Alberto Arbasino, America Amore

16 Settembre 2011

Inseguendo se stesso da un decennio all’altro, Alberto Arbasino ha finito per comporre la geografia della nostra memoria culturale.Da Parigi o cara a Trans-Pacific-Express, si può dire che non ci sia parte del globo, quasi, che non abbia confitta la sua bandierina. A completare la fodera del mappamondo, però, mancava ancora un tassello (e che tassello!): quello ora uscito col bellissimo titolo America amore (Adelphi, pp. 867, € 19.00). Vi è compresa gran parte d’un libro, già nel ’68 composito, come Off-Off (quella appunto dedicata ai gruppi teatrali dell’off off Broadway scoperti nel ’66: estranei sia alle convenzioni del teatro “borghese” che a quelle dell’avanguardia “ufficiale”), un po’ di reportage sciolti (“Altri luoghi” rispetto all’East Coast – direttrice Harvard-New York – e alla California – lungo la “mitica” Road 101), una corposa sezione dello “zibaldone” teatrale del ’65, Grazie per le magnifiche rose, e per sovrammercato “Trenta posizioni”, delle quali undici prelevate dalle mitiche Sessanta del ’71: a Hemingway, Bellow, Salinger e Roth affiancandosi Woody Allen e Bret Easton Ellis, Gore Vidal e Truman Capote. Con addirittura un ricordo del millenario Ezra Pound che, come suo costume, magneticamente tace (ma – se si paragonano i suoi silenzi a quelli di Beckett – si volta e dice “no”).

 

Il titolo è parodia di un precedente illustre: America amara di Emilio Cecchi, 1940. Che la tradizione dell’essai divagante-formicolante sia stata da noi acclimatata proprio da Cecchi (insieme al suo iperbolico discepolo Mario Praz), e che da lì l’abbia fatta propria, Arbasino non ha mai fatto mistero. Ma assai diverso, appunto, il suo modo di guardare l’America. Era un’acquaforte all’atrabile, quella di Cecchi: i tempi, del resto, non lo spingevano all’equanimità. (Ho in mano un’edizione di guerra – “1943-XXI” – con foto di linciaggi, sanguinosissima cronaca nera e altra roba da Ufficio Propaganda.)

 

Lo dice subito, Arbasino: ogni europeo che vi sbarchi si chiede subito “la verità su questo paese, se è America Amara o America Amore […] indeciso tra il fascino e la ripugnanza”. Del resto, se straordinario è da sempre il talento fenomenologico di Arbasino, inesistente è la sua attitudine al rilievo morale. Quanto più si avvicina a un bilancio è il capitolo “Senza querce”: ma l’America è la quintessenza dell’indecidibilità. E Lolita, allora, la sua perfetta allegoria (quella “invecchiata” del finale di Nabokov, o di tutto il siderale secondo tempo di Kubrick). È stato maliziosamente notato come in copertina figuri la Liz Taylor di Cleopatra, colossale flop ’63, senza che si potesse prevedere che l’uscita avrebbe coinciso con la scomparsa della Diva (tanto postuma a se stessa da essere sopravvissuta all’autore del suo “coccodrillo” sul New York Times…). Ancor più colpisce come la stessa Liz sia da Arbasino prima dileggiata, per la buzzurraggine nel peplum di Mankiewicz (“sempre sudata, disordinata, non lavata, cenciosa, unta, grassa”), e poi riverita per la classe di Chi ha paura di Virginia Woolf? Oltre a celebrarne, ex post, gli “occhi […] assolutamente memorabili”.

 

Ecco la – squisitamente arbasiniana – strategia dello “zoom temporale ben attestato sul ‘post’”. A differenza che nei libri-fonte nessun pezzo, qui, reca una data. Da un lato perché labirintiche sono le filiere – fra i reportage per Il Mondo, Tempo presente o Il Giorno, le riscritture nei volumi e l’ulteriore restyling odierno, senza contare i frequenti flash-forward in clausola. Dall’altro perché da tempo Arbasino si diletta, come dice, nell’“elaborazione di varie memorie”. Cioè nella loro rielaborazione: con tanto di sottili palinodie a distanza. Delle recensioni di Edmund Wilson dice che sono così acute “da funzionare come cronaca illuminante ‘a caldo’, e (senza ritocchi) ‘far Storia’ più tardi”. Vale anche per lui, ovvio. Sicché un po’ fa specie che nella sezione di gran lunga più brillante, quella sull’off-off, si affollino chirurgici, e non dichiarati, revisionistici “ritocchi” delle ebbrezze del ’66 (gli “eroi pop” diventano “pop omologati”, un orgasmo “polimorfo” diventa “correct e rock”… di contro, i “negri” davvero incorrect del ’66, ora, sono tutti “neri”).

 

A queste pagine nulla può togliere, però, l’eccitazione che irradiano, miracolose, a quasi mezzo secolo di distanza. Ci trascina con lui, Arbasino, “in questo paese meraviglioso”: dietro “alla bellezza della gente, dei vestiti, della musica […] si tratta veramente di respirarle, queste musiche, vivendoci in mezzo”. Nessuno, davvero, può giudicare: tuffato nel parapiglia, nella ridda e nel “fandango”. Andy Warhol proietta i suoi film sino allo svenimento degli spettatori, con Sun Ra il jazz diventa una “mitragliatrice d’odio che aggredisce il pubblico”. Ogni sera è carnevale (non a caso il melomane ricorda come il verdiano Ballo in maschera sia ambientato a Boston…), “vediamo tutto. Tocchiamo tutto”. Ma alla fine, ecco stagliarsi il deserto: con l’aria “di un nitore insostenibile, molto salutistico, e la pulizia di ogni superficie quasi disumana”. Contrappasso, secco, degli eccessi e delle ebbrezze. L’ultima pagina è dedicata al benessere, senile e un po’ “Biedermeier”, delle Hawaii. Ma anche qui è in agguato il Tempo, Grande Sterminatore: “Scappiamo, scappiamo, prima che la musica s’interrompa improvvisamente, e una voce colonnellesca dall’altoparlante ci metta tutti sull’attenti perché stanno succedendo delle cose nell’attigua Pearl Harbor”. Per i farfalloni amorosi, davvero the masquerade is over.

 

Articolo apparso su TTL del 9 aprile 2011

 

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