Parole e immagini (10) / Qui Odessa. La parola fine
23 giugno 2022
Nel 2006 Thomas Hammerberg, un politico svedese ai tempi Commissario dell’Unione europea per i diritti umani, ha dichiarato che la regione di Odessa rappresenta un modello molto interessante di coabitazione pacifica di diverse nazionalità e confessioni religiose, e che questo modello potrebbe ispirare i Paesi membri dell’Unione. Il tratto cosmopolita di Odessa è in effetti uno dei suoi tratti fondativi e a ondate le comunità di stranieri ritornano in questa città per lavorare, costruire, fare affari, sposarsi o ricongiungersi con i familiari. In un saggio uscito l’anno successivo dal titolo Odessa: una città “scivolosa” e un cosmopolitismo che si allontana, Vera Skvirskaja e l’antropologa britannica Caroline Humphrey sostengono che alla base del cosmopolitismo di Odessa ci sia anche il suo tessuto architettonico.
I cortili, i famosi cortili di Odessa sono separati dalla città ‘esterna’ – vie, boulevard e grandi viali – da un passaggio che funziona da membrana: dentro è casa, è famiglia, fuori ci sono la città ufficiale, la politica. Ma la cosa interessante è che il cortile è multietnico, e funziona come camera di scambio e incubatore di convivenza. Il cortile di Odessa sarebbe il prolungamento ideale delle kommunal’nye kvartiry sovietiche, i grandi appartamenti della borghesia prerivoluzionaria in cui si insediavano più famiglie, luogo di formidabile scambio sociale. Nel cortile si sta molto all’aperto, si conversa, si spettegola, tutti sa tutto di tutti, si guardano i bambini degli altri quando i genitori sono via, si incrociano i destini e si impara a rispettare le differenze. Il cortile è controllo sociale, nel bene e nel male. Durante l’occupazione rumena e tedesca del 1941 ci furono molte delazioni per far arrestare ebrei, ma anche molti che tennero nascosti gli ebrei a casa loro in modo avventuroso. Secondo i registri dello Yad Vashem, l’Ente nazionale israeliano per la memoria dell’Olocausto, l’Ucraina è uno dei quattro paesi con il maggior numero di Giusti fra le Nazioni. (Più avanti vi racconterò anche della mia bisnonna Anna Muller.) In chiusura del saggio le due autrici rilevano con tristezza che poco prima di mandare in stampa il saggio, nell’arco di una sola notte 300 tombe di ebrei vittime della Shoah sono state violate e sfregiate con una svastica rossa.
L’antisemitismo a Odessa ha origini lontane. C’è stato un crescendo di pogrom nel XIX secolo – 1821, 1849, 1859, 1871, 1900 – sfociato in quello più sanguinoso, nel 1905, con un bilancio ufficiale di oltre 300 vittime. Nei mesi successivi, 50mila ebrei facoltosi lasciarono la città, ma va detto che l’odio si era rovesciato soprattutto contro gli ebrei più poveri ed emarginati (si stima che all’epoca quasi il 40% degli abitanti fosse ebreo). Il pogrom del 1905, a differenza dei precedenti, è riuscito a far nascere gli anticorpi contro questo tipo di esplosione di violenza sociale, e infatti fu l’ultimo. Ma i numeri di cui stiamo parlando non sono nulla rispetto al massacro di Odessa del 1941, nato dalla furia delirante dei comandanti delle truppe di occupazione rumena, che vollero far pagare caro ai locali l’attentato del 22 ottobre contro il quartier generale rumeno. Per ordine personale di Ion Antonescu, in soli due giorni vengono impiccati, fucilati o bruciati 25mila ebrei (qualcuno dice 34mila). Gli altri vennero prima concentrati in una prigione a cielo aperto dove molti moriranno per assideramento, poi rinchiusi in un ghetto, e nel gennaio del 1942 evacuati con marce forzate che si trasformano in marce della morte (e che ricordano a chi scrive le marce del genocidio degli Armeni). Ad aprile in città resteranno 703 ebrei. La stima delle vittime oscilla fra 90-100mila e molto oltre. Uno si domanda poi perché gli ebrei abbiano il piede facile alla partenza.
Guardo le foto metafisiche di Anna con cancelli divelti e telai disassati su scale che portano al mare, e penso alla Shoah. Una porta è ambigua, nella fotografia non hai elementi per capire se si stia aprendo o chiudendo. Mi decido a fare una cosa che rimandavo da tempo: leggere un libro uscito per iniziativa di un pittore amico di famiglia, Aleksandr Tokarev, Le vie della morte – Note di un abitante del ghetto. Puti smerti si può tradurre anche con binari della morte. L’evocazione della Shoah diventa ancora più pregnante: così come dopo l’11 settembre un grande aereo che atterra o decolla richiama l’idea di un rischio incombente di strage, così ancora oggi i binari evocano deportazione. L’autore è Josif Aleksandrovich, alias Josif Aleksandrovich Kapler, zio paterno di Aleksandr, giurista e giornalista di Odessa che portava una montatura di occhiali con le lenti tonde che andava tanto di moda negli anni ’50, fumava sigarette Dukat e scriveva su una macchina da scrivere Olympia. Era stato fucilato durante la guerra civile, ma la pallottola lo aveva miracolosamente risparmiato. Il libro è il diario dell’inferno di Odessa in quei giorni, scritto subito dopo gli avvenimenti per non far raffreddare i ricordi. Era già in bozze nel 1946 ma si era arenato. E successe di nuovo nei primi anni ’80, per ragioni varie, non si voleva urtare la Romania, paese comunista “fratello”. Quasi un giallo editoriale. Così ci ha pensato il nipote a farlo uscire nel 2014, illustrando il racconto con suoi disegni in bianco e nero. Scrive Tokarev nella prefazione: “I vivi hanno l’obbligo di contare i morti.”
I libri di testimoni della Shoah sono libri di avventure, poiché gli eroi sono improvvisamente scaraventati molto lontano dal trantran della vita ordinaria e mandati in posti lontani. Sono anche libri filosofici, che portano a riflettere sulla tragedia in una zona di relativo comfort, perché chi ha scritto si è salvato, quindi una qualche forma di happy end esiste. Molti di questi libri hanno un canovaccio simile: un prima di incredulità, un durante in cui a tratti la parola per raccontare lo sterminio deve quasi lottare per sentirsi legittimata a dire l’indicibile, e un dopo di vergogna e senso di colpa, e però sempre viva – prima durante e dopo – la volontà di trasferire su carta la verità. Le vie della morte si colloca in questo filone. Il racconto delle notizie che arrivano frammentate, il dubbio, l’indecisione. Partire non partire. Cigno bianco cigno nero. Quante possibilità ci sono che accada l’irreparabile? L’angoscia delle ultime navi che salpano stracariche, le famiglie che si lacerano fra chi resta e chi parte. Josif convince la figlia a partire da sola e trova il modo, ma poi lei decide di tornare per non lasciare soli i genitori. Il 17 ottobre 1941 l’Armata Rossa lascia il campo all’improvviso, “per ragioni strategiche”. Arrivano a Odessa i soldati rumeni e tedeschi, inizia la caccia agli ebrei. Tutti gli uomini devono registrarsi. Chiedono “Sei un giudeo?” Riporto un brano dalle prime pagine.
La pausa di cinque minuti è terminata. Arriva l’ordine di tornare al lavoro. L’enorme deposito è stracolmo di cadaveri. Sotto gli strati superiori si intravedono gli strati inferiori… Ce ne sono più di duemila. Donne, bambini, qualche vecchio… sono tutti stati bruciati da poco: da sotto i cadaveri si leva un piccolo filo di fumo bianco che sa di bruciato. Sui volti anneriti dalla fuliggine il terrore si è come congelato. Uno dei cadaveri, completamente nudo, sta sopra tutti gli altri. I capelli sono bruciati, gli occhi sono usciti dalle orbite, la bocca è aperta. Una donna si stringe al petto il bambino. La madre e la figlia sono nere e distese, se ne stanno come una scultura di marmo rovesciata all’ingiù… Di queste statue carbonizzate ce ne sono molte qui. Puzza di bruciato e carne umana decomposta… Sento che sto perdendo conoscenza. Inizio a cadere, ma il colpo con il calcio del fucile sulla schiena mi fa tornare alla realtà. Afferro la barella che mi era caduta e mi incammino verso un altro triste carico. Il trasporto dei corpi è finito. Ora siamo passati allo spostamento della terra. Coprivamo i corpi con uno strato di terra di un quarto di arshin (17 centimetri – n.d.r). La terra non bastava. I lavori andavano avanti contemporaneamente in nove depositi. Tutti e nove i depositi erano pieni di cadaveri. Secondo i miei calcoli e quelli dei compagni che lavoravano con me, nei depositi dell’artiglieria sono morte più di 30mila persone! Il sole era già calato quando abbiamo finito il lavoro. Ci hanno ordinato di prendere le vanghe e metterci in riga. Ci siamo messi in riga. Gli ufficiali ci hanno contato. Ci siamo tutti. Aspettiamo che diano l’ordine di scavare un’altra fossa, ma questa volta per noi…
– Vi avverto, – dice lo stesso ufficiale – chiunque di voi, se venisse interrogato su dove sia stato, deve rispondere che è stato impegnato nello smantellamento delle barricate! Se solo uno di voi dirà che è stato qui, allora saranno fucilati tutti quelli che hanno lavorato qui!
A passo veloce siamo tornati alla prigione. Era già buio quando abbiamo restituito le vanghe nel primo cortiletto all’interno della prigione. A fatica ho raggiunto la mia camera. Per istinto non mi sono sdraiato al mio posto, ma sotto un tavolaccio, e mi sono fatto scudo con dei sacchi di vestiti. Non riuscivo a prendere sonno. Davanti ai miei occhi continuavano a fluttuare i corpi anneriti. Di notte sono arrivati i rumeni con le SS alla ricerca di quelli che avevano lavorato ai depositi dell’artiglieria. Di nuovo mi sono salvato. Quella notte hanno eliminato quasi tutti quelli che avevano lavorato con me.
Allora i carri armati sovietici con le stelle rosse erano la salvezza. Durante quel periodo, man mano che le forze di Stalin si avvicinavano a Odessa, le persone cambiavano atteggiamento verso gli ebrei. I contadini prendevano coraggio e si avvicinavano al ghetto e ai campi fuori Odessa per portare cibo e pietà umana. Gli stessi persecutori si ammorbidivano, forse subodorando un esito diverso ai piani iniziali. Oggi è il contrario. C’è confusione di simboli, le accuse di nazismo partono come razzi incrociati, paradossi come fascismo rosso si materializzano nella storia con un passo nuovo. Per usare un’espressione in uso nella finanza, quando occorre mettere in guardia l’investitore dal non eccedere nell’ottimismo del guadagno, si dice che la performance di ieri non è garanzia di performance in futuro. Insomma, non si è buoni per sempre ma solo volta per volta, e bisogna comunque dimostrarlo, e ahimè può accadere che per le crudeli volute della storia i salvatori di ieri diventino gli oppressori di oggi, come abbiamo già scritto.
È una constatazione dura da mandar giù, è come se ci dicessero che non ci si può fidare di nessuno fino in fondo. Ognuno si regoli come crede (la mia inclinazione a un inveterato e cialtronesco ottimismo scricchiola, geme e alla fine capitola) ma sarebbe buona norma non eccedere nell’attribuire al prossimo un eccesso di bontà incondizionata, e una soglia di vigilanza e di sensibilità alle notizie scomode dovrebbe essere praticata come segno di intelligenza. Penso a chi, come Noè, ha pensato per tempo e si è messo in salvo senza preoccuparsi di fare la figura dell’idiota. Penso agli ebrei che si sono decisi a partire, e ci sono riusciti, e a quelli che non ci sono riusciti, e a tutti coloro che volenti o nolenti sono rimasti o semplicemente non hanno fatto in tempo. Penso agli abitanti di Odessa oggi, a come si regolano fra loro nel giudizio morale fra quelli che sono partiti e quelli che sono rimasti. Penso al climate change e all’inedia morale che lo accompagna, penso a tante cose attorcigliate.
In mezzo a questa dilagante perplessità coperta di pece e di sconforto, si leva un piccolo filo di fumo bianco, tenace. La gratitudine per il testimone Josif Aleksandrovich, che si è salvato mentre i suoi compagni cadevano come birilli. Che ha vissuto ciò che a stento si riesce a dire. Che ha imparato a sopravvivere in condizioni proibitive per il fisico umano, lui che aveva un fisico cagionevole di intellighent. Che si è indurito per sopravvivere, e ha ammorbidito i propri vincoli morali senza però arrivare a tradire l’essenziale, la dignità umana, che a sua volta contiene il dovere di restare in vita. Che non ha smesso di aiutare gli altri, e anche così si è salvato, nutrendo la dignità come e dove e quando poteva. E che una volta salvo, ha fatto una cosa straordinaria a nostro beneficio: è tornato indietro e ha rivissuto tutto per la seconda volta, cercando di ricordare i nomi, i luoghi, le persone, le storie, le parole, le espressioni dei volti, il terrore e la graduale trasformazione da persona normale a persona sopravvivente in condizioni estreme.
L’ha fatto per noi, per quelli che ha visto, e penso soprattutto per se stesso, perché deve essere di quelli che sentono il bisogno di testimoniare ascoltando la voce profonda del sé, i cosiddetti Deep throat, gole profonde. Fa sorridere che questo termine, entrato in uso ai tempi dello scandalo Watergate, sia il titolo di un famoso film pornografico. Non ha nessun peso che gli eventi siano trascorsi, Aleksandrovich li racconta come se si svolgessero adesso, è come Primo Levi, asciutto, nitido, testimoniale, alla giusta distanza, né troppo vicino né troppo distaccato. E in un contesto di perfetta disumanizzazione riesce così umano, così umano. Un piccolo miracolo.
A un corso di cinema mi spiegarono che il cinema ha evitato il racconto di petto del campo di sterminio, e solo molti decenni dopo gli avvenimenti è apparso il film di Steven Spielberg Schindler’s List (1993). Se si aprisse un capitolo sulla cinematografia indiretta sulla Shoah, e non è il caso, Dogville di Lars von Trier (2003) sarebbe un buon punto di partenza. Il racconto della Shoah è una forma specifica di letteratura, che io accosto ai resoconti degli alpinisti himalayani, quelli cioè che percorrono zone proibitive per gli esseri umani e ricamano intorno al confine fra la vita e la morte. Ci vedo delle assonanze.
Non sai chi tornerà indietro da quelle cenge per raccontarti l’avventura. E il gusto di quella testimonianza è molto particolare, non è né buono né cattivo. È un gusto a sé, che richiede la sospensione delle abitudini morali. È il luogo delle domande ultime, e sai già che sono domande aperte. Domande alle quali occorre almeno una volta nella vita, se vali qualcosa, volgersi e introitarle. E la domanda, alla fine è sempre la medesima. Come mi sarei comportato io? Avrei mantenuto la dignità? Mi sarei arruolato nelle SS? Sarei diventato un kapò che picchiava col bastone e insultava i suoi fratelli ebrei? Sarei diventato uno che dimentica e rimuove? Se le persone pie nella cultura musulmana devono andare alla Mecca almeno una volta nella vita, noi europei almeno una volta nella vita dovremmo andare alla Shoah e guardarci dentro, come un rito di passaggio. Non ne usciremo migliori, non ne ricaveremo un premio ma occorre farlo. Un osceno delirio collettivo ha portato quasi all’estinzione di un popolo, per ragioni che studieremo ancora a lungo, suppongo (ci sono ancora persone colte che confessano di non sentirsi a proprio agio in Germania, perché sentono latrare i cani pastore e vedono spuntare fili spinati ognidove).
Erano a un passo dal risolvere la questione con la soluzione finale. Tuttavia, non è andata secondo i piani, e la parola fine non è stata protocollata. Esce un filo di fumo bianco dal mucchio. Le parole fine e definitivo si devono certificare con cura, onde evitare il rischio di morte apparente. Occorre constatare con occhiali forensi, non presumere sull’onda delle emozioni. La cultura giuridica di Josif Aleksandrovich, il suo poliglottismo e la capacità di raccontare con una prosa veloce e distesa, non artefatta o ampollosa, mi fanno bene, mi curano. Nel mio personale pellegrinaggio, questa volta mi sono dato solo una regola: leggere le testimonianze della Shoah senza interruzioni. Ho preso in mano il libro alle tre del pomeriggio e l’ho richiuso alle cinque del mattino successivo. È il minimo che si possa fare per onorare chi si è immerso nell’inferno due volte. Uso non a caso questa parola, inferno. Nelle scorse settimane Adriano Sofri, in una corrispondenza apparsa da Odessa sul Foglio, ha parlato di noi con benevolenza. Così ho ricordato una sua frase, se non erro applicata al contesto del carcere, che diceva così: “La pianta umana attecchisce anche all’inferno.” È una frase che ho citato in un film che parlava del lavoro in fabbrica e che mi fa riflettere ancora oggi. La Shoah resta una questione aperta, e c’è ancora tanto da fare, vogliate perdonarmi il gioco di parole, per rimuovere la rimozione. La guerra è anche questo: sapere che un giorno, insieme alle macerie, qualcuno porterà via la memoria. Al nipote di Josif Aleksandrovich, Aleksandr Tokarev, va tutta la mia riconoscenza per aver finalmente pubblicato il libro.
Negli anni ’70 le autorità sovietiche trasferirono il cimitero ebraico numero 2 per fare spazio a un parco. Il nuovo cimitero si chiama Cimitero ebraico numero 3 (da quando i cimiteri vengono numerati?) e oggi ospita una serie di tombe monumentali fuori misura erette per commemorare le vittime del pogrom del 1905 e trasferite qui dal cimitero precedente. Anna andrà a fotografarle, dice. Anna per gli ebrei non è ebrea, perché sua mamma non è ebrea. Però si esprime così: “Io sono sempre ebrea, se ci sono antisemiti.” Da piccola, a scuola, sapeva bene chi era e tornava spesso a casa con i lividi e i vestiti stracciati per le zuffe con i compagni che la prendevano in giro. Erano gli anni in cui molti ebrei emigravano, le dicevano “Sparisci, vai in Israele.” I suoi genitori non facevano troppe domande, era normale.
Mi è parso che Anna non mi abbia seguito fino in fondo nel mio entusiasmo, sebbene anche lei avesse letto il libro anni fa. Libri come questi devono capitare al momento giusto. Quando ti piovono bombe sulla testa, il peso del dolore è troppo elevato per volgere lo sguardo indietro, forse. O forse ho scelto questo testo al di là del suo valore letterario. Stiamo parlando di pellegrinaggi che si fanno in solitaria. Qui Odessa. Passo e chiudo.