Alfieri / Rime

25 Luglio 2011

A proposito della questione nazionale, Giacomo Debenedetti definì Alfieri “il poeta della vigilia”. È arcinota, del resto, l'influenza che le sue opere ebbero sulle generazioni successive, da Foscolo a Leopardi, passando per Mazzini, proprio in chiave civile. Alfieri, infatti, non si esime dall’“Esortazione a liberar la Italia dai barbari”, nell’ultimo capitolo Del principe e delle lettere (a sua volta ripreso espressamente dall'ultimo del Principe machiavelliano), o di citare con trasporto Dante in un celebre passo dellaVita, allorquando può rientrare avventurosamente in Italia  (“Ci parve di rinascere il dì che ci ritrovammo nel bel paese qui dove il sì suona”). Ma anche di scrivere sonetti gravidi di sprezzante sarcasmo come questo (Rime, CXLIII 1785), scritto il “7 settembre [1795]. Fra novi e San Benedetto”.

 

Ai Fiorentini il pregio del bel dire;

ai Romaneschi quel di male oprare;

Napoletani mastri in sciamazzare;

e i Genovesi di fame patire.

 

I Torinesi a i vizi altrui scoprire,

i Veneziani han giusto lasciar fare;

i buoni milanesi a banchettare;

lor ospiti i Lucchesi a infastidire;

 

Tale d’Italia è la primaria gente:

smembrata tutta, e d’indole diversa;

sol concordando appieno in non far niente.

 

Nell’ozio e ne’ piacer noiosi immersa,

negletta giace, e sua viltà non sente;

fin sopra il capo entro Lete sommersa.

 

 

Edizione di riferimento: V. Alfieri, Vita, Rime e Satire, a cura di L. Fasso, Torino, Utet, 1978

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