Giovanni Pascoli / Italy

22 Febbraio 2012

Vetta dello sperimentalismo linguistico dell’autore di Mirycae, Italy, come e più degli altri Poemetti, ha il respiro di un vero e proprio racconto in versi (è del resto il più lungo delle raccolte). Ma questo dramma in miniatura dell’emigrazione cova anche gli aspetti più retrivi del “socialismo patriottico” di Pascoli (“un tentativo di rimozione delle paure piccolo-borghesi d’uno sconvolgimento radicale della società e insieme una risposta all’esigenza della piccola borghesia intellettuale di tornare a ricoprire un ruolo dirigente, negatole dallo sviluppo del capitalismo”, lo ha definito Giuseppe Nava. “Non a caso l’emigrazione è sentita dal Pascoli anche e soprattutto dal punto di vista linguistico, come perdita della lingua materna”).

Quell’antica madre (patria) che richiamerà al nido i propri figli precorre di pochi anni la Grande proletaria, che si muove nella sciagurata (altro che sfolgorante!) impresa coloniale libica celebrata dal poeta.

 

 

 

ITALY

 

Sacro all’Italia raminga

 

CANTO PRIMO

 

I

 

A Caprona, una sera di febbraio,

gente veniva, ed era già per l’erta,

veniva su da Cincinnati, Ohio.

 

La strada, con quel tempo, era deserta.

Pioveva, prima adagio, ora a dirotto,

tamburellando su l’ombrella aperta.

 

La Ghita e Beppe di Taddeo lì sotto

erano, sotto la cerata ombrella

del padre: una ragazza, un giovinotto.

 

E c’era anche una bimba malatella,

in collo a Beppe, e di su la sua spalla

mesceva giù le bionde lunghe anella.

 

Figlia d’un altro figlio, era una talla

del ceppo vecchio nata là: Maria:

d’ott’anni: aveva il peso d’una galla.

 

Ai ritornanti per la lunga via,

già vicini all’antico focolare,

la lor chiesa sonò l’Avemaria.

 

Erano stanchi! avean passato il mare!

Appena appena tra la pioggia e il vento

l’udiron essi or sì or no sonare.

 

Maria cullata dall’andar su lento

sembrava quasi abbandonarsi al sonno,

sotto l’ombrella. Fradicio e contento

 

veniva piano dietro tutti il nonno.

 

II

 

Salivano, ora tutti dietro il nonno,

la scala rotta. Il vecchio Lupo in basso

non abbaiò; scodinzolò tra il sonno.

 

E tentennò sotto il lor piede il sasso

davanti l’uscio. C’era sempre stato

presso la soglia, per aiuto al passo.

 

E l’uscio, come sempre, era accallato.

Lì dentro, buio come a chiuder gli occhi.

Ed era buia la cucina allato.

 

La mamma? Forse scesa per due ciocchi...

forse in capanna a mòlgere... No, era

al focolare sopra i due ginocchi.

 

Avea pulito greppia e rastrelliera;

ora, accendeva... Udì sonare fioco:

era in ginocchio, disse la preghiera.

 

Appariva nel buio a poco a poco.

“Mamma, perché non v’accendete il lume?

Mamma, perché non v’accendete il fuoco?”

 

“Gesù! che ho fatto tardi col rosume...”

E negli stecchi ella soffiò, mezzo arsi;

e le sue rughe apparvero al barlume.

 

E raccattava, senza ancor voltarsi,

tutta sgomenta, avanti a sé, la mamma,

brocche, fuscelli, canapugli, sparsi

 

sul focolare. E si levò la fiamma.

 

 

III

 

E i figli la rividero alla fiamma

del focolare, curva, sfatta, smunta.

“Ma siete trista! siete trista, o mamma!”

 

Ed accostando agli occhi, essa, la punta

del pannelletto, con un fil di voce:

“E il Cecco è fiero? E come va l’Assunta?”

 

“Ma voi! Ma voi!” “Là là, con la mia croce”.

I muri grezzi apparvero col banco

vecchio e la vecchia tavola di noce.

 

Di nuovo, un moro, con non altro bianco

che gli occhi e i denti, era incollato al muro,

la lenza a spalla ed una mano al fianco:

 

roba di là. Tutto era vecchio, scuro.

S’udiva il soffio delle vacche, e il sito

della capanna empiva l’abituro.

 

Beppe sedé col capo indolenzito

tra le due mani. La bambina bionda

ora ammiccava qua e là col dito.

 

Parlava, e la sua nonna, tremebonda,

stava a sentire e poi dicea: “Non pare

un luì quando canta tra la fronda?”

 

Parlava la sua lingua d’oltremare:

“... a chicken-house” “un piccolo luì...”

“... for mice and rats” “che goda a cinguettare,

 

zi zi” “Bad country, Ioe, your Italy!”

 

IV

 

Italy, penso, se la prese a male.

Maria, la notte (era la Candelora),

sentì dei tonfi come per le scale...

 

tre quattro carri rotolarono... Ora

vedea, la bimba, ciò che n’era scorso!

the snow! la neve, a cui splendea l’aurora.

 

Un gran lenzuolo ricopriva il torso

dell’Omo-morto. Nel silenzio intorno

parea che singhiozzasse il Rio dell’Orso.

 

Parea che un carro, allo sbianchir del giorno,

ridiscendesse l’erta con un lazzo

cigolìo. Non un carro, era uno storno,

 

uno stornello in cima del Palazzo

abbandonato, che credea che fosse

marzo, e strideva: marzo, un sole e un guazzo!

 

Maria guardava. Due rosette rosse

aveva, aveva lagrime lontane

negli occhi, un colpo ad or ad or di tosse.

 

La nonna intanto ripetea: “Stamane

fa freddo!” Un bianco borracciol consunto

mettea sul desco ed affettava il pane.

 

Pane di casa e latte appena munto.

Dicea: “Bambina, state al fuoco: nieva!

nieva!” E qui Beppe soggiungea compunto:

 

“Poor Molly! qui non trovi il pai con fleva!”

 

V

 

Oh! no: non c’era lì né pie né flavour

né tutto il resto. Ruppe in un gran pianto:

“Ioe, what means nieva? Never? Never? Never?”

 

Oh! no: starebbe in Italysin tanto

ch’ella guarisse: one month or two, poor Molly!

E Ioe godrebbe questo po’ di scianto!

 

Mugliava il vento che scendea dai colli

bianchi di neve. Ella mangiò, poi muta

fissò la fiamma con gli occhioni molli.

 

Venne, sapendo della lor venuta,

gente, e qualcosa rispondeva a tutti

Ioe, grave: “Oh yes, è fiero... vi saluta...

 

molti bisini, oh yes... No, tiene un frutti-

stendo... Oh yes, vende checche, candi, scrima...

Conta moneta: può campar coi frutti...

 

Il baschetto non rende come prima...

Yes, un salone, che ci ha tanti bordi...

Yes, l’ho rivisto nel pigliar la stima...”

 

Il tramontano discendea con sordi

brontoli. Ognuno si godeva i cari

ricordi, cari ma perché ricordi:

 

quando sbarcati dagli ignoti mari

scorrean le terre ignote con un grido

straniero in bocca, a guadagnar danari

 

per farsi un campo, per rifarsi un nido...

 

 

VI

 

Un campettino da vangare, un nido

da riposare: riposare, e ancora

gettare in sogno quel lontano grido:

 

Will you buy... per Chicago e Baltimora,

buy images... per Troy, Memphis, Atlanta,

con una voce che te stesso accora:

 

cheap!... nella notte, solo in mezzo a tanta

gente; cheap! cheap! tra un urlerìo che opprime;

cheap!... Finalmente un altro odi, che canta...

 

Tu non sai come, intorno a te le cime

sono dell’Alpi, in cui si arrossa il cielo:

chi canta, è il gallo sopra il tuo concime.

 

“La mi’ Mèrica! Quando entra quel gelo,

ch’uno ritrova quella stufa roggia

per il gran coke, e si rià, poor fellow!

 

O va per via, battuto dalla pioggia.

Trova un farm. You want buy? Mostra il baschetto.

Un uomo compra tutto. Anche, l’alloggia!”

 

Diceva alcuno; ed assentiano al detto

gli altri seduti entro la casa nera,

più nera sotto il bianco orlo del tetto.

 

Uno guardò la piccola straniera,

prima non vista, muta, che tossì.

“You like this country...” Ella negò severa:

 

“Oh no! Bad Italy! Bad Italy!”

 

VII

 

Italy allora s’adirò davvero!

Piovve; e la pioggia cancellò dal tetto

quel po’ di bianco, e fece tutto nero.

 

Il cielo, parve che si fosse stretto,

e rovesciava acquate sopra acquate!

O ferraietto, corto e maledetto!

 

Ghita diceva: “Mamma, a che filate?

Nessuna fila in Mèrica. Son usi

d’una volta, del tempo delle fate.

 

Oh yes! filare! Assai mi ci confusi

da bimba. Or c’è la macchina che scocca

d’un frullo solo centomila fusi.

 

Oh yes! Ben altro che la vostra rócca!

E fila unito. E duole poi la vita

e ci si sente prosciugar la bocca!”

 

La mamma allora con le magre dita

le sue gugliate traea giù più rare,

perché ciascuna fosse bella unita.

 

Vedea le fate, le vedea scoccare

fusi a migliaia, e s’indugiava a lungo

nel suo cantuccio presso il focolare.

 

Diceva: “Andate a letto, io vi raggiungo”.

Vedea le mille fate nelle grotte

illuminate. A lei faceva il fungo

 

la lucernina nell’oscura notte.

 

VIII

 

Pioveva sempre. Forse uscian, la notte,

le stelle, un poco, ad ascoltar per tutto

gemer le doccie e ciangottar le grotte.

 

Un poco, appena. Dopo, era più brutto:

piovea più forte dopo la quiete.

O ferraiuzzo, piccolino e putto!

 

Ghita diceva: “Madre, a che tessete?

Là può comprare, a pochi cents, chi vuole,

cambrì, percalli, lustri come sete.

 

E poi la vita dite che vi duole!

C’è dei telari in Mèrica, in cui vanno

ogni minuto centomila spole.

 

E ce n’ha mille ogni città, che fanno

ciascuno tanta tela in uno scatto,

quanta voi non ne fate in capo all’anno”.

 

Dicea la mamma: “Il braccio ch’io ricatto

bel bello, vuole diventar rotello.

O figlia, più non è da fare, il fatto”.

 

E tendeva col subbio e col subbiello

altre fila. La bimba, lì, da un canto,

mettea nello spoletto altro cannello.

 

Stava lì buona come ad un incanto,

in quel celliere della vòlta bassa,

Molly, e tossiva un poco, ma soltanto

 

tra il rumore dei licci e della cassa.

 

IX

 

Tra il rumore dei licci e della cassa

tossiva, che la nonna non sentisse.

La nonna spesso le dicea: “Ti passa?”

 

“Yes”, rispondeva. Un giorno poi le disse:

“Non venir qui!” Ma ella ci veniva,

e stava lì con le pupille fisse.

 

Godeva di guardare la giuliva

danza dei licci, e di tenere in mano

la navicella lucida d’oliva.

 

Stava lì buona a’ piedi d’un soppiano;

girava l’aspo, riempìa cannelli,

e poi tossiva dentro sé pian piano.

 

Un giorno che veniva acqua a ruscelli,

fissò la nonna e chiese: “Die?” La nonna

le carezzava i morbidi capelli.

 

La bimba allora piano per la gonna

le salì, le si stese sui ginocchi:

“Die?” “E che t’ho a dir io povera donna?”

 

La bimba allora chiuse un poco gli occhi:

“Die! Die!” La nonna sussurrò: “Dormire?”

“No! No!” La bimba chiuse anche più gli occhi,

 

s’abbandonò per più che non dormire,

piegò le mani sopra il petto: “Die!

Die! Die!” La nonna balbettò: “Morire!”

 

“Oh yes! Molly morire in Italy!”

 

 

CANTO SECONDO

 

Italy allora n’ebbe tanta pena.

Povera Molly! E venne un vento buono

che spazzò l’aria che tornò serena.

 

I

 

Vieni, poor Molly! Vieni! Dove sono

le nubi? In cielo non c’è più che poca

nebbia, una pace, un senso di perdono,

 

di quando il bimbo perdonato ha roca

ancor la voce; all’angolo degli occhi

c’era una stilla, e cade, mentre gioca.

 

Vieni, poor Molly! Porta i tuoi balocchi.

Dove sono le nubi nere nere?

qualche lagrima sgocciola dai fiocchi

 

delle avellane, e brilla nel cadere.

 

II

 

Porta the doll, la bambola, che viene,

povera Doll, anch’essa dal paese

lontano, ed essa ti capisce bene.

 

E quando tu le parli per inglese,

presso le guance pallide ti pone

le sue color di rosa d’ogni mese.

 

Dal suo lettino lucido, d’ottone,

levala su, che l’uggia non la vinca.

Non dorme, vedi. Vedi, dal cantone

 

sgrana que’ suoi due fiori di pervinca.

 

III

 

O Moll e Doll, venite! Ora comincia

il tempo bello. Udite un campanello

che in mezzo al cielo dondola? È la cincia.

 

O Moll e Doll, comincia il tempo bello.

Udite lo squillar d’una fanfara

che corre il cielo rapida? È il fringuello.

 

Fringuello e cincia ognuno già prepara

per il suo nido il mustio e il ragnatelo;

e d’ora in ora primavera a gara

 

cantano, uno sul pero, uno sul melo.

 

IV

 

Altre due voci ora dal monte al piano

s’incontrano: uno scampanare a festa,

con un altro più piano e più lontano.

 

L’una tripudia, e i mille echi ridesta

del monte, bianco ancora un po’ di neve.

Di tanto in tanto ecco la voce mesta;

 

ecco un rintocco, appena appena un breve

colpo, che pare così lungo al cuore!

No, non vorrebbe, o gente, no; ma deve.

 

C’è là chi sposa, ma c’è qua chi muore.

 

V

 

Buoni villaggi che vivete intorno

al verde fiume, e di comune intesa

vi dite tutto ciò che fate il giorno!

 

Si levano. Ora vanno tutti in chiesa,

ora son tutti a desinare, ed ora

c’è in ogni casa la lucerna accesa.

 

Poi quando immersi ad aspettar l’aurora

sembrano tutti, ecco più su più giù,

più qua più là, le loro voci ancora.

 

Pensano a quelli che non sono più...

 

VI

 

Lèvati, Molly. Gente ode parlare

la tua parlata. Sono qui. Cammina,

se vuoi vederle. Hanno passato il mare.

 

Fanno un brusìo nell’ora mattutina!

Ma il vecchio Lupo dorme e non abbaia.

È buona gente e fu già sua vicina.

 

Vengono e vanno, su e giù dall’aia

alla lor casa che da un pezzo è vuota.

Oh! la lor casa, sotto la grondaia,

 

non gli par brutta, ben che sia di mota!

 

VII

 

Sweet... Sweet... Ho inteso quel lor dolce grido

dalle tue labbra... Sweet, uscendo fuori,

e sweet sweet sweet, nel ritornare al nido.

 

Palpiti a volo limpidi e sonori,

gorgheggi a fermo teneri e soavi,

battere d’ali e battere di cuori!

 

In questa casa che tu bad chiamavi,

black, nera, sì, dal tempo e dal lavoro,

son le lor case, là sotto le travi,

 

di mota sì, ma così sweet per loro!

 

VIII

 

O rondinella nata in oltremare!

Quando vanno le rondini, e qui resta

il nido solo, oh! che dolente andare!

 

Non c’è più cibo qui per loro, e mesta

la terra e freddo è il cielo, tra l’affanno

dei venti e lo scrosciar della tempesta.

 

Non c’è più cibo. Vanno. Torneranno?

Lasciano la lor casa senza porta.

Tornano tutte al rifiorir dell’anno!

 

Quella che no, di’ che non può; ch’è morta.

 

IX

 

Quando tu sei venuta, o rondinella,

t’hanno pur salutata le campane;

 

ti venne incontro il nonno con l’ombrella,

ti s’è strusciato alle gambine il cane.

 

Pioveva; ma tu, bimba, eri coperta;

trovasti in casa il latte caldo e il pane.

 

Il tuo nonno ansimava su per l’erta,

la tua nonna pregava al focolare.

 

Brutta la casa, sì, ma era aperta,

o mia figliuola nata in oltremare!

 

X

 

Ha la pena da parte, oggi, e la vita

gli sente, e il capo, alla tua nonna, e il cuore;

e siede al focolare infreddolita.

 

Ieri si colse malva ed erbe more.

Oggi sta peggio. Ha due rosette rosse,

che non le ha fatte il fuoco che rimuore.

 

Molly, tu vieni e guardi. Ecco, ha la tosse

che avevi tu. Tosse ogni tanto un po’.

Sta lì nel canto come non ci fosse.

 

E non tesse e non fila. Oggi non può.

 

XI

 

Ha tessuto e filato, anche ha zappato,

anche ha vangato, anche ha portato, oh! tanto

che adesso stenta a riavere il fiato!

 

O dolce Molly, tu le porti accanto

Doll nel lettino lucido, e tu resti

con loro... Tanto faticato e pianto!

 

pianto in vedere i figli o senza vesti

o senza scarpe o senza pane! pianto

poi di nascosto, per non far più mesti

 

i figli che... diceano addio, col canto.

 

XII

 

Addio, dunque! Ed anch’essa Italy, vede,

Italy piange. Hanno un po’ più fardello

che le rondini, e meno hanno di fede.

 

Si muove con un muglio alto il vascello.

Essi, in disparte, con lo sguardo vano,

mangiano qua e là pane e coltello.

 

E alcun li tende, il pane da una mano,

l’altro dall’altra, torbido ed anelo,

al patrio lido, sempre più lontano

 

e più celeste, fin che si fa cielo.

 

XIII

 

Cielo, e non altro, cielo alto e profondo,

cielo deserto. O patria delle stelle!

O sola patria agli orfani del mondo!

 

Vanno serrando i denti e le mascelle,

serrando dentro il cuore una minaccia

ribelle, e un pianto forse più ribelle.

 

Offrono cheap la roba, cheap le braccia,

indifferenti al tacito diniego;

e cheap la vita, e tutto cheap; e in faccia

 

no, dietro mormorare odono: Dego!

 

XIV

 

Ma senti, Molly? Dopo pioggie e brume

e nevi e ghiacci, con la sua gran voce

canta passando a’ piè dei monti il fiume.

 

Passa sotto la gran Pania alla Croce

cantando, ed una lunga nube appare,

bianca di sole, al suo passar veloce.

 

Passa cantando: Al mare! Al mare! Al mare!

e l’Alpe azzurra ne rimbomba in cerchio,

e il cielo azzurro vede là fumare

 

l’alito che si lascia addietro il Serchio.

 

XV

 

O fiumi, o delle rupi e dei ghiacciai

figli rubesti, che precipitate

a pazza corsa senza posar mai,

 

con l’eterno fragor delle cascate,

ruzzando come giovani giganti,

senza perché, per atterrir le fate

 

delle montagne; e trascinate infranti

boschi e tuguri, urtate le città,

struggete i campi, sempre avanti, avanti,

 

avanti, pieni di serenità...

 

XVI

 

Acqua perenne, ottima e pessima, ora

morte ora vita, acqua, diventa luce!

acqua, diventa fiamma! acqua, lavora!

 

Lavora dove l’uomo ti conduce;

e veemente come l’uragano,

vigile come femmina che cuce,

 

trasforma il ferro, il lino, il legno, il grano;

manda i pesanti traini come spole

labili; rendi l’operare umano

 

facile e grande come quel del Sole!

 

XVII

 

La madre li vuol tutti alla sua mensa

i figli suoi. Qual madre è mai, che gli uni

sazia, ed a gli altri, a tanti, ai più, non pensa?

 

Siedono a lungo qua e là digiuni;

tacciono, tralasciati nel banchetto

patrio, come bastardi, ombre, nessuni:

 

guardano intorno, e quindi sé nel petto,

sentono su la lingua arida il sale

delle lagrime; infine, a capo eretto,

 

escono, poi fuggono, poi: - Sii male... -

 

XVIII

 

Non maledite! Vostra madre piange

su voi, che ai salci sospendete i gravi

picconi, in riva all’Obi, al Congo, al Gange.

 

Ma d’ogni terra, ove è sudor di schiavi,

di sottoterra ove è stridor di denti,

dal ponte ingombro delle nere navi,

 

vi chiamerà l’antica madre, o genti,

in una sfolgorante alba che viene,

con un suo grande ululo ai quattro venti

 

fatto balzare dalle sue sirene.

 

XIX

 

Non piangere, poor Molly! Esci, fa piano,

lascia la nonna lì sotto il lenzuolo

di tela grossa ch’ella fece a mano.

 

T’amava, oh! sì! Tu ne imparavi a volo

qualche parola bella che balbetti:

essa da te solo quel die, die solo!

 

Lascia lì Doll, lasciali accosto i letti,

piccolo e grande. Doll è savia, e tace,

né dorme: ha gli occhi aperti e par che aspetti

che li apra l’altra, ch’ora dorme in pace.

 

XX

 

Prima d’andare, vieni al camposanto,

s’hai da ridire come qua si tiene.

 

Stridono i bombi intorno ai fior d’acanto,

ronzano l’api intorno le verbene.

 

E qui tra tanto sussurrìo riposa

la nonna cara che ti volle bene.

 

O Molly! O Molly! prendi su qualcosa,

prima d’andare, e portalo con te.

 

Non un geranio né un bocciuol di rosa,

prendi sol un non-ti-scordar-di-me!

 

“Ioe, bona cianza!...” “Ghita, state bene!...

“Good bye”. “L’avete presa la ticchetta?”

“Oh yes”. “Che barco?” “Il Prinzessin Irene”.

 

L’un dopo l’altro dava a Ioe la stretta

lunga di mano. “Salutate il tale”.

“Yes, servirò”. “Come partite in fretta!”

 

Scendean le donne in zoccoli le scale

per veder Ghita. Sopra il suo cappello

c’era una fifa con aperte l’ale.

 

“Se vedete il mi’ babbo... il mi’ fratello...

il mi’ cognato...” “Oh yes”. “Un bel passaggio

vi tocca, o Ghita. Il tempo è fermo al bello”.

 

“Oh yes”. Facea pur bello! Ogni villaggio

ridea nel sole sopra le colline.

Sfiorian le rose da’ rosai di maggio.

 

Sweet sweet... era un sussurro senza fine

nel cielo azzurro. Rosea, bionda, e mesta,

Molly era in mezzo ai bimbi e alle bambine.

 

Il nonno, solo, in là volgea la testa

bianca. Sonava intorno mezzodì.

Chiedeano i bimbi con vocìo di festa:

 

“Tornerai, Molly?” Rispondeva: - Sì! -

 

 

Edizione di riferimento: Giovanni Pascoli, Poesie, a c. di A. Vicinelli Mondadori, Milano 1997

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