Fuoricampo / Caravaggio contemporaneo
Mai come oggi tanto attuale, Caravaggio. Ben più che attuale, se con questo termine si intende semplicemente “corrente”: contemporaneo. Per contare gli eventi dedicati, solo nel corso degli ultimi anni, al pittore di origine lombarda, non basterebbe un articolo intero. Di sicuro, non bastano tutte le dita delle mani che si trovano nei suoi dipinti, del resto quasi sempre impegnate a stringere un corpo, a sperimentare i limiti del senso del tatto, oppure a indicare qualcosa di indeterminato, qualcosa di ambiguo, presente, da qualche parte, nel visibile o nell’invisibile.
Limitandoci a due esempi recenti, si pensa prima di tutto alla mostra Dentro Caravaggio, inaugurata il 29 settembre a Palazzo Reale di Milano, dove dipinti come Salomé con la testa del Battista (1607 o 1610) e San Francesco in estasi (1597) sono esposti fianco a fianco con le loro radiografie, che invitano lo spettatore a scoprire la stratigrafia creativa dell’opera d’arte. In secondo luogo, si può ricordare la serie di dodici puntate, trasmessa su Rai 5, La vera natura di Caravaggio (2017), ideata e condotta da Tomaso Montanari: una puntuale ricostruzione del percorso artistico del Merisi e della traccia incisiva lasciata nella tradizione visiva seicentesca. Ma, a ben vedere, neppure una grande mostra come quella milanese e neppure un moderno “critofilm” sembrano sufficienti a contenere un’attualità che esorbita dai confini della storia dell’arte e si impone nel di scorso mediatico contemporaneo.
Rintracciamo citazioni di Caravaggio e forme di caravaggismo dappertutto: nei chiaroscuri delle drammatiche foto che ogni anno vincono il World Press o altri premi, scattate in luoghi lontani del mondo; nei gesti incarnati che hanno caratterizzano il salvataggio del piccolo Pasquale, intrappolato nelle macerie di una palazzina di Casamicciola, durante il terremoto di Ischia dell’agosto appena passato. Addirittura, si fa ricorso all’opera di Caravaggio per ironici quanto discutibili accostamenti con la cronaca politica italiana.
È così che, mentre Caravaggio “esce dalla storia dell’arte”, la storia dell’arte si arricchisce di strumenti teorici e metodologici per indagare le questioni di carattere estetico, sociale e politico implicate nella pittura. Non che i due fenomeni siano in un rapporto di causa effetto l’uno con l’altro, non che gli aneddoti sopra riportati abbiano avuto un’esplicita influenza sul campo della ricerca: si tratta piuttosto di una felice concomitanza.
L’uscita per Jaca Book del libro di Giovanni Careri Caravaggio. La fabbrica dello spettatore, già pubblicato in Francia per Citadelles & Mazenod, mette a disposizione dei lettori italiani una ricerca che si confronta con l’intero corpus pittorico caravaggesco, entrando in dialogo con le fonti seicentesche e con i principali studi di carattere storico e iconologico maturati negli ultimi anni, a livello internazionale: da Pamela Askew a Michael Fried, da Lorenzo Pericolo a Wolfram Pichler. Un libro che, pur restituendo l’opera di Caravaggio al contesto storico e culturale della Controriforma, sembra andare al cuore delle ragioni teoriche della sua attualità nella cultura visuale contemporanea.
Strutturato in dieci capitoli, comprensivi di introduzione ed epilogo, il libro pone infatti al centro l’analisi dei singoli dipinti mediante i quali il Merisi è stato capace di produrre effetti emotivi, cognitivi e sensibili inediti nel contesto pittorico del XVI secolo. Effetti tuttora capaci di esercitare una profonda fascinazione, se non una specifica efficacia, sugli spettatori.
Il capitolo di apertura costituisce una dettagliata analisi dell’Incredulità di san Tommaso (1601-1602) che spinge la ricerca storico-artistica a confrontarsi con la teologia dell’epoca: dalle omelie di Carlo Borromeo, nella Milano di fine Cinquecento, agli esercizi spirituali di Loyola. Una caratteristica, quella di far lavorare insieme l’analisi dell’immagine, la ricostruzione storica e la riflessione teologica, che si ritrova anche nelle precedenti ricerche di Careri, principalmente dedicate a Bernini e a Michelangelo, e che sembra definire l’originalità del suo metodo.
In particolare, quello “spettatore” del quale si parla fin dal titolo viene indagato su vari livelli, come una figura complessa e stratificata: in primis, lo spettatore come istanza semiotica, risultante dalle coordinate aspettuali dell’opera stessa; in secondo luogo, uno spettatore che potremmo definire “estetico” e “fenomenologico”, un soggetto della percezione e della sensazione; in terza battuta, uno spettatore ermeneutico e storico, dotato di competenze e di attese, culturali e religiose; in fine, lo spettatore empirico, portatore di uno sguardo inevitabilmente e irriverentemente contemporaneo. Si tratta di un approccio ereditato da studiosi come Louis Marin e Hubert Damisch, fondatori della scuola parigina di teoria dell’arte, ma sul quale Careri innesta strumenti e competenze di carattere multidisciplinare che rendono possibile studiare le modalità di costruzione – la fabbrica – dello spettatore come il risultato di un dispositivo complesso.
L’analisi dell’Incredulità di san Tommaso mette dunque da subito in evidenza come le diverse accezioni dello “spettatore” sopra elencate siano pur sempre derivate, per estensione, dalla prima: la “posizione” che il quadro assegna allo spettatore e dunque il “lavoro” che gli viene proposto di fare, spingendolo a farsi spettatore amante, nel primo gruppo di pitture affrontate nel libro, poi spettatore invitato alla conversione attraverso una pratica di “conformazione” e, infine, scomodo testimone dell’atto violento.
Tale approccio guida infatti il passaggio da un’opera all’altra, da un capitolo all’altro, nell’identificazione di tematiche trasversali alla pittura di Caravaggio: il rapporto tra autoritratto e riflesso, la relazione con se stessi e quella con il divino (capitoli IV e V), la messa in crisi delle norme iconografiche a vantaggio dell’osservazione dal naturale e di un nuova concezione dell’evento pittorico (capitoli VI e VII). Ma man mano che la lettura procede, si incontrano interpretazioni sorprendenti e sorprendentemente contemporanee. Tale effetto non è tanto dovuto all’intenzione di “attualizzare Caravaggio”, quanto alla volontà di mettere in rilievo, mediante l’analisi, la capacità stessa del Merisi di precorrere i tempi o, meglio, di dare forma visiva a problemi che la filosofia e le scienze umane e naturali avrebbero affrontato solamente nei secoli successivi.
È questo il caso del terzo capitolo, dedicato alle due opere di Caravaggio che portano il titolo Ragazzo morso dal ramarro (1593-1594 e 1596 circa). Un capitolo che costituisce l’occasione per immergersi nel problema estetico della stimolazione sensoriale dello spettatore. L’analisi dei due dipinti di Caravaggio non costituisce dunque un’esegesi dei significati simbolici del lucertolone che spunta dalle foglie, ma è piuttosto un invito a osservare l’espressione del ragazzo, la smorfia che affiora sul suo volto e il brivido che scuote tutto il suo corpo come qualcosa di assolutamente rivoluzionario. «Nel Ragazzo morso dal ramarro – scrive l’autore – la coincidenza tra il corpo e la carne è scossa e disfatta, poiché il sostrato carnale impone il suo spasmo a un corpo che viene a trovarsi “in ritardo” e a un soggetto che non riesce né a controllarlo né a comporlo in un pensiero» (p. 90). E, ancora, prosegue, esplicitando la cogenza di tale aspetto della pittura caravaggesca in relazione all’estetica e alle “retoriche della sensazione” che sembrano quanto mai attuali nelle arti e nei media contemporanei: «L’intuizione del giovane Caravaggio appare allora nella sua stupefacente modernità, esplorando in questo quadro un territorio del “sentire senza concetto” che nessun artista aveva scoperto prima di lui e che la filosofia della percezione scoprirà solo nel XX secolo» (Ibidem).
Un luogo comune vuole che i grandi libri illustrati siano portatori di scarso approfondimento storico e teorico, a vantaggio della spettacolarizzazione della dimensione visiva. Una sorta di “blockbuster” dell’editoria. Contro questa diceria, la composizione grafica delle moltissime immagini che accompagnano lo scritto sembra in alcuni passaggi assumere un valore teorico in sé. Sottraendosi pienamente a quella concezione che vorrebbe subordinare l’immagine al testo verbale, alcune pagine del libro sembrano farsi tavole di un atlante dei gesti e delle posture (il riferimento a Warburg è più volte esplicitato) che circolano all’interno del corpus caravaggesco, assumendo funzioni e significati diversi. Si tratta di pagine nelle quali si suggeriscono possibili accostamenti o, quantomeno, rime visive e concettuali che il discorso verbale sembra poter riferire con minore leggerezza e incisività, non senza incappare nei limiti stessi dell’ekphrasis e non senza scontrarsi con l’ordine del discorso che, inevitabilmente, inquadra una disciplina. È questo ad esempio il caso delle pagine dedicate al confronto tra la postura del Narciso (1597-1598), la cui paternità è ampiamente discussa da parte degli storici dell’arte, e quella dell’Apostolo dei Gentili nella Conversione di san Paolo (1602).
Ma la parte che suscita maggiore curiosità del lettore – e, soprattutto, di quanti avranno modo di sfogliare velocemente il libro dopo aver tolto guardinghi il cellophane, all’interno di una libreria – è senza dubbio quella centrale. Quelle pagine del capitolo VIII nelle quali si cerca di andare al cuore del “realismo cristiano” di Caravaggio, effettuando – questa volta sì – un esplicito montaggio anacronistico con il cinema di Pier Paolo Pasolini. Proprio accanto alle riproduzioni di altissima qualità della Deposizione dalla croce del 1602-1603 di Caravaggio, troviamo dunque una serie di fotogrammi tratti da La rabbia (1963) e da La ricotta (1963) di Pasolini. Si tratta di un accostamento che trova del resto una piena legittimazione in seno alla filmologia novecentesca, se si considera l’esplicita influenza esercitata dall’insegnamento di Roberto Longhi sullo studente di storia dell’arte Pasolini all’Università di Bologna.
In prima battuta, vengono dunque ripresi alcuni dei passi in cui Longhi descrive il carattere mondano, incarnato e umile delle figure sacre dipinte da Caravaggio e, in particolare, quel passo in cui suggerisce l’idea che il Merisi abbia messo in scena la Deposizione come un incidente minerario, con esplicito riferimento a quelli che sconvolsero l’Europa nel corso del Novecento: «quasi che dopo un crollo del cunicolo della cava – scrive Longhi – esso riemerga sulla plancia oscillante della pietra tombale recando in salvo almeno il corpo del più forte». Dopodiché, proponendo un’osservazione incrociata di pittura e cinema – di quadro e schermo –, Careri si spinge a formulare un’esplicita ipotesi interpretativa: che nella produzione del film di montaggio del 1963, Pasolini «avesse in mente le pagine longhiane relative alla Deposizione di Caravaggio: le si sente risuonare nella poesia che accompagna la sequenza, letta da Giorgio Bassani, mentre sfilano le immagini documentarie del dolore delle famiglie dei minatori» (p. 259).
Svelando e dando nuova vita agli anacronismi lessicali – l’ampio uso di metafore cinematografiche – e contestuali presenti negli stessi scritti di Longhi su Caravaggio, il libro non si limita dunque a mettere a fuoco le forme di rappresentazione del messaggio evangelico da parte del pittore, ma si spinge a indagarne le possibili forme di sopravvivenza all’interno dello scenario mediatico e politico contemporaneo.
Un’ultima serie pittorica che vale la pena di ricordare è quella sviluppata nel capitolo IX, riguardante le forme di rappresentazione della violenza. Il capitolo si concentra su dipinti come Giuditta e Oloferne (1598-1599), il Sacrificio di Isacco (1602-1603), la Decapitazione di san Giovanni battista (1607-1608), la Flagellazione di Cristo (1607) e Davide e Golia (1609-1610). Anche in questo caso il metodo iconologico, attento alle configurazioni piuttosto che al riconoscimento delle singole figure, si intreccia con la ricostruzione storica.
Ma, in una recensione che prende le mosse dall’“attualità di Caravaggio” all’interno del discorso mediatico contemporaneo non può sfuggire il continuo ricorso – «se si può riferire questa nozione anacronica alla pittura» (p. 337) – al concetto cinematografico di “fuoricampo” per descrivere la qualità specifica della luce in Caravaggio, che scende sui corpi da un altrove trascendente e immanente al contempo, oppure per analizzare le forme di coinvolgimento dello spettatore di fronte a scene di estrema violenza.
Piuttosto che nell’“attualità” della violenza e dei gesti che cercano di impedirla, rifuggirla o contenerla – come se quest’ultima avesse mai smesso di essere attuale –, è dunque l’idea di “fuoricampo” della pittura a offrire un prezioso spunto – eventualmente da approfondire – per ritornare con un rinnovato sguardo agli aneddoti proposti in apertura e alla “contemporaneità” dell’estetica del Merisi. È nella suggestione teorica di qualcosa come un pensiero del fuori all’interno della pittura di Caravaggio che si rintraccia una questione teorica di grande importanza per poter aprire consapevolmente – e senza rischi di forzature e derive interpretative – la riflessione storico artistica e il patrimonio del quale questa si prende cura, a un dibattito civile e politico che riguarda il tempo presente.
Giovanni Careri, Caravaggio. La fabbrica dello spettatore (Jaca Book 2017, pp. 383).