piano: seguire la divertita e bellissima Françoise Gilot, sua musa, sua compagna di vita e sua collaboratrice, reggendole sopra la testa l’ombrellone a farle schermo con la sua ombra dai raggi del sole, quasi lei fosse una novella Amestris, la moglie del re persiano Serse, e lui il suo devoto schiavo.

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Penso ad Amestris, perché questa foto, mi richiama sempre alla mente il famoso bassorilievo persiano (risalente al 485 a.C.), che ritrae il re Serse, appunto, mentre esce dalla Sala del suo palazzo a Persepoli (oggi Iran), scortato da due schiavi che gli reggono sopra la testa un ombrello parasole.

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Pare che l’ombrello parasole sia nato nell’antico Egitto, ma che abbia conosciuto vasta diffusione anche in Persia e in Cina. In ogni caso il suo utilizzo era riservato alle persone di rango, agli aristocratici e ai maggiorenti delle varie corti reali o imperiali. Era infatti un simbolo di dignità e serviva a preservare il chiarore della pelle, segno di nobiltà, e a far sì che essa non fosse danneggiata dal sole, come invece era per i comuni mortali (tutto il contrario di quel che accade oggi). Documentato dalla pittura vascolare nell’antica Grecia, in Etruria e in epoca romana, durante quest’ultima il parasole conobbe anche un’applicazione nell’architettura, la quale, dato il suo destino civico, si preoccupava di proteggere l’intero popolo dal sole quando assisteva ai giochi circensi (forieri di consensi politici al potere dominante) o agli spettacoli teatrali (imparentati con la religione). È a tutti noto il grande velario che ricopriva il Colosseo, ma recenti scavi archeologici hanno riportato alla luce anche gli agganci per i velari nel teatro romano di Terracina, uno dei primi ad essere stato costruito, così come dovevano essercene in tutti i teatri dell’impero.

Curiosità: Le basiliche romane erano dotate di un particolare telo di tessuto sottilissimo (forse seta) che si chiamava canopeo (dal greco kanopos, che significa zanzara), detto anche ombrellone, con funzione di paramento. 

Lo ritroviamo nelle chiese di Roma che godono del titolo di basilica (altrimenti detto canopeo, o padiglione, o sinnicchio), “consistente in un grande ombrello, che, aperto, ha forma di cono con bande alternate di porpora e oro (i colori della città di Roma), e termina alla sommità con un globo sormontato da una croce.” (Treccani)

Tra gli apparati liturgici del rito ambrosiano vi era anche un canopeo/ombrellone, un telo teso sopra l’altare e tenuto aperto da statue di angeli, il cui tessuto cambiava colore a seconda dei tempi liturgici. Fu abolito dal Concilio Vaticano II. Ne possiamo vedere uno nel quadro del Fiammenghino San Carlo celebra sinodi, ambientato nel Duomo di Milano e datato 1602.

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Che il termine ombrellone sia un accrescitivo di ombrello, non ce lo deve svelare un dizionario, tuttavia, sull’origine del nome ombrello, il Battisti - Alessio ci informa che la voce discende dal latino umbrella, diminutivo di umbra (ovviamente ombra), e ci dice di come essa fosse molto cara agli scrittori latini Marziale e Giovenale.

Il vocabolario Treccani, poi così definisce l’ombrellone: “Grande ombrello, spesso a colori vivaci, che si pianta in terra o su appositi sostegni sulla spiaggia, nei giardini privati, nelle terrazze degli alberghi, nei bar all’aperto, ecc., come riparo dal sole.”

A partire dalla fine del XIX secolo, l’ombrellone diviene uno dei simboli delle vacanze al mare, dell’estate e delle spiagge assolate. È cantato in mille canzonette, tra le quali la più famosa e la più allegra è sicuramente Un’estate al mare di Giuni Russo del 1981:

Un'estate al mare
Voglia di remare
Fare il bagno al largo
Per vedere da lontano gli ombrelloni, -oni, -oni

Di ombrelloni parla anche la poesia Sulla spiaggia di Eugenio Montale, datata 30 settembre 1972:

Ora il chiarore si fa più diffuso.
Ancora chiusi gli ultimi ombrelloni.
Poi appare qualcuno che trascina
il suo gommone.

Ci sono anche dei modi di dire che riguardano questo oggetto d’arredo estivo: Letture sotto l’ombrellone; Cineombrellone; Il vicino di ombrellone.

Per Letture sotto l’ombrellone si intendono quelle leggere, magari anche un po’ frivole, che aiutino il lettore a rilassarsi quando è in vacanza. Quelle che non richiedono alcun impegno intellettuale, che sono puro relax, insomma, un passatempo piacevole, una lettura d’evasione.

La prima a coniare questa felice e fortunata espressione è stata la giornalista americana Michelle Dean in un articolo sul Guardian. Era l’estate del 1999, da allora questo modo di dire è entrato nel gergo comune e non ne è più uscito.

Il termine cineombrellone (composto dal confisso cine- aggiunto al s. m. ombrellone) è il contraltare estivo del cinepanettone. Apparso per la prima volta sul Corriere della sera nell’agosto del 2008 a proposito del film di Carlo Vanzina Un’estate al mare, da allora ricorre ad ogni estate per definire i film di “una comicità fatta di pietas e malinconica ferocia” (Treccani) in cui il protagonista è il solito “cornuto e mazziato”. (Gian Paolo Polesini, Messaggero Veneto, 14 giugno 2009).

I Vicini di ombrellone più temuti sono quelli rumorosi, che parlano ad alta voce tra loro, o al cellulare, oppure che ascoltano musica a tutto volume. Poi ci sono quelli che vogliono sempre attaccare discorso, quando magari si ha voglia di stare tranquilli e di schiacciare un pisolino. Ma sono assai fastidiosi pure quelli che scrollano controvento la sabbia dall’asciugamano.

Insomma, anche per la vita sociale sotto l’ombrellone esiste un galateo da rispettare.

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