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Parole e immagini (7) / Qui Odessa. Il sindaco
19 maggio 2022
Anna ha intervistato Gennadij Trukhanov, sindaco di Odessa dal 2014. Il suo volto mi ricorda Yul Brinner, il sorriso seducente dell’attore e l’audacia virile del soldato presi insieme sotto un cranio a vista. Ad Anna invece ricorda un leone: “Un mix di autocontrollo e di forza che non ha bisogno di essere esibita più di tanto.” Trukhanov ha alle spalle studi militari ed esperienza sul campo, è stato ufficiale di artiglieria e titolare di un’agenzia di sicurezza che forniva guardie del corpo. Anche ora che i sindaci rischiano il rapimento da parte del nemico, gira senza scorta, a meno che non si voglia considerare una guardia del corpo il suo temibile chihuahua. Anna sostiene che è un paradosso. “Ne parlano male, si arrabbiano con lui, ma poi alle elezioni lo rivotano. E dove ti giri, salta sempre fuori qualcuno che sostiene di aver fatto la guerra insieme a lui, o di aver lavorato con lui nei difficili anni ’90”.
Amore e odio, insomma. Binomio che pesca, secondo Anna, in un attaccamento alla città da parte dei suoi abitanti fuori dal comune. “Ci sentiamo a casa in qualsiasi angolo della città, e prendiamo qualsiasi imperfezione come un torto fatto a noi, che ci riguarda individualmente.” L’intervista parte dall’appello rivolto pubblicamente dal sindaco all’Unesco per riconoscere Odessa con procedura d’urgenza Patrimonio culturale dell’umanità. Abbiamo deciso di ospitare le parole del sindaco integralmente, senza aggiungere e senza togliere nemmeno una virgola, eliminando le domande. La guerra è anche questo: un flusso di domande che resteranno senza risposta. Perciò le abbiamo tolte. Ne è risultata come una lettera senza giunture e senza preamboli, una voce cruda da una città in un tempo sospeso.
Il riconoscimento di Odessa da parte dell’Unesco segnerebbe prima di tutto un cambio di status sul piano dell’immagine. Odessa è una città unica nella sua pianta urbanistica. Considerando le circostanze della guerra, possiamo fare appello ai paragrafi 161 e 162 della carta Unesco, che stabilisce di snellire le procedure di ammissione nel caso di rischi di distruzione. Certamente l’Elenco dei beni culturali patrimonio dell’umanità non fermerà gli occupanti. Non si fermano di fronte alla morte di civili e bambini, figurarsi cosa può importargliene della cultura. Per noi è solo la prova ulteriore del loro cinismo e della loro crudeltà.
Può suonare strano, ma io sogno che Odessa dopo la guerra torni alle proprie radici. È lì che io vedo la sua crescita. Quando alle origini Odessa è stata costruita d’impeto, quanti stranieri, quanti europei sono arrivati qui da tutto il mondo, l’hanno costruita, e poi ci tornavano, l’hanno amata… Vorrei che noi potessimo far tornare tutto ciò. Sento dire spesso che Odessa è una città russa, un mondo russo. Ma non è così! È un’invenzione giornalistica, e poi ci hanno creduto. Una volta da noi arrivavano navi da tutto il mondo. Poi Leopoli, che era più vicina alla frontiera, si è orientata maggiormente all’accoglienza dei turisti europei. Odessa, che è più lontana, si è invece dedicata ai ricchi turisti russi. Ma non bisogna confondere il guadagno dei soldi con la psicologia. Noi non abbiamo una psicologia russa. Dovremmo metterci d’accordo prima, altrimenti si potrebbe pensare che anche Courchevel e le Maldive e tutti gli altri posti in cui i turisti russi lasciavano lauti assegni sono un mondo russo.
Il mio sogno è che diventi una capitale interculturale del nostro paese. Che al nostro porto approdino navi da crociera da tutto il mondo. Che il nostro aeroporto internazionale accolga aerei dagli angoli più remoti del mondo. Che noi rimettiamo in ordine la città, ci uniamo e smettiamo di litigare. Il passatempo preferito a Odessa è la ricerca del colpevole e “cauchemariser” il sindaco (neologismo dal francese cauchemare, incubo, potremmo tradurre con mettere sulla graticola – n.d.r.), per poi passare al livello successivo, ossia prendersela con il governatore. Io vorrei che le persone levassero lo sguardo e vedessero che perla abbiamo ereditato dal passato. Che tutti facessero il massimo per lo sviluppo di Odessa, in un clima di piena fiducia e unità fra il governo e i cittadini. Faccio un esempio. Quest’inverno, dopo una serie di uragani devastanti, la discarica dei rifiuti urbani è stata chiusa. I camion non avevano più dove scaricare i rifiuti. In quei giorni ho guardato facebook. Nelle altre città c’era la stessa situazione. Ma da loro nessuno si è mai sognato di fotografare i cumuli di spazzatura e postare le foto. Mentre gli odessiti in massa non facevano altro che postare e scrivere: “Guardate come si sta male nella nostra città!” Chi ne trae giovamento?
Sono stato una volta a Ginevra. Sono uscito presto per farmi una passeggiata al parco. Ho visto mucchi di immondizie accanto a ogni cestino. Non credevo ai miei occhi. Siamo in Svizzera, mi dicevo, non dovrebbe esserci nemmeno un granello di polvere fuori posto! Un conoscente che abita lì mi ha tranquillizzato, e dopo aver guardato l’ora mi ha detto: “Stai tranquillo, dopo le 9 sparirà tutto.” Sì, ma ci sono già le persone che fanno jogging, e i padroni di cani, che cosa diranno? Non diranno nulla, perché sanno a che ora iniziano a lavorare i netturbini. Mentre a Odessa, se un jogger alle 6 e mezza del mattino vede della spazzatura, fa subito uno scatto e scrive un post adirato.
Certo, la mamma e il cane. È ciò che mi è rimasto e rimarrà per sempre, i miei cari. Chiunque abbia un cane, sa che sono i pupilli di casa e diventano anime che sentiamo vicine (che bella espressione in russo, bliskie dushi, “anime vicine”, manca nella lingua nostra – n.d.r.), un canale di sfogo, prendono su di sé una parte dei problemi, e anche il cattivo umore, assorbono quella negatività in cui viviamo immersi. Per questo, non importa quanto le cose vadano male, mi alzo al mattino presto e porto fuori il cane. E naturalmente, devo parlare con mia mamma. Di amici a casa ne vedo sempre meno. Vorrei rilassarmi, ma anche dopo aver bevuto un bicchiere di vino, inevitabilmente la conversazione va a finire in politica. Perché quello ha detto questo, e quell’altro ha scritto questo, d’altronde di che altro vuoi parlare col sindaco? Ed è finita, ogni incontro conviviale si trasforma in una riunione di lavoro. Cambia solo il tavolo, mi alzo dalla scrivania del lavoro e mi siedo a tavola con gli ospiti, ma gli argomenti non cambiano. Perciò evito.
Non mi aspetto clemenza. Mi aspetto una decisione del tribunale che mi scagioni, e andrà così. Se mi avessero detto, Gennadij Leonidovich, vi siete distinto, oppure andate e fate un po’ di guerra, e se rimarrete in vita vi perdoneremo tutto, io avrei risposto: “Andrò a fare la guerra, ma non c’è bisogno di perdonarmi nulla.” Io vorrei che il caso fosse giudicato con obiettività, e che la calunnia sia rimossa. Anche adesso si aprono questioni, contemporaneamente con i rifornimenti pubblici e quelli volontari all’esercito, si fanno controlli su come vengono spese le risorse, sono stati fatti e si faranno ancora. Alla fine di febbraio e all’inizio di marzo non potevamo preoccuparci della burocrazia, dovevamo approvvigionare alla svelta le formazioni di difesa territoriale, e anche questi controlli dovrebbero essere fatti con la stessa dinamica degli avvenimenti che si dipanano precipitosamente. Non ho lasciato Odessa nemmeno per un giorno, bisognava vestire i soldati e spedirli al fronte. Ora la guerra continua attivamente nella parte orientale, ma noi non ci facciamo ingannare dalla quiete apparente, gli odessiti sono comunque tesi.
Certo, le lezioni di tattica e strategia che ho seguito all’istituto secondario militare mi sono d’aiuto. Nei manuali sono descritte diverse tipologie di guerra: difensive, di conquista, ma ciò che abbiamo davanti a noi oggi non si trova in nessun manuale. Irrompere, dire una cosa e poi fare tutt’altro, attaccare coi missili città pacifiche dal mare, da un sottomarino… Come si può definire questo, che tu te ne stai seduto in un sommergibile e premi il pulsante di lancio di un missile, che si leva in volo contro una città pacifica per andare a uccidere dei bambini… Come si chiama questa guerra? Io non ho mai letto in nessun manuale di questo tipo di guerra, non me l’hanno insegnata. Quando gli eserciti avanzano, si può capire, prima dell’attacco l’artiglieria sottopone al fuoco le posizioni nemiche, poi arrivano i fanti. Ma loro non riescono a raggiungerci fino a qui, e semplicemente distruggono le infrastrutture.
Hanno distrutto depositi di carburante. Ora abbiamo il problema di come rifornire le ambulanze, i veicoli dei pompieri e di pronto intervento. Distruggono strade e ponti, e noi non riusciamo a consegnare il cibo e altri aiuti. C’è una sola spiegazione possibile: vogliono semplicemente cancellarci. Come città, come paese, come popolo. E tutto ciò che si sente uscire dai loro schermi televisivi è menzogna. Io uso questa allegoria: lo sportivo che è stato pompato e che alla fine ha creduto nella propria forza superiore. Lo hanno pompato con le armi e ora devono mandarlo da qualche parte. Ma mandarlo contro quelli che considerano i principali nemici fa paura. Sanno bene che quelli risponderanno immediatamente e duramente, con forza. Allora hanno scelto un paese che a loro sembrava più debole. Un paese giovane, che sta ancora formando le proprie forze armate. Sono venuti qui per mostrare la loro forzuncola. Però le cose sono andate diversamente, si è capito che sono privi di forza e la ragione è dalla nostra parte. E dove c’è la ragione, ci sarà anche la vittoria.
La democrazia si basa su una complessa ed estenuante relazione fra entusiasmo e disillusione, fra utopia e realtà. Nella cabina elettorale non ci facciamo troppe illusioni, sappiamo fin troppo bene che presto resteremo delusi, e lo stesso, tuttavia, ogni volta ripetiamo a noi stessi che per nulla al mondo rinunceremmo al rito del seggio. Siamo fatti così. La democrazia è la più umana delle forme politiche, e per questo la più imperfetta, e a rischio di mediocrità, come ben sapeva Socrate. Era nata sugli spalti delle boulé con tinte decisamente fosche (durante le stasi si arrivava a eliminare fisicamente gli avversari) e ha mantenuto il segno dell’inquietudine e della scontentezza. È la forma che più di tutte lascia sgorgare il lamento, il mugugno, l’insoddisfazione. Eletto ed elettori si amano odiandosi, come potrebbe accadere con una yiddish mama che arriva a mentire per il tuo bene e ti istruisce su tutto ma si dimentica di insegnarti la cosa più preziosa: come liberarsi di lei. Se solo si potesse tornare alla radice primigenia, l’orgoglio della partecipazione alla cosa pubblica, ma è proprio qui che a malincuore dobbiamo riconoscere l’incrinatura che apre la porta alla crisi: il calo del desiderio. È quello che devono aver provato i cittadini in età Ellenistica.
Anna è infaticabile. Per questo progetto zigzaga per la città, si traveste da giornalista, registra, sbobina, scatta, sviluppa, mi spiega le cose. Quando ami una città, vorresti che tutto il mondo la amasse quanto te, all’incirca. Anna infarcisce i suoi racconti con nozioni storiche che diano un fondamento all’orgoglio ben esibito che gli odessiti nutrono nei confronti della città. Mi scrive dell’olandese Franz de Volán, generale, ingegnere, topografo e architetto, che ha disegnato la pianta della città ispirandosi a modelli vitruviani e tenendo conto della rosa dei venti e dell’andamento del sole, cercando di creare una città a misura d’uomo e con vie assai ampie, che ancora oggi, a distanza di duecento anni e intasate di auto, non sembrano per nulla anguste.
Riguardo il bel volto del sindaco. In questi giorni, come per un lapsus ho scoperto o ricordato che il nome della città di Odessa è legato a Odisseo, Ulisse, il vero fondatore della civiltà occidentale moderna, spregiudicato e lucido creatore di stratagemmi che trasformano l’intelligenza da piacevole passatempo in arma efficacissima. Guardo i solchi eleganti sul volto, ogni solco è una storia che non conosceremo, e mi dico: “Ma certo, è lui Ulisse.” Nelle lunghe estati che passavo dagli zii nella dacia fuori Odessa, il momento più bello della giornata era al pomeriggio, leggermente sul tardi, quando Eduard mi convocava solennemente e si usciva per una lunga passeggiata nella steppa per pascolare Asta, il pastore tedesco.
Prima costeggiavamo in silenzio le altre dacie, e poi sbucavamo finalmente nella spianata arsa libera fino all’orizzonte. Molto lontano si distingueva lo skyline di una di quelle città satellite di cemento bianco che allora cominciavano a costellare Odessa. Mi sentivo importante, ero a scuola di vita. Nella steppa il cane si allontanava e allora si poteva parlare di tutto. Chiedevo tutto. Per esempio, come si fa a capire se una donna è bella? “Nulla di più facile, deve avere il filo della caviglia sottile”. Verissimo. E così via. Adoravo le storie di come aveva fatto la guerra in Finlandia, dove era stato mandato in un battaglione di punizione per via delle origini tedesche. A pari merito con le storie di guerra, c’erano le avventure di Ulisse. Eduard insegnava matematica, era asciutto nelle parole, ma Ulisse vi giuro lo raccontava da dio. E la storia più bella, la madre di tutte le storie, ça va sans dire, era quella in cui sconfiggeva il Ciclope armato della sola astuzia. Ulisse era un buon capo, si preoccupava di salvare i suoi, e ci era riuscito. E poi sconfiggeva il nemico in modo plateale, liquidando del tutto la parte già debole e deficitaria, quella della vista. Di Ulisse ammiravo il passo felpato della mente, l’eleganza concettuale della formula con cui sconfiggeva la forza bruta.
Il coraggio del viaggiatore è quello dello stalker di Tarkovskij che si adatta a mondi con regole misteriose. La vicenda di Ulisse e il Ciclope potrebbe essere, per usare un termine a cui ricorre Trukahnov, l’allegoria della guerra: l’esperienza angosciosa dell’ignoto e dell’inesplorato. Al secondo giorno sei già un veterano, ma è difficile raccontare l’ignoto a chi è rimasto a casa, non ci sono alfabeti sufficienti e adeguati, riferimenti condivisi... Per questo i veterani hanno nostalgia della guerra: perché non si sentono capiti se non da chi ha condiviso le loro giornate. E gli viene quello sguardo perso di chi ha circumnavigato il mondo e non sa più dove stare, poiché a questo punto non fa più differenza. E poi c’è il tema della solitudine dei capi. Il capo è solo per definizione, e anche per salvaguardia del suo ruolo, non deve compromettersi, mischiarsi. Oggi si parla molto nelle aziende di soft skills, di manager empatici, di autorevolezza versus autorità. Io invece sono più attratto dai capi che non cercano il consenso. O meglio, il mio consenso devono guadagnarselo con i fatti, e sulla lunga distanza.
Passavamo con Eduard e Asta accanto a una stazione radio militare recintata col filo spinato. Non si vedeva anima viva all’interno. C’era un pilone di ferro molto alto che fungeva da antenna principale, fissato al suolo con dei cavi d’acciaio su cui erano montate delle antenne circolari di diversi diametri. Sembrava che dovessero captare segnali di civiltà lontane. L’ignoto è sempre in agguato.