Speciale
Viaggio fuori dallo spazio-tempo
Vorrei stare da solo, a Bellinzona. E come si fa? A Bellinzona sono nato, a Bellinzona vivo, e non ho più nella memoria le prime passeggiate, le sconfitte e le scoperte, le fughe, il rischio del ritorno. Tutto è nascosto sotto una piacevole coperta di abitudini. Ma per parlare di una città, dicono le guide più avvedute, devi starci da solo per un po’. Non basta esserci cresciuto, devi essere in grado di tornarci come nuovo. Potrei camminare con gli occhi bendati. Potrei farlo dopo un’immensa nevicata, di quelle che ridisegnano le città, oppure potrei scegliere una via dove non sono mai passato. Perché a pensarci bene qua e là ci sono cortili o stradine che non ho mai voluto percorrere, e che potrebbero nascondere qualunque cosa. Sotto la coperta di abitudini, forse barando un poco, mi sono conservato qualche pezzo di mistero.
Non basta. Ciò che voglio offrire ai lettori di questa guida è l’ignoto, sì, ma non come evento casuale. L’ignoto che mi interessa è quello che sta lì ad aspettarti come un cane sdraiato sullo zerbino. Voglio crearmi, come scriveva Giorgio Orelli nel suo Pomeriggio bellinzonese, «una bella zona di resistenza alla noia», in cui abituarmi «a una presenza inattesa». A proposito di Orelli. Una strategia potrebbe essere quella di affidarmi ai libri. Percorrere il mercato cittadino con gli occhi di Arthur Rimbaud, che passò di qui nel 1878, cent’anni prima della mia nascita. Oppure affidarmi alla sintesi di Orelli: «Una fascina d’anni / una collina. / E il castello più alto». Lo stupore non mancherebbe: «Tutto il grigio all’altezza dei colombi, / tutto il verde che scorre fino al grigio…». Ma ho l’impressione che così sarebbe troppo facile, che dovrei invece guidare i viaggiatori attraverso posti che ancora non hanno trovato parole.
Ecco dunque la mia idea: non parlerò dei castelli né di San Biagio, non descriverò la Collegiata né la Villa dei Cedri. Vi propongo invece quattro luoghi dietro le quinte. Sono posti qualunque, forse anche banali, ma non mi hanno mai tradito e, nel cuore di Bellinzona, non mi rifiutano mai un viaggio fuori dallo spazio-tempo.
Bambù
Luogo: Villa dei Cedri, ingresso su via Rompeda.
Stagione: soprattutto in primavera.
Orario: preferibilmente di pomeriggio, verso sera.
Equipaggiamento: un cappello a tesa larga non guasterebbe.
Tempo: cinque minuti.
Un consiglio ai viaggiatori: fate in modo di essere soli, perché in compagnia si rischia di guastare l’atmosfera. Bisogna poi avere nel proprio bagaglio di sogni a occhi aperti qualche romanzo d’avventura, o almeno qualche film. L’ideale sarebbe aver divorato pagine di Salgari nei pomeriggi estivi della propria infanzia, seduti all’ombra mentre fuori divampava un’afa degna del Borneo. Indossate il vostro cappello a tesa larga, spingete il cancello e inoltratevi nei territori inesplorati. Appena entrati, sulla sinistra c’è un boschetto di canne di bambù. Cancellate la parola “boschetto” dalla mente, trattenete soltanto “bambù”. Avanzate con cautela, con i sensi all’erta, pronti a captare il minimo fruscio, il minimo segno d’allarme. È importante che vi rendiate conto di essere soli. I vostri compagni vi aspettano alla fine del viaggio, ma in questo momento potete contare soltanto sulla vostra tenacia e sul vostro istinto. Socchiudete gli occhi, tra le canne di bambù, immaginate la giungla infida tutt’intorno a voi, ascoltate lo scricchiolio del vostro passo, sfiorate con le mani i tronchi lisci e, asciugandovi il sudore della fronte, respirate l’odore della vita selvaggia. Ma non indugiate troppo a lungo: presto scenderà il buio, e la giungla diventerà pericolosa.
Tavola a mulino
Luogo: scarpata ferroviaria di fianco a via Federico Pedotti.
Stagione: inverno (l’aria pungente aiuta).
Orario: la mattina presto (purché ci sia già un po’ di luce).
Equipaggiamento: scaricate da internet le regole della “tavola a mulino”.
Tempo: un paio di minuti, prima che la partita entri nel vivo.
Avviatevi lungo via Pedotti ed esaminate la scarpata ferroviaria, aguzzando la vista. Preferibilmente eseguite questa operazione nelle prime ore del giorno. Per due ragioni: primo, la via sarà pressoché deserta; secondo, l’aria rarefatta del primo mattino agevola il funzionamento delle macchine del tempo, anche delle più rudimentali. A un certo punto, in mezzo ai detriti e ai ripari fonici, vedrete affiorare due o tre colonne di pietra. Come ricorda una targa quasi illeggibile posta nelle vicinanze, si tratta dei resti del Convento degli Agostiniani, sepolto da un cumulo di detriti – e dunque cancellato dalla faccia della terra – a causa di un’alluvione che nel 1768 sconvolse il torrente Dragonato. Tra queste macerie, è visibile anche uno schema per la tavola a mulino. Il tavoliere, risalente agli inizi del 1700, è uguale a quelli che ancora oggi si possono trovare in qualunque supermercato: tre quadrati concentrici, intervallati da brevi linee perpendicolari per indicare i percorsi delle pedine. Ora cercate d’ignorare il resto. Fissate il tavoliere. Se il momento è propizio, lo slittamento temporale non si farà attendere: il convento affiorerà massiccio dalle colonne rimaste, i binari svaniranno e intorno al gioco, avvolti nelle tonache nere, due monaci agostiniani cercheranno di battersi in astuzia e intuito, anticipando le mosse l’uno dell’altro, tanto immersi nella partita da non accorgersi della vostra presenza.
Voi cercate di avvistare le pedine bianche e nere sulla roccia e, caso mai vi venisse in mente una mossa per aiutare il monaco più sprovveduto, non abbiate esitazioni. Mettete le mani intorno alla bocca e gridate: attento, stai dimenticando una pedina in basso a destra… Guarda che così ti fai fregare!
Ghost Town
Luogo: Prada, sopra il quartiere di Ravecchia.
Stagione: autunno, forse, ma vanno bene anche le altre.
Orario: tarda mattinata (l’appetito aiuta a evocare gli odori).
Equipaggiamento: scarpe da montagna, un bastone di legno per la salita.
Tempo: almeno un’ora.
Sopra l’ospedale e sotto il Castello di Sasso Corbaro, vicino all’Oratorio della Madonna della Neve, parte una mulattiera ripida, di quelle che mozzano il fiato. Non abbiate fretta. Camminate sui lastroni di selciato, fra i muri, aiutandovi con il bastone di legno (evitate quelli da nordic walking, se potete: non sono adatti per entrare in una ghost town). Prada si presenta all’improvviso, e nessuno mi toglierà dalla testa che la prima avvisaglia sia una diversa qualità di silenzio. Forse perché acquattati in fondo al vuoto ci sono tutti i suoni che il tempo ha dimenticato quassù, e che ormai sono muti, certo, ma che lasciano come un riverbero, una sospensione.
Il salto in questo caso è duplice: temporale e spaziale. State camminando tra i resti di un villaggio abbandonato da almeno tre secoli. Intorno a voi, smangiati dai rampicanti, fiaccati dagli anni, ci sono muri di pietre, ricordi di arcate d’ingresso, finestre, stanze vuote e croci consunte sugli architravi. Oggi il terreno si è fatto scosceso e non resta traccia di quel pianoro illuminato dal sole. Ma basta poco per sentire il battito di un martello, l’odore della minestra. In piedi, dentro i resti di una casa, potrete sentire piangere bambini e razzolare galline. Ma nello stesso tempo, sarete coscienti dei noccioli che entrano dalla finestra, delle radici dei faggi che sfondano le pareti. Perché Prada, ormai, è una ghost town. Ecco allora territori sconfinati, un cavaliere solitario che arriva tra le baracche di un villaggio. Porte che sbattono, l’ombra di un avvoltoio e quei cespugli, sospinti dal vento, che rotolano lungo la main street… Proprio così: fra le altre cose, Prada vi offre pure un film western in versione elvetica. E tutto senza spesa, tranne qualche litro di sudore e qualche grammo d’immaginazione.
Luogo: tra via Raggi e via Borromini, dietro la fermata del bus Semine.
Stagione: preferibilmente d’estate.
Orario: tardo pomeriggio.
Equipaggiamento: un giornale, un panino e una birra.
Tempo: a partire da un quarto d’ora, meglio mezzora o un’ora.
Un uomo grasso, prima di scegliersi una panchina, gira intorno alla fontana. È corrucciato, come se qualcosa non fosse al suo posto: sembra una governante che faccia un’ispezione nella stanza dei bambini. Alla fine, con un sospiro, si mette all’ombra, accanto a due ragazze che giocano con il cellulare. Voi avete parcheggiato di fianco alla stazione di servizio della Shell. Poi avete attraversato via Raggi ed eccovi qui, in uno slargo circolare con al centro una fontana che sembra un barile. Non lo sapete ancora, ma siete nel centro di Bellinzona. L’uomo sfoglia il giornale. Arriva una madre dalla pelle scura, con un passeggino iper tecnologico.
Poi un’altra ragazza con i capelli rossi. Prima ancora di sedersi, scrive qualcosa sull’iPhone. Una delle prime due ragazze scoppia a ridere e grida: non è possibile, quando l’hai visto? Mentre nell’aria sfrecciano messaggi silenziosi, nella piazzetta vanno e vengono le persone più disparate: il WhatsApp di carne, ossa e sudore si sovrappone a quello virtuale di faccette sorridenti. Vecchi con il girello, signore dai capelli azzurri, adolescenti che avvitano lo skateboard intorno alle panchine, uomini e donne di ogni razza, di ogni età, pronti a cogliere l’occasione per sedersi e fare due chiacchiere. Sedetevi anche voi, con il vostro giornale. Cavate di tasca il panino, stappate la birra. Bisogna prendersi il tempo, lasciare che la città vi avvolga. Disoccupati, studenti, pensionati, lavoratori: tutti s’incrociano in questa oasi urbana, seguendo i passaggi pedonali o le strade invisibili degli smartphone. Bellinzona è qui. Un arabo dalla barba grigia, con le ciabatte, si siede accanto all’uomo grasso. Una donna richiama con voce stentorea e accento ispanico un bambino che tenta d’immergersi nella fontana. Fa caldo, dice l’arabo al ciccione. Eh, risponde lui, chi non lo farebbe un tuffo?