Guerre contro il futuro: Eibl-Eibesfeldt
Il Novecento ha battuto ogni record storico per la quantità delle devastazioni che le guerre hanno inflitto alle popolazioni e al paesaggio. Anche durante la cosiddetta guerra fredda, tra il 1945 e il 1989, si sono avuti più di 100 conflitti in giro per il pianeta. Dopo il secondo conflitto mondiale si è però sviluppata e istituzionalizzata una cultura della pace. L’articolo 28 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo (1948) parla di un mondo libero e giusto dove la pace è un diritto. E in diversi stati europei l’educazione alla pace è diventata una materia scolastica. Anche per questo, afferma l’etologo Irenäus Eibl-Eibesfeldt in Etologia della guerra (1975), “oggi non conduciamo più guerre di conquista: ci difendiamo soltanto, oppure liberiamo i nostri fratelli e dunque compiamo una buona azione (…), e addirittura combattiamo per la pace”. Ma è soprattutto il grado sempre più raffinato e sofisticato delle armi contemporanee che permettono di esaltare la violenza pur mantenendo il nemico a distanza, a dover spingere, sostiene Eibl-Eibesfeldt, la specie uomo a cercare antidoti alla soluzione violenta dei conflitti.
Per lo studioso, che ha diretto a lungo il gruppo di ricerca per l’etologia umana presso il Max-Planck-Institut di Andechs, e ha verificato le sue ipotesi nello studio comparativo di molte popolazioni, in Africa, in Nuova Guinea, in Indonesia e in Sudamerica, è urgente sviluppare una nuova cultura della pace, superando ogni pregiudizio antropocentrico e riconoscendo la realtà istintuale che condiziona i nostri comportamenti. I risultati delle sue ricerche demistificano i luoghi comuni del “buon selvaggio” e di società idilliache: l’aggressività si incontra ovunque. Sempre in Etologia della guerra (fuori catalogo come quasi tutti i suoi titoli in italiano) argomenta quanto sia errato colpevolizzare l’uomo per quella che è una sua funzione naturale, occorre invece esplorare le vie che possono condurre a “alternative incruente”.
Eibl-Eibesfeldt concorda con il suo maestro, Konrad Lorenz – nel 1951 diventa suo collaboratore al Max-Planck Institut für Verhaltensphysiologie – sulla natura originaria dell’aggressività, critica chi rifiuta l’importanza delle determinanti biologiche per timore di fatalismo: “Ora, io non ho il minimo dubbio sulla straordinaria importanza delle condizioni sociali nella formazione dell’uomo, (…), ma ritengo insufficienti tutte le teorie che minimizzano l’importanza dell’ereditarietà come fattore determinante”.
Diverse sue affermazioni sulla guerra come mezzo per diminuire il numero degli abitanti, oppure “l’importanza di certe sue funzioni, ad esempio quella di stimolo per lo sviluppo culturale e tecnico”, appaiono provocatorie.
Le nostre società possono essere considerate, in un certo senso, simili alle specie animali per la tendenza a separarsi e a differenziarsi, ma l’uomo “ha bisogno di una cultura che disciplini la sua vita istintuale”. Qui Eibl- Eibesfeldt riprende e sviluppa il concetto di pseudospeciazione introdotto nel 1966 dallo psicologo e psicoanalista Erik Erikson: “la profonda e consolidata convinzione umana che qualche provvidenza abbia reso la sua tribù e la sua razza o classe, casta o religione ‘naturalmente’ superiore ad altre”.
Proprio il meccanismo della pseudospeciazione, che conduce un dato gruppo a disumanizzare gli individui dei gruppi vicini, a giustificare azioni di violenza estrema che oltrepassano i meccanismi inibitori della lotta intraspecifica, può essere osservato negli scontri civili – lungo tutto l’arco temporale del conflitto inter-jugoslavo ha portato sloveni, croati, serbi a produrre nuove frontiere, nuove tradizioni storiche, nuove lingue per marcare lo spazio delle neonate comunità. I meccanismi di esclusione e di inclusione nelle aggregazioni adolescenti che, attraverso l’invenzione di un gergo e una serie di riti collettivi, creano una loro tribù, sono analoghi al riprodursi coatto del meccanismo di pseudospeciazione che individua ogni volta un criterio di selezione – l’ebreo che non è più un tedesco, il nero che non è più un americano – per individuare il nemico.
“Culturalmente, la guerra ha sviluppato il suo carattere distruttivo di pari passo con la pseudospeciazione. Ciò non vuole dire che essa non possegga radici biologiche: alla sua base stanno tanto la nostra repulsione innata per gli estranei quanto la nostra predisposizione innata per le azioni aggressive. Il timore dell’‘altro’ rimane, come un tempo, un importante fattore scatenante dell’aggressività tra gruppi, che viene sfruttato anche in quella forma di aggressione collettiva che è la guerra. La guerra si è sviluppata come meccanismo culturale di mantenimento delle distanze dagli estranei, e in questa funzione è del tutto paragonabile alle forme di aggressività territoriale determinate per via biologica”. Che i riti culturali legati all’aggressività intraspecifica siano gli stessi che creano coesione all’interno della società è facilmente dimostrabile: il fatto che le proprie tradizioni siano sentite come valide mentre i costumi delle comunità estranee siano giudicati “barbari” o “inferiori”, produce fenomeni di rivalità nei confronti dei “vicini nemici” e di identificazione con il proprio gruppo.
Nella situazione di meticciato globale l’eccesso di rivalità tra diverse culture risulta spesso pericoloso. La pace mondiale potrebbe essere il frutto non solo di ragionamenti razionali, ma una scelta che l’uomo compie in base a norme innate. In Amore e odio. Per una storia elementare dei comportamenti elementari (1971) Eibl-Eibesfeldt afferma che “gli impulsi aggressivi dell’uomo vengono controbilanciati da inclinazioni alla socievolezza e al soccorso reciproco altrettanto profondamente radicate”.
La cura della prole e le preoccupazioni per il futuro del bambino rappresentano un importante fattore motivazionale. Il legame con il piccolo si instaura attraverso la cura: il figlio è un “oggetto di assistenza”. Il rapporto tra madre e figlio, evolutosi filogeneticamente, si è individualizzato. La “fiducia originaria” è la premessa indispensabile affinché il bambino abbia in seguito una disposizione positiva nei confronti della società. Per imparare a non farsi guerra, conclude Eibl-Eibesfeldt, bisogna ripartire anche da questa relazione originaria.
Il testo è tratto dalla traduzione italiana di Warfare, Man’s Indoctrinability and Group Selection, in “Zeitschrift Tierpsychologie”, vol. LX, Verlag Paul Parey, Berlin and Hamburg, 1982.
“Quando la bandiera sventola, il nostro buon senso è nel suono della tromba”: Lorenz citava questo la difesa del gruppo e del vecchio detto nel discutere i tranelli della lealtà dell’uomo, della sua straordinaria capacità di eroismo quando si presenta una situazione che richiede la difesa del gruppo e dei suoi valori. Avendo offerto una sintesi dei possibili meccanismi che rendono probabile la selezione del gruppo, proporrò una tesi provocatoria suggerendo che l’indottrinabilità umana e l’inclinazione a polarizzare i valori sono tratti specifici difficili da spiegare tramite la selezione a livello dell’individuo. La base emotiva di questa risposta ha le sue radici nella difesa familiare, ma l’evoluzione culturale ha condotto allo sviluppo di un’etica bellica che fa sì che gli individui agiscano contro il loro interesse personale. A livello tribale i costi per il giovane individuo maschio sono estremamente elevati.
Warner osservò che fra i Murngin il 28% degli individui maschi va incontro alla morte in scontri intergruppali. Cifre simili vengono presentate da Chagnon per Yanomami. Per i Fore, Bennet riporta una percentuale di vittime pari al 14%. Approssimativamente la stessa percentuale si osserva per gli Eipo. Inoltre notiamo che ai guerrieri che vincono possono anche essere vietati i rapporti sessuali in seguito a un’uccisione. Fra i Munducuru un maschio che ha avuto successo come cacciatore di teste deve astenersi da rapporti sessuali per un periodo di tre anni in modo che il pecari – uno dei principali animali da caccia – possa prosperare. Così nelle culture tribali non alfabetizzate, l’indottrinamento di virtù eroiche crea una disponibilità ad autosacrificarsi per il gruppo.
Questo spesso va di pari passo con un addestramento all’obbedienza. Citerò un esempio tratto dagli Himba, che sono pastori del Kaokoland in Namibia. In questa regione semiarida gli Himba vivono in comunità Kral ampiamente distribuite su vasta area. Perciò sono vulnerabili a comportamenti predatori da parte dei vicini Ottentotti, che danno la caccia al loro bestiame. La sopravvivenza degli Himba dipende principalmente dalla loro forza di ritorsione in caso di attacco. Inoltre, devono avere la capacità di conquistare nuovi pascoli in caso di emergenza. Se le comunità Kral vivessero tutte per se stesse, non potrebbero fare conquiste e difendersi. A tale scopo le comunità si sono unite in una forza militare. L’infrastruttura che garantisce questa situazione è una gerarchia di capotribù che obbedisce a un unico comandante.
Le comunità Kral – che sono ampiamente distribuite – hanno vari modi per mantenere legami. Il capotribù presiede alle assemblee del popolo. In caso di morte arrivano delegati da lontano, a seconda del rango del defunto. Ma l’aspetto più importante è l’indottrinamento dell’obbedienza e delle virtù eroiche nella vita quotidiana. Ogni mattina, dopo che membri diversi della comunità Kral hanno munto le loro vacche, ciascuno offre il latte al capotribù che ne assaggia un sorso, o semplicemente immerge il dito nel latte. Solo dopo questo rituale dell’assaggio il latte può essere consumato. Si può facilmente osservare che con un simile rituale l’obbedienza al capogruppo viene rinforzata. Inoltre il capotribù può individuare chi non si conforma e può adottare delle contromisure. Rituali analoghi si trovano nelle culture occidentali, per esempio la parata militare al mattino e alla sera con il saluto e l’innalzamento della bandiera.
Oltre a questo rituale di obbedienza gli Himba promuovono le virtù eroiche. Quando fanno visita a qualcuno, gli uomini si siedono insieme e iniziano a cantare lodi e proclamare le gesta eroiche degli antenati. I gruppi belligeranti che indottrinano se stessi con virtù eroiche tendono a esagerarle nei momenti di emergenza. Questo si accompagna in genere a un indottrinamento elitario con il quale i membri si convincono che i loro nemici non devono essere considerati umani, cosicché i sentimenti naturali di pietà e di compassione diventano inappropriati.
Un simile indottrinamento sulla base delle predisposizioni emotive per la lealtà e la disponibilità a difendere il gruppo, rendono un essere umano capace di agire contro il suo interesse personale immediato e di sacrificare la sua vita per il gruppo. E la storia offre in effetti molti esempi del fatto che la selezione ha luogo a livello di gruppo durante una guerra. È interessante notare, tuttavia, che gli individui che agiscono in modo spietato hanno nella società globale meno vantaggi di coloro che perseguono un ideale meno polarizzato, combinando virtù eroiche con l’umanità. C’è un’evidente tendenza a sviluppare convenzioni che in un certo senso fenocopiano l’evoluzione biologica della lotta da dannosa a ritualizzata. Queste convenzioni permettono ai perdenti di arrendersi con una chance di sopravvivenza, mentre i crudeli vanno incontro alla rappresaglia e corrono perciò un rischio elevato. Aggiungerei anche che la ritualizzazione della guerra in un contesto di potere meno distruttivo è facilitata da adattamenti filogenetici quali le inibizioni biologiche ad attaccare quando si percepiscono segnali che suscitano pietà e compassione.
Un altro tratto che nella sua forma attuale è difficile da spiegare tramite la selezione individuale è l’etica di condivisione umana. È sicuramente scaturita dalla selezione individuale, ma l’uomo ha ampliato l’ethos della sua famiglia incorporando membri di gruppi distanti. Quando si tratta di membri di un pool matrimoniale in competizione con altri, vi può essere un tratto di adattamento per via della selezione della specie. Tuttavia, piuttosto spesso, la nostra etica del dare e condividere sembra passare sopra l’interesse dell’individuo e della specie.
Fintantoché coloro che ricevono fanno parte del nostro gruppo matrimoniale, la condivisione può ancora essere considerata nell’interesse del successo riproduttivo dell’altruista, anche se non individuale, ma a livello di gruppo. Non è chiaro, tuttavia, se l’etica del dono, rivolta a chi non fa parte del gruppo matrimoniale, sia nell’interesse del successo riproduttivo del donatore. Nei nostri programmi economici e politici il dono altruistico a individui appartenenti ad altri pool genetici si verifica abbastanza di frequente. Perché questo abbia valore adattivo, la reciprocità è un requisito indispensabile e deve essere assicurata.
Conclusioni
La selezione di gruppo viene oggi in genere liquidata come fattore di scarsa importanza nell’evoluzione sulla base di teorie e modelli incontrati su due punti. In primo luogo c’è l’indiscutibile fatto che le mutazioni di gruppo non avvengono spontaneamente, e che tutte le mutazioni debbono prima diffondersi in una popolazione tramite la selezione a livello individuale e perciò all’inizio essere vantaggiose per l’individuo. In secondo luogo vi è il fatto che i modelli matematici hanno dimostrato che la selezione di gruppo è molto più lenta e disagevole della selezione individuale, poiché si tratta di un gruppo che elimina l’altro invece che un individuo che si riproduce più velocemente di un altro. I pochi studi pubblicati a livello di selezione e comportamento umano dimostrano un fatto ben noto del comportamento umano: quando è economicamente conveniente farlo, gli esseri umani danno la priorità ad aiutare i parenti più vicini piuttosto che quelli più lontani.
Tuttavia, la maggior parte degli studi si ferma qui e lascia la moltitudine di forti legami fra parenti distanti, fittizi e non-parenti senza spiegazione, legami che non possono essere spiegati in modo esauriente solo secondo il concetto di altruismo reciproco.
Concludendo, vorrei suggerire che i sociobiologi sono stati troppo frettolosi nell’accantonare la possibilità della selezione di gruppo come fattore importante nell’evoluzione umana, dal momento che quanto più vicino si osservano le società umane da una prospettiva transculturale, tanto più ci si rende conto che gli esseri umani, e forse altre specie con legami individualizzati, hanno dei preadattamenti che rendono la selezione di gruppo tanto possibile che probabile, poiché questi legami uniscono gli individui in compatti gruppi competitivi, garantendo agli individui di questi gruppi di essere in sintonia e condividere un interesse genetico comune.
Vorrei anche suggerire che quando si entra in un nuovo ambito dell’etologia quale la sociobiologia, l’ipotesi alternativa deve essere trattata con lo stesso rigore di quella in esame. E mi auguro che nel descrivere il nostro studio sulle strategie che legano gli individui a livello transculturale, preservano l’armonia di gruppo e consentono al gruppo di funzionare come un’unità anche contro l’interesse personale di molti individui specifici, ci sia un’ipotesi alternativa degna di essere presa in considerazione, l’ipotesi che molti tratti siano fissi e rafforzati nelle popolazioni umane tramite la selezione di gruppo. In altre parole, i dati empirici suggeriscono che le strategie comportamentali sviluppatesi dal legame individualizzato per unire gli individui in gruppi molto affiatati potrebbero aprire la strada a una nuova unità di selezione nell’evoluzione, quella del gruppo relativamente chiuso composto da individui altamente interrelati.
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