Nicole Janigro racconta James Hillman

31 Ottobre 2011

Il suicidio e l’anima, Senex et puer, Saggio su Pan, Il mito dell’analisi, Re-visione della psicologia, Il sogno e il mondo infero, Le storie che curano, La cucina del Dottor Freud, Saggi sul Puer, Cento anni di psicoterapia e il mondo va sempre peggio, Fuochi blu, Il codice dell’anima, Puer aeternus, Politica della bellezza, La forza del carattere, L’anima dei luoghi, Un terribile amore per la guerra, La ricerca interiore. Da mezzo secolo i libri di James Hillman accompagnano un’infinità di esistenze, i suoi titoli hanno segnato la via di chi crede che conoscere l’anima sia uno stato dell’essere, la psicologia una metafora per rappresentare la spaccatura tra cultura e natura, la psicoanalisi quell’illusione capace di trasformare il mondo.

 

Ebreo americano nato ad Atlantic City nel 1926, morto il 27 ottobre a Thompson nel Connecticut, studia alla Sorbona e a Dublino, conosce l’India negli anni Cinquanta, incontra Jung, partecipa alla comunità intellettuale cosmopolita di Eranos, dirige il C. G. Jung Institut di Zurigo dopo la morte del maestro. Nel 1978 torna negli Stati Uniti, fonda il Dallas Institute of Humanities and Culture, eppure il suo rapporto con l’Europa, con le sue radici greco-romane, resta al centro del suo pensiero. Psicoanalista e filosofo, conferenziere di gran successo, Hillman rischia, malgrado sé, di dover pagare il tributo alla contemporaneità che avverte il bisogno di trasformare ogni pensatore in un guru. Estraneo a ogni idea di medicalizzazione, afferma la necessità che la terapia passi dalla Prosa alla Poesia, la psicoterapia assuma la forma di un’attività narrativa che quasi spontaneamente si appoggia “alla base poetica della mente”. Così la terapia si avvicina sempre più a un’arte della parola e delle immagini, l’artista che è nel terapeuta diventa il terapeuta che è nell’artista.

 

Cittadino del mondo che non teme l’immersione nel sottomondo, radicalizza la concezione degli archetipi junghiana - nella patologia si manifestano gli dei sommersi dall’incessante brusio dell’attualità -, indaga le dimensioni del sogno fino a negare un rapporto con la vita vigile. Dal motto freudiano dell’Io che non è padrone in casa propria, alla concezione junghiana dove il lavoro onirico è capace di guarire e compensare quanto accade alla luce del giorno, la psicologia archetipica di Hillman approda a un rovesciamento problematico. Per il “suo” mondo infero il pericolo è l’essere ucciso da chi lotta per interpretarlo. Il sogno è “immagine enigmatica” che deve rimanere tale: “È meglio che il cane nero del sogno rimanga tutto il giorno presente al tuo senso interiore, piuttosto che conoscerne il significato”. Valorizzare l’incubo significa rinnovare la natura perduta. La via verso se stessi sfocia così in una sorta di innatismo, l’affidarsi alle immagini un abbrivio per riconoscere l’Anima Mundi, alla ricerca della conoscenza pare bastare il desiderio per ciò che è assente.

 

Se lo slogan “Fate l’amore e non la guerra” era il segno di altri tempi, il successo di un titolo come Un terribile amore per la guerra è il segno di questi nostri: “per comprendere la guerra dobbiamo (…) riconoscere che essa è un accadimento mitico, che coloro che vi sono immersi sono proiettati in uno stato d’essere mitico, che il loro ritorno da quello stato sembra inesplicabile razionalmente e che l’amore per la guerra dice di un amore per gli dèi della guerra; e che nessun’altra interpretazione (politica, storica, sociologica, psicoanalitica) può penetrare (ed ecco perché la guerra rimane ‘non immaginabile’ e ‘non comprensibile’) fino agli abissi disumani della crudeltà, dell’orrore e della tragedia e fino alle altezze transumane della sublimità mistica”.

 

James Hillman, troppo giovane per combattere, partecipa all’evento bellico nella sanità militare. Nel suo libro confessa la fascinazione per un’avventura che lo ha escluso. Qui la sua riflessione incontra il punto critico della teoria psicoanalitica quando deve dar conto della Storia. Nell’atmosfera decadente di un occidente arrivato alla fine impero, la diminuzione di ricchezza economica trasmette un senso di diminuzione energetica. La vita appare un’impresa in perdita - di mezzi, di lavoro, di status, di giovinezza. La vitalità esistenziale e teorica di James Hillman invita a continuare a camminare.

 

“Una volta, secondo una formula rituale in uso negli Stati Uniti, venivamo benedetti nei templi per il nostro ‘entrare e uscire’. La benedizione considerava l’uomo come un essere che si muove, un’anima con dei piedi, un essere fisico entro un mondo fisico fatto per camminarci, come Adamo ed Eva camminavano nell’Eden. Quel giardino è il luogo primordiale dell’immaginazione, per la nostalgia che inconsciamente ricorre in tutti i sogni utopici. E quel giardino venne creato, come ricorderete, da un Dio che camminava. Quell’immagine dice che c’è in Paradiso il camminare; e dice anche che c’è un Paradiso nel camminare”.

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