Speciale librerie | Librerie a Palermo
Durante le vacanze natalizie mi è capitato di incontrare un amico scrittore palermitano, che vive da molti anni in Continente – e nondimeno, specie dalla specola isolana, resterà sempre, suo malgrado, uno scrittore palermitano – giusto davanti a una bancarella di libri usati, tra i banchi di un mercatino natalizio improvvisato per le festività, in piazza Marina, nel centro storico. Presto ci siamo ritrovati a commentare la morte inaspettata di Lorenzo Giordano, storico libraio palermitano, occorsa qualche mese prima, e la conseguente, desolante chiusura della sua libreria, l’Aleph, nel quartiere Libertà. Ci siamo rammaricati per il duplice lutto e perfino per il fatto che gli articoli che lo commemoravano sulla stampa locale, indulgendo in quella pietà omissiva che si presume si debba ai defunti, non restituissero la complessità del suo carattere: era un bibliofilo raffinato, Giordano, che non aveva nessuna remora a risultare sgradevole nel formulare i suoi giudizi letterari né ad affettare la sua alterigia verso un cliente che non riusciva a conquistare la sua benevolenza. Era di destra, ma nell’accezione di Nietzsche e Zolla, non certo in quella di Berlusconi e Storace, e qualche amica sostiene che la sua galanteria talvolta sconfinasse nella molestia. Ma era difficile resistere alla malia dei suoi racconti, tra gli scaffali di legno della sua libreria sempre illuminata appena più che troppo poco, come quello di quando recitò a memoria, a un vecchissimo Borges inopinatamente capitato in città, alcuni canti della Divina Commedia.
Immancabilmente, con l’amico scrittore palermitano, abbiamo dato la stura ciascuno ai propri ricordi personali e abbiamo finito col cedere all’aneddotica, pur con qualche ritrosia (sì, perché quella della memoria diventa una liturgia assai insidiosa – è opportuno che il lettore lo sappia – quando la si officia a Palermo, tra palermitani: per lo più, infatti, i palermitani si abbandonano alla rêverie con la stessa celia insopportabile di un vecchio demente che straparla della propria giovinezza per illudersi di differire ancora il momento del proprio trapasso, esibendo penosamente foto ingiallite e gloriosi cimeli di un catasto inservibile). E in effetti, anche parlare di librerie calcando il pedale della nostalgia è forse insopportabile. Nondimeno, per dire qualcosa della funzione civica che hanno assolto e forse ancora assolvono dalle nostre parti, ricorrere alla memoria – quand’anche niente affatto solenne, ma piuttosto prossima, insignificante e personale – è indispensabile. A costo di rischiare di ingrossare le fila dei quasi morti. E del resto, la frequentazione di alcune librerie cittadine, durante gli anni della giovinezza, poteva funzionare come un divertente e irregolare percorso formativo, specie per chi un percorso e una formazione voleva o doveva provare a tracciarseli quasi del tutto da sé, per di più se aveva in uggia qualche maestro universitario (il che non deve sembrare strano, se si pensa alla Palermo tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio dei Novanta, se si pensa a una grande città del sud colta e provinciale, a bassissima mobilità sociale e ad alta densità mafiosa).
Lorenzo Giordano non era l’unico libraio sulla cui variabile disponibilità all’interlocuzione, intorno ai nostri vent’anni, si potevano con buona approssimazione calibrare le tappe del proprio apprendistato (io mi sentii molto fiero quando andai a chiedergli l’edizione Adelphi dell’Arte della fuga di Pontiggia). Il mio percorso di formazione di lettore, per esempio, in quegli anni è stato scandito dagli indicatori di qualità dei rapporti che intrattenevo con il dioscuro della Feltrinelli di Palermo, di quando ancora la Feltrinelli stava davanti al teatro Massimo (poi scivolò di un centinaio di metri più in là, ingrandendosi in via Maqueda): Salvo Cangelosi. O meglio, più precisamente, dal grado di confidenza che voleva accordarmi. Fino ai primi anni di università era, per me, inavvicinabile: non osavo salutarlo, tantomeno interpellarlo per un’informazione: Salvo (o meglio, “Quello coi baffi”) era l’austero uomo elegante che aveva letto tutti i libri, al quale potevi rivolgerti soltanto avendo un bagaglio di conoscenze adeguato, ché, se sgarravi il riferimento bibliografico nel formulare la tua richiesta, ti scrutava con bieco disprezzo e magari neanche ti correggeva, a manifestare ulteriore disdegno. Fattomi giovanilmente impudente, ho cominciato a chiedere qualche informazione tortuosa a “Quello coi baffi”, quindi a scambiare col signor Cangelosi qualche battuta, fino a diventare amico di Salvo e a sentirgli tracciare la sua linea lombardo-sicula Manzoni-Vittorini-Sciascia-Arbasino o quell’altra Bartoli-Gadda-Manganelli, sempre corredate da preziosissime bibliografie critiche.
Ancora fino agli anni Novanta, poi, vagheggiavamo un altro eden libre(rie)sco: aspiravamo a varcare la soglia dell’ultima stanza della gloriosa libreria Flaccovio di via Ruggiero Settimo. Non tanto per una generica consapevolezza del prestigio della stessa, nei decenni passati stazione di posta per i letterati in transito dalla Conca d’Oro e centro d’accoglienza per quelli stanziali (dai cimeli e dalle foto ingiallite di cui sopra ogni tanto qualcuno ne tira fuori una in bianco e nero con il fondatore Salvatore Fausto insieme a qualche gloria letteraria nazionale): piuttosto perché eravamo convinti che avere libero accesso alla stanza del direttore Sergio (il figlio di Salvatore Fausto) attestasse il fatto di aver guadagnato, se non una piena cittadinanza, quantomeno uno straccio di permesso di soggiorno per la repubblica letteraria locale. Ma era comunque tutt’altro che disprezzabile restare in anticamera, mentre i nostri pigmalioni, Gaetano Testa o Francesco Gambaro, si intrattenevano oltre: eravamo pur sempre in una delle più belle e meglio provviste librerie della città, e potevamo semmai conversare con Piero Onorato (brillante, benevolo, accogliente) che la guidava con competenza.
C’era poi la libreria Sellerio di via La Farina, nella quale il mood era decisamente più scanzonato, quasi da allegro e velleitario bivacco intellettuale, animato da lunghe chiacchiere sul Palermo o su Perec, su Nick Cave o sui Cannibali (fatti salvi i momenti in cui la signora Elvira faceva una sortita non annunciata, ristabilendo provvisoriamente un clima più consono): ci lavoravano, più o meno saltuariamente, i nostri amici (alcuni dei quali poi sono perfino diventati scrittori: Nino Vetri, Alessandro Locatelli). Capitò anche a me di lavorarci, un paio di volte durante le feste natalizie e per un inventario: esperienze in cui si impara per sempre come fare le confezioni regalo e come sbarazzarsi, per esempio, di un vecchio libro illustrato su Mira Markovic Milosevic.
La cerimonia della memoria prevede di solito una conclusione che suoni più o meno: “Mais où sont le neiges d’antan?”, la scorribanda velleitaria della nostalgia, con l’acceleratore a tavoletta, arriva quasi sempre alla meta desolante degli “altri tempi, signora mia”. Ma forse non in questo caso. Certamente la situazione non è lusinghiera, in città, ma non ancora disperata. Anche la Sellerio in centro non c’è più, tuttavia la sede di Mondello ancora resiste. Come resistono la Flaccovio, la gemella Dante e altri importanti presidi diffusi (Sciuti, Pegaso, Mercurio e altri). Se il mediastore Feltrinelli, ora in via Cavour, mantiene un ampio spazio che ancora può dirsi comunque una “libreria Feltrinelli” lo si deve alla direttrice Lia Vicari e a Salvo Cangelosi, che per fortuna è ancora là. Pietro Onorato, invece, ora dà una mano alle figlie nella libreria Broadway, specializzata in cinema, teatro, arti visive. Altre indipendenti e militanti negli anni ne sono nate: Modusviventi (che ha lavorato tenacemente con la piccola editoria di qualità), Garibaldi (che tiene solo indipendenti in conto deposito). E qualcuno si azzarda a sostenere che, se non ci fosse stato il nuovo centro commerciale a Brancaccio, una libreria, da quelle parti, non l’avrebbero mai vista. Ci sarebbe semmai da discutere su quali libri vi si vendano, oggi, nelle librerie (e dunque della morsa degli oligopoli editoriali e della distribuzione nella quale sono costrette, per dirne una), ma ci vorrebbe un altro articolo.
L’amico scrittore l’ho rivisto pochi giorni fa. Era ripassato da Palermo ed era tornato a sostare davanti alle vetrine di quella che fu L’aleph: un pellegrinaggio laico, ormai. Mi ha mostrato sul suo cellulare le foto che aveva scattato: dentro la libreria sembra essere esplosa una bomba ‘intelligente’, che ha cancellato letteralmente ogni cosa, risparmiando solo le mura e il soffitto. Ma nella sala visibile dalla vetrina campeggia ancora intatta, nel nulla, la vecchia scrivania di legno di Lorenzo Giordano. Quasi morti anche noi, in definitiva. Ma non ancora del tutto.