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Parole e immagini (11) / Qui Odessa. La danza del destino
1° luglio 2022
Un amico mi ha riferito di una conversazione captata al parco.
– La nostra Bellochka, grazie a dio, è al secondo mese. Potete capire, alla sua età… Non la lasciamo un istante. Non eravamo così in pensiero nemmeno quando partoriva la nostra Simochka. Come? Certo, siamo felici. Figlie? Perché figlie? Bellochka è un cocker.
Non succede solo a Odessa. Le persone amano le creature che hanno addomesticato.
Cani. Tanti cani. Gatti. Tanti gatti. Cigni. Leoni. Piccioni. Cavalli bianchi. Cavalli neri. E cavalieri senza sella sulla spiaggia come nei quadri di Petrov-Vodkin. E probabilmente pesci, tanti pesci e coralli negli acquari dentro le case, in salotto, o in cucina. E canarini, e cavie, e chissà quante altre creature di Linneo. Gli odessiti sono inclini agli animali domestici. Se ne prendono cura. Nei giorni della guerra hanno cercato di farli addestrare per missioni militari. Sono abitudini come queste che la rendono europea. Non è l’Iran, dove solo pochi strenui diplomatici si portano dietro il cane, sfidando la malcelata riprovazione dei locali. Qui si respirano le tendenze occidentali, qui le donne cominciano ad allattare a seno nudo nei locali pubblici senza destare più scandalo, come se fossimo ad Amsterdam od Oslo. La città non è tagliata fuori dalle correnti globali. Esercitare empatia verso creature “inferiori” è già una scuola di convivenza democratica.
Quando è iniziata la guerra, uno degli indicatori di umanizzazione è stato che hanno permesso alle persone di lasciare il paese portandosi dietro gli animali domestici, anche se privi di documenti. In caso contrario, si sarebbe corso il rischio che molte persone avrebbero scelto di restare affrontando rischi enormi pur di non abbandonare gli animali cari. Oggi osserviamo con orrore andare a fuoco per mano degli occupanti stalle con cavalli e mucche, e soffrire gli animali negli zoo sotto le bombe. Lo zoo di Nikolaevsk è un inferno, a marzo è bruciato lo zoo di Kharkov. Il suo proprietario, Aleksandr Fel’dman, ha quasi perso il senno nei tentativi di spiegare agli invasori che gli animali restano sordi per le esplosioni, si riempiono di schegge di bombe, muoiono per l’onda d’urto e di fame. Dava interviste da casa sua, e come in un’arca di Noè, intorno a lui nella stanza c’erano molti animali – caprioli, procioni, scimmie… Ha raccontato che bisognerà sopprimere animali rari, inseriti nel Libro Rosso. I militari ucraini sono riusciti a portare via un po’ di animali sotto il fuoco dei nemici. A Odessa è arrivata una coppia di leoni bianchi. Il direttore dello zoo, Igor Beljakov, mi ha dato il permesso di fotografarli quando si stavano riprendendo all’interno di una voliera. Un gigantesco leone bianco, macilento, con uno sguardo umano. Le piaghe per la gabbia troppo stretta, le ferite per le schegge di bombe, le costole a vista. È così che è ritratto nelle mie foto – il re degli animali in esilio. Ma questo succedeva in aprile. A fine giugno i leoni hanno ripreso forze, e sono ritornati ad avere il loro aspetto regale nella norma. Stanno bene a Odessa.
Gli animali sono anche portatori di segni che dovranno essere annunciati e capiti, latori di messaggi arcani. Nella prima puntata di Qui Odessa, La statua e il cane, abbiamo parlato della profezia del cane. Gli animali sono più attendibili di un sismografo.
Una volta, insieme a un amico, ci siamo divertiti a scorrere gli annunci di cani smarriti nei vecchi giornali dell’Ottocento di Odessa per capire le tendenze con cui si davano i nomi ai cani. Il nome più diffuso era Amigo. La passione degli odessiti per l’opera, in particolare per l’opera italiana, ha generato tanti Figaro e tante Norme, ma più tardi anche tanti Aleko. Ma questo è niente. Cito testualmente dagli annunci del Gazzettino di Odessa dell’8 dicembre 1855: “cane di razza danese Hamlet” e “cane di razza inglese Fingal”, e poi “bracco con le orecchie color caffè Pidgeon”, “bracco Pluto”, “cagnetta-sommozzatrice Corsaro”, e Pirati a non finire, senza dimenticare i classici da antologia come Rosa e Azzurra. Ma forse la cosa che più colpisce è il patriottismo onomastico degli odessiti quando fu respinto l’attacco della flotta degli alleati anglo-francesi nella primavera del 1854. La squadra navale era comandata dagli ammiragli Dundas e Hamelin. “Improvvisamente, – riporta il Gazzettino, – tutti i cuccioli di cane, inclusi quelli di casa nostra, sono stati battezzati con i nomi di Dundas e Dundasik, lasciano invece da parte Hamelin.” La prigionia dell’equipaggio della nave scuola dei cadetti inglesi, la fregata Tigre, ha portato in dote alla città di Odessa alcune decine di Tigri abbaianti. Già a novembre di quell’anno uno di questi cani di nome Tigre era scappato, e il padrone pubblicava un annuncio sul giornale per farlo sapere. Il primo Presidente dell’Ente per la protezione degli animali, Stepan Ralli, era soprannominato Creso per la sua ricchezza, e la sua dacia era il “Castello dei cani”. Nel “castello” vivevano 80 cani di grande taglia e trenta di piccola taglia di razze esotiche. Erano accuditi da un servitore dedicato, che si rivolgeva alle creature a quattro zampe dandogli del voi. La storia finisce tristemente. Gli “amici” hanno sbranato uno dei servitori, Pjotr Berezhnyj, e dopo questo episodio Ralli ha dovuto rassegnare le dimissioni dalla carica di Presidente dell’Ente.
I destini degli animali e degli esseri a due zampe a volte si intrecciano come nelle fiabe antiche. Incappo nella storia di un cane-eroe. Al cimitero di Spitak, in Armenia, c’è il busto di Zhuzha, un cane senza padrone che sembra saltato fuori dalla penna di uno scrittore. Durante il terremoto da apocalisse del 1988, è finita sotto le macerie insieme a una neonata di un anno. Quattro giorni è rimasta sotto le macerie, scaldando la cucciola di uomo, facendole da scudo, allattandola e lappandola. Quando i soccorritori organizzavano i minuti di silenzio per individuare eventuali superstiti, il cane ululava. Ma non si scavava per salvare gli animali. Allora Zhuzha ha usato la testa: ha morso leggermente la bambina, che si è messa a piangere, richiamando finalmente i soccorsi. Si sono salvate entrambi. Il cane ha poi vissuto altri 12 anni insieme alla famiglia della bambina. Quando Zhuzha è morta, ha avuto gli onori di una sepoltura umana: un surreale busto di bronzo.
Il mio cane si chiama Afina (Atena – n.d.r.). Questo nome altisonante fu dato a un cucciolo occhiuto che stava nel palmo di una mano visto da mia figlia al mercato Starokonnyj, il luogo tradizionale della città dove si vendono i cani. Afina, come succede nella vita, di tutti i membri della famiglia ne ha scelto uno: me. All’inizio diventava triste quando io non c’ero, si attaccava a me con tutto il corpo quando ci dovevamo salutare, e poco a poco è successo che abbiamo vissuto insieme. Compagno di vita, amico inseparabile, pappagallo, anima mia. Oggi, quando vicino scoppiano i razzi, io mi preoccupo per lei, non per me. Di cani, nella mia famiglia, ce ne sono stati anche prima. Quando mia figlia era piccola, non c’era una tata a guardarla, ma un labrador nero. Aveva un istinto materno così sviluppato, che quando vedeva la bimba inciampare la afferrava dolcemente coi denti e la rimetteva in piedi. Non amava l’alcool, e si precipitava a salvare le persone un po’ brille in mare, le portava fuori dall’acqua, le lasciava distese sulla spiaggia e impediva loro di tornare in acqua, anche un po’ spaventandole. In quell’epoca vivevano con noi due canarini. Erano liberi di volare in casa, e si facevano toccare. Un giorno, uno di questi canarini è volato diritto in faccia al cane e l’istinto del cacciatore ha prevalso: il volo è proseguito diritto nelle fauci. Nel muso di Miljasha (si chiamava così) si è dipinto il terrore. Io ho prontamente separato le mandibole e sdraiato il canarino sul palmo della mano. In tre – io, mia figlia Sonia e il cane – osservavamo il suo corpo immobile. Per venti lunghi secondi, che ci sono sembrati infiniti, non ha respirato. Poi ha aperto un occhio e ha cominciato a guardarsi intorno per capire cosa stesse succedendo. Vivo! E tutti e tre insieme abbiamo emesso lo stesso sospiro di sollievo.
C’è un gatto bianco sulla spiaggia, ha un portamento regale, quasi leonino. Quella zampa sollevata a mezz’asta, con certi gatti, potrebbe far intendere che ti vogliono dare la mano e presentarsi. Per non parlare dei cani da punta, che con la zampa congelata congelano il tempo tutto attorno. Ogni attività cessa. E tutti sono alla ricerca di un pretesto, anche piccolissimo, per ricominciare a muoversi. La fotografia si accomoda in questa sospensione e la abita. Che catturi l’istante è intuitivo. Che riesca a dilatare il tempo un po’ meno. Noi sappiamo che la zampa si poserà, prima o poi, ma non ne abbiamo evidenza, e un dubbio può insinuarsi. Sto cercando di dire che se l’occhio è l’organo preposto a misurare lo spazio, non c’è invece un organo per misurare il tempo. Dobbiamo costruircelo da soli, un orecchio invisibile all’altezza del plesso, con membrane in tessuto di geko che registrano tutto. Con questo strano orecchio scandagliamo faticosamente il tempo della fotografia, come un tecnico del suono sul set che continuasse a captare rumori impercettibili a orecchio nudo, sentendo per esempio in cuffia lui solo il fragore del rospo nascosto sotto il divano. La guerra è anche questo: un orologio che segna un tempo diverso.
In mezzo a tanta morte e distruzione, la mia osservazione potrebbe suonare poco seria. Ma quando per l’onda d’urto dell’esplosione tu e la bicicletta vi sollevate di un paio di centimetri, e tu non perdi il controllo e riesci ad atterrare felicemente, ti senti di aver vinto un biglietto della lotteria.
In mezzo alla canèa di tutti questi animali con le zampe, ci sono anche gli animali che si levano in volo. La foto di Anna sui tetti di Odessa riflette la prospettiva di chi è in volo sulla città. Dovrebbe essere uno sguardo a volo di uccello… “È ciò che vede il missile prima di abbattersi su di noi.” Strano come una foto tutto sommato neutra possa invece diventare inquietante alla luce della cronaca, e il cielo diventare campo di morte. Nel 2009 mia madre Evelina aveva scritto una poesia per la sua amica Valja Golubovskaja, la madre di Anna. Le era piaciuta molto. Era una strana poesia sulle cicogne e sulla paura, letta col senno di poi profetica come le fotografie di Anna sul cane e la statua del Duca. Il tempo danza avvinghiato al destino.
Летят журавли
9 мая в Одессе
Летели степью
журавли над морем
парад тех душ
кто птицей стать сумел
и полетел
за море-океан.
Но перед тем он
в строгой геометрии парада
посмертно небу
Ад свой передал.
Ад опрокинут
небом над землёю.
Могилы спят,
и тихо плачет день.
Ему за небом
хочется угнаться.
Там журавли
таинственно летят...
Quando volano le cicogne
9 maggio a Odessa
Volano come steppa
sul mare le cicogne,
parata di anime
che hanno saputo diventar uccelli
trasvolando
oceani e mari.
Ma prima di allora
nella rigida geometria della parata
hanno impresso per sempre al cielo
l’inferno.
L’inferno si sporge sulla terra
come un cielo rovesciato.
Le tombe dormono,
e piange in silenzio il giorno.
Vorrebbe inseguire
il cielo, fin là dove
volano le cicogne
sull’arcana rotta.
50° giorno dell’invasione - Leone dallo zoo di Kharkiv convalescente allo zoo di Odessa.