Autoritratto di una ritrazione / Carla Lonzi. Un’arte della vita
Il mito si alimenta di storie frammentate. Nasce dalla narrazione lineare di una vita, che si dipana intorno a eventi puntiformi collegati tra loro come da un tratto netto: ecco la storia, ne vedi i contorni? Silenti, davanti allo spettatore, i segni compongono un’immagine: la vergine dagli occhi a mandorla splendente d’oro, una Marylin dal sorriso fluorescente. Figure-create dalla cui bidimensionalità divinizzata la storia fatalmente ancora si emana, a nutrire il mito. Figure-create la cui voce si perde nella bidimensionalità iconica, affinché nella distanza del vedere si fondi il mito. L’icona offre una faccia e si lascia parlare, studiare, dall’alto della sua distanza.
Proprio per questo primato della distanza, della visione, della personalizzazione risulta paradossale pensare che accanto alle vergini bizantine e ad alcuni miti pop anche Carla Lonzi abbia rischiato una sorte simile. Archetipo incarnato dell’anti-mito – lei che abbandona la produttività dell’autrice per riparare lontano dagli sguardi da sotto in su che l’autorità produce– Lonzi si presta bene, con le sue tracce sparpagliate (scritti, fotografie, relazioni) e i suoi modi non convenzionali (registrazioni, ricerche, legami), a essere fatta icona. A lungo in bilico tra una vaga indifferenza (troppo lontana dalle rotte consuete) e una fiera celebrazione (infine lontana dalle rotte consuete), ella è stata oggetto di una strana forma di appropriazione da parte di autrici, teoriche e artiste – di tutti i sessi – che ne hanno visto il valore. Distinguo autrici, teoriche e artiste poiché l’entrata nel mito di Carla Lonzi ha proprio a che fare con una lettura parziale che tiene conto solo di alcuni suoi tratti, elidendone altri. Tale scrematura avviene per lei in maniera particolare, ovvero distinguendo tra un pre- e un post-, tra la critica d’arte e la femminista, tra colei che è nel mondo e colei che celebra la differenza attraverso l’assenza. Così, del suo vissuto si racconta una rottura – improvvisa, eclatante – tra l’esperienza dell’arte e quella del femminismo, rischiando di offrirne un ritratto statico e distante, le cui linee di contorno saturano il quadro. Fuor di metafora, sezionare la vita di Lonzi in questo modo dà luogo a una «narrazione […] [che ha] avuto l’effetto di rendere opaco proprio il durante» (39), ovvero il percorso (non il momento, o lo scoppio) attraverso il quale il femminismo “si fa”.
Il testo di Giovanna Zapperi (Carla Lonzi. Un’arte della vita, da poco pubblicato da DeriveApprodi) rifiuta la retorica della rottura “carismatica” per ridare spessore a un vissuto materico, fatto di esperienze variegate che si riflettono e si rimandano lungo l’arco della vita di Lonzi. Nel saggio di Zapperi vengono meno sia la tendenza agiografica del racconto ossequioso, sia la cronologica marcetta tipica di alcune biografie. Piuttosto, l’autrice mette in luce quella continuità bidirezionale per cui la critica d’arte porge degli strumenti alla femminista e quest’ultima li rimette in circolo nel momento in cui l’arte viene assimilata – come da titolo – dalla vita.
L’inizio, canonico, è Autoritratto. Tuttavia, nella lettura stimolante e fresca che ne dà Zapperi, quel testo appare come un’epigenesi. Lì, Lonzi devia dal ruolo della critica d’arte – sia in quanto persona con una certa autorità, sia in quanto modalità di prendere visione (sguardo ed epistemologia) – per istituire un rapporto orizzontale con gli artisti. Composto delle registrazioni delle conversazioni con questi ultimi, il testo lascia che siano gli artisti stessi i soggetti della parola dell’arte, presenti e non rappresentati. Al contempo, la critica d’arte (persona e opera di mediazione) non scompare: è la sua presenza a garantire la diffusione di queste voci. Lonzi è in quel lavoro il soggetto-prisma che incamera la luce e, attraverso l’operazione di montaggio di parole e immagini, la diffrange. Seguendo il percorso trasversale tracciato da Zapperi, la ricomposizione della complessità del pensiero di Lonzi avviene senza forzature, non per tappe, ma per transizioni. Quando non relegato nel “pre-” della retorica sminuente della rottura, Autoritratto si può leggere come il canovaccio sul quale verrà organizzato un processo di liberazione femminile che, sebbene prenda le fattezze di una pratica molto personale – il “partire da sé, l’autocoscienza –, avrà delle ripercussioni dirompenti, molteplici e plurivoche, tanto da caratterizzarsi «come una pratica collettiva potenzialmente estendibile al di fuori del gruppo» (230).
In Autoritratto, Lonzi si appropria, (quasi istintivamente, essendo il femminismo ancora non fatto) di una dimensione collettiva, in cui la partecipazione e i rapporti consentono lo schiudersi delle differenti soggettività. L’avvicendarsi di registrazione (presenza degli artisti) e montaggio (presenza di un soggetto che ne fa esperienza e se ne appropria) è una pratica sperimentale che si lega ai tanti fili che poi andranno a intessere il femminismo di Rivolta femminile. Qui già si manifestano la vocazione al riportare gli scambi su un piano orizzontale e la necessità (a quella connessa) di logorare i ruoli che andrebbero occupati. Il “disertare i ruoli”, la messa in mora di una istituzionalizzazione della propria soggettività, rimanda a sua volta alla sperimentazione costante da cui far emergere una soggettività differente. Ancora, all’interno di un lavoro dalla possibile disposizione accademica, l’uso di tecniche sperimentali e l’integrazione delle conversazioni private, «aspetti tradizionalmente rimossi dalla vita sociale» (60), guadagnano l’allure di un preludio. Così, si vede come dalla modalità di composizione di questo esperimento affiorino già i «temi [dal «significato apertamente politico»] della ripetizione, dell’anacronismo e dell’interruzione» (120), poi maturati appieno nel 1972 in Sputiamo su Hegel.
Le conversazioni dirette (momento quanto mai contingente) estendono (e modificano) il loro valore nell’essere tramutate in segni materiali che si nutrono non solo dell’ascolto, ma anche – e forse in primo luogo – di un gesto di mediazione che li inserisce in un contesto più ampio e complesso. La tecnica della registrazione è la prima esperienza di quello che diventerà poi una «sorta di palinsesto» (132), sul quale si struttureranno il diario (Taci anzi parla. Diario di una femminista) e il congedo dal compagno Consagra (Vai pure), opere fondazionali per il femminismo di Lonzi. Il montaggio, la scrittura del diario, la trascrizione sono forme distinte, ma contigue tramite le quali rivalutare, a posteriori, un momento contingente ri-presentandolo, esse «segnala[no] il momento in cui passato e presente si sovrappongono, riconfigurandosi uno attraverso l’altro» (126). Questo turbinare di momenti, sfilaccia il tempo della storia (linea retta che progredisce, tipica di una specifica lettura sui cui si è invitati a sputare), portando alla luce una temporalità fratturata, scandita in primo luogo dalla rivalutazione del presente, quale momento unico, contingente e indomabile in cui il soggetto “si incarna”, delineandosi «nei termini di una potenzialità […] all’interno di una dinamica collettiva» (146). In questa temporalità c’è, dice Lonzi, “tutto”. L’intreccio di passato, presente e futuro (si pensi ancora al registratore: ascoltare nel futuro un presente che è passato e che viene, nel presente, rimodulato) convoglia pratiche per loro natura plurali, collettive e “deperibili” «capaci di innescare processi di soggettivazione che contrastano il proprio assoggettamento» (148).
Ritorna a questo punto centrale il legame che corre tra la femminista e la critica. Infatti, come ben si coglie dalla ricostruzione di Zapperi, è nel rapporto con gli artisti e, soprattutto, con le artiste (v. in particolare capp. 5 e 6) che Lonzi capisce che l’arte (come chi la produce) non può farsi vettore di quelle forme liberatorie di costituzione del sé e di formazione dei legami. Di più, è a partire da una rinnovata concezione dell’arte (impossibile da ottenere se non stando in quel dominio, agendo sui concetti a questa propri) che si rende possibile l’articolazione di un pensiero politico imperniato sull’assenza.
Andiamo per ordine: sono le incomprensioni con le artiste che gravitano intorno a Rivolta (come Suzanne Santoro) o quelle, dolorose, che gravano sui rapporti affettivi più intimi (Carla Accardi e Pietro Consagra), che accompagnano l’autrice verso un progressivo inquadramento dell’arte come costitutivamente “maschile”. L’arte è un campo già strutturato, che presuppone il primato di un soggetto creatore, le cui produzioni possono essere fruite, al massimo possedute. Essa si mostra alfine una pratica istituzionalizzata, i cui prodotti presentano forti affinità con i frutti alienanti del lavoro. Così, la creazione artistica rimanda all’idea dell’unicità del creatore (non del prodotto, attenzione, siamo nel mito), postulando l’asimmetria tra l’artista – demiurgo – e lo spettatore – recipiente la cui soggettività si dà nell’accettazione passiva del prodotto consegnatole. Se in Autoritratto l’interazione con gli artisti era un moto di soggettivazione, Lonzi capisce che l’arte non può avere una vocazione liberatoria (v. 251, 256) quando si avvede che il “mito dell’unicità” che permea arte, attività artistica e artista non lascia spazio per la ritrazione, per il vuoto, per l’assenza. Forme, queste, dello stesso movimento che Lonzi farà femminismo. Il soggetto dell’arte non contempla la ritrazione, poiché pretende di riconoscere l’altra a partire da sé, piuttosto che aprirsi al riconoscimento di sé a partire dall’altra.
Allo stesso modo, l’artista abbraccia l’autenticità quale attestazione di unicità individuale, invece di cercarvi l’appartenenza a una collettività riconoscendo il vuoto in sé, facendo vuoto di sé. E infine, la creazione artistica si cristallizza nella presenza, al cospetto del prodotto tangibile dell’attività artistica, mentre per Lonzi la creatività abita il «ruolo “ricettivo”» che permette all’assenza di farsi compresenza, «permette[ndo] di far esistere l’altra persona attraverso una relazione» (223).
Eppure, attenzione. Tale movimento verso l’altra persona (lo dimostra l’amarezza con cui Carla rimprovera ai suoi affetti – assenti o presenti – di non accordarle il giusto riconoscimento) non è piano, oblativo, estraneo a dinamiche gerarchiche o verticalizzanti. Strappare Lonzi dal mito significa anche lasciar fiorire le profonde contraddizioni che abitano la persona, svelando il complicato rapporto tra vissuto e tessuto – forse tra vita e arte della vita. Zapperi, con la levità della sua ricostruzione (è difficile scrivere di vite convolute su cui molti, anche chi le ha vissute, hanno scritto), restituisce a Lonzi anche questa dimensione, riconoscendole una grande forza: non quella bruta di dare corpo a uno strappo netto (chiusura, abbandono, rigetto), ma quella davvero tutta femminista (per come Lonzi stessa tenta di definire cosa questo comporti) di fare del fallimento l’occasione «paradossale di una liberazione» (236). Interessante notare che questo passaggio viene confezionato da Zapperi a partire da un montaggio che mette in dialogo Lonzi con le teoriche queer e post-coloniali che molto hanno appreso dal femminismo, ma che anche molto lo hanno perturbato.
Strane cose accadono a Lonzi: trascinata nel mito per l’appropriazione di coloro che le sono (state) prossime, viene riscattata da chi scompagina una distinzione sessuata che le è comunque fortemente appartenuta. Artiste e femministe si sono avvicinate troppo spesso a Lonzi come a un’icona, ne sono prova (e qui dissento dalla lettura appassionata di Zapperi) i modi in cui negli ultimi anni il mondo dell’arte ha rimesso in circolo la voce e, meno spesso, la persona (v. 273) di Lonzi attraverso installazioni, performance e produzioni che ne fanno brillare la radicalità netta. Lavori che strillano che “siamo tutte clitoridee” (272) appiattiscono l’irsuta, agitata pienezza di «colei che si è ribellata all’identificazione con quel prodotto già finito e disponibile che viene chiamato “donna”» (238). Forse, il riconoscimento ready-made offerto da alcuni tributi sancisce l’oscuramento di un femminismo che «coincide con il fallimento» (239). La mossa di liberazione è proprio quella che si esprime in una “postura di diniego”, in una “soggettività impossibile”, in qualcosa che non “incarna”, né “agisce in conformità” con un sistema unico, univoco, unificante di valori. Il soggetto imprevisto non si fa trovare lì dove deve essere, né nel tempo che le è proprio: questo il nodo. Qualsiasi forma di riconoscimento tradisce Lonzi, perché la tinta della sua politica, vita, esperienza è quella dell’ineffabilità:completamente fuori dal campo della visione, Lonzi tocca, anzi parla.
Ed è questo il maggiore dei riconoscimenti: anche quando ritagliata, appiattita, saturata l’esperienza di Lonzi mette in atto degli effetti, muove degli affetti, fa fare cose. Delle quali Lonzi stessa forse si sarebbe lamentata.
Concludo con un’immagine – per tener fede all’impossibilità di essere fedeli alla lettera lonziana. La bella foto di copertina del libro mostra una Lonzi aureolata dalle luci di un luna-park, che con le braccia conserte si schermisce per poi elargire uno sguardo d’intesa inafferrabile (rivolto, comunque, a qualcuno che è poco più sopra e a destra di chi fotografa, o di chi guarda). Ecco i contorni: ne vedi le storie?