Chatwin e Fermor, vagabondi nel Mani
Il primo giorno di gennaio dell’anno 1985, l’addetto alla reception dell’Hotel Kalamitsi, oggi Hotel Theano, un albergo con poche stanze situato a Kardamyli, cittadina nel cuore del Mani, la regione allo stesso tempo più aspra, più dolce e più spettacolare del Peloponneso, si ritrovò di fronte un personaggio molto particolare. Questi era appena sceso dalla macchina in jeans e t-shirt, sfoggiava una chioma bionda spettinata mentre lo guardava con occhi di ghiaccio. Nello sfogliare le pagine di quel passaporto britannico, prima di consegnargli le chiavi della stanza il receptionista appuntò il nome sul registro degli ospiti: “Bruce Chatwin”.
Chatwin era ritornato a Kardamyli da scrittore celebre. Vi era stato per la prima volta all’inizio degli anni ’70. Nella sua vita, oltre ai viaggi, aveva avuto diverse esperienze: per anni come esperto per la casa d’aste Sotheby’s, poi da studente piuttosto attempato di Archeologia all’Università di Edimburgo, infine da giornalista culturale per il Sunday Times. Fino a quando decise di mollare tutto e di dedicarsi alla scrittura a tempo pieno. “I AM GONE TO PATAGONIA” (“ME NE SONO ANDATO IN PATAGONIA”) aveva scritto in quell’ormai celebre telegramma spedito al suo editor della redazione del Times Francis Wyndham prima di partire per il Sud America. Quel telegramma avrebbe generato un libro di culto per generazioni e generazioni. Diventerà un bestseller dell’epoca, un classico della letteratura di viaggio: In Patagonia (traduzione italiana, Milano, Adelphi, prima edizione inglese pubblicata nel 1977). Forse In Patagonia ancora oggi resta “il” libro di viaggio per eccellenza, in grado di rivoluzionare il genere e di cambiare la vita a molte persone (tra cui chi scrive).
Proprio a Kardamyli, Chatwin stava cercando ispirazione per portare a termine il suo ultimo lavoro che avrebbe fatto appena in tempo a scrivere: sarebbe morto tragicamente di Aids solo qualche anno dopo. Lo intitolò The Sognlines, Le Vie dei Canti (traduzione italiana per Adelphi) dedicandolo alle “piste del sogno”, ai miti degli aborigeni australiani e al nomadismo come modus vivendi e come costante nella storia dell’umanità, in grado di accomunare tutti i popoli.
Chatwin era venuto a trovare un amico – anche lui un grande scrittore – che da molti anni viveva a Kardamyli. Questi abitava assieme alla moglie, l’affascinante Joan, a soli cinque minuti di distanza a piedi dall’hotel di Chatwin in una grande villa sul mare che si era costruito negli anni in quel lembo di costa spettacolare, incastonata tra i pini, tra i profumi del rosmarino selvatico, il frinire delle cicale e l’ombra dei cipressi, in un’atmosfera che evocava le liriche del mondo classico. Quell’amico era Patrick Leigh Fermor.
Leigh Fermor è conosciuto in Italia per i tre volumi sul suo viaggio a piedi attraverso l’Europa prima dello scoppio del Secondo conflitto mondiale, tradotti anche questi dall’Adelphi di Roberto Calasso (Tempo di regali, Fra i boschi e l’acqua e La strada interrotta, pubblicato postumo). È difficile ignorare un autore come lui, ma per chi non ne avesse mai sentito parlare, Patrick Leigh Fermor – per i suoi amici “Paddy” – aveva vissuto una vita forse ancora più intensa di quella di Chatwin, il che è tutto dire.
Spirito inquieto, vagabondo-avventuriero per eccellenza, Fermor era nato a Londra nel 1915. Partì dall’Inghilterra nel 1933, a soli diciotto anni verso l’avventura: a piedi dall’Olanda a Istanbul, attraverso l’Europa tra le due guerre. Nello zaino aveva solo qualche vestito, l’Oxford Dictionary, un volume rilegato di Orazio, un paio di scarpe chiodate e pochissimi soldi in tasca che gli venivano elargiti saltuariamente dai travellers cheques di un padre lontano, direttore del coloniale Geological Survey of India. Nonostante le difficoltà incontrate, non abbandonò mai l’intento di arrivare a Costantinopoli a piedi e ci riuscì. “Paddy” vi sarebbe arrivato dopo aver dormito nei fienili, seguendo il corso serpeggiante del Danubio, ma anche ospite nei castelli di aristocratici ungheresi e romeni, innamorandosi di principesse bizantine e di studentesse, ma anche trascorrendo notti all’addiaccio insieme a contadini e contrabbandieri dei più remoti villaggi dell’Europa centrale. Spesso era solo, nel silenzio dei boschi e degli altipiani, gli occhi ad ammirare la volta del cielo stellato sopra di lui.
Dell’incontro tra Chatwin e Leigh Fermor – due personaggi chiave della letteratura del Novecento – ma anche di molti tra gli straordinari letterati e viandanti rimasti stregati da quei luoghi incantati del Peloponneso, ci racconta Ambrogio Borsani nel suo ultimo lavoro, Vagabondi nel Mani, pubblicato come molti libri dell’autore da Neri Pozza. In esso lo scrittore lombardo, dopo trascorsi importanti come professionista nelle grandi agenzie pubblicitarie internazionali, dopo esser stato viaggiatore nel Pacifico e nell’Oceano Indiano, questa volta ci fa planare tra le raffiche del meltemi. Ci fa annusare l’odore della retsina, ammirare i volteggi delle aquile sul monte Taigeto e assaporare l’aroma dolce dell’anice dell’ouzo (che come sanno i conoscitori della Grecia può essere accompagnato da un pezzettino del tentacolo del polpo lasciato appeso ad essiccare nei moli fuori dalle taverne). Da Virgilio contemporaneo, Borsani ci conduce fino alle porte della mitica caverna dell’Ade, “l’inferno perduto”; secondo Fermor una caverna subacquea nascosta su un promontorio, lambita da acque cristalline. Tra un colpo di sole e l’altro, tra una curiosità e un anneddoto informato, sempre imperterrito, l’autore si muove (e noi con lui) sulle tracce di alcuni dei più straordinari scrittori, randagi, poeti, guerriglieri che apparvero più o meno saltuariamente in quei luoghi. Dall’altro canto eroi omerici e divinità da sempre hanno popolato quelle geografie incantate della Grecia continentale.
Le colline del Mani sono costellate da torri di guardia dove un tempo soffiava un altro vento, quello della guerra di indipendenza greca contro gli ottomani e, più di recente, della guerriglia ai nazisti. Le videro personaggi del calibro del poeta Nikos Kazantzakis, un giovane intellettuale esperto di Nietzsche che volle imparare nel Mani la “vita vera” dal selvatico e donnaiolo Georgios Zorbas (proprio quello del film Zorba il greco) che gli sembrò l’incarnazione dello spirito dionisiaco, ma anche le esistenze convulse dei poeti maledetti Nikitas Nifakis e Nikiforos Vrettakos. Chatwin e Fermor saranno solo due degli umanisti ad essersi recati a Kardamyli, non lontano dalle rovine della valorosa Sparta di Leonida che osò affrontare i persiani di Serse I alle Termopili e dalla città perduta di Mistrà, capitale dei Paleologhi dell’Impero bizantino.
In un capitolo scritto in una prosa raffinata e colta, Borsani ci ricorda di quanto Chatwin ammirasse profondamente Leigh Fermor e il suo affascinante mix di erudizione classica, avventura e imprese militari. E di quanto per Leigh Fermor la Grecia fosse la sua patria di elezione. Allo scoppio della Seconda Guerra Mondiale, un “Paddy” ventenne che conosceva il greco antico e moderno (ma anche il latino) era stato reclutato da Churchill per unirsi, viste le sue capacità linguistiche e la sua esperienza sul campo, alle forze speciali britanniche del SOE (i commando inglesi dello Special Operations Executive, operativi dietro le linee nemiche dell’Asse, incaricati di mettere “l’Europa di Hitler a ferro e fuoco”). A Paddy e compagni, il più famoso dei quali era William Stanley Moss, autore di Brutti incontri al chiaro di luna proprio su quell’esperienza (tradotto in Italiano sempre da Adelphi) era stata affidata una missione pericolosissima: rapire un generale nazista a Creta con l’appoggio di un plotone composto da partigiani greci e da giovani ufficiali inglesi.
In quel contesto, dove ogni passo falso poteva rivelarsi più che fatale, le esperienze di viaggiatore a piedi per l’Europa centrale, la Turchia e la Grecia furono decisive per Leigh Fermor per la buona riuscita finale della missione, dopo una spericolata fuga dai nazisti. Celebre sarebbe rimasta la conversazione tra il generale rapito Kreipe e il giovane ‘Paddy’, avvenuta tra le pendici innevate del monte Ida. I due, divisi dalla guerra e dall’uniforme, ma accomunati dalla cultura classica, si ritrovarono a recitare a memoria dei brani dalle Odi di Orazio mentre ammiravano la vallata sottostante. E l’aneddoto sarebbe passato per sempre alla Storia. Come scrive Borsani, almeno due libri furono scritti sul tema e fu prodotto un film con Dirk Bogarde come protagonista che rese omaggio alle imprese di Leigh Fermor e compagni.
In Vagabondi nel Mani scopriamo che a Kardamyli, Chatwin e Leigh Fermor trascorrevano lunghe serate raccontandosi le loro avventure nei rispettivi ‘mondi di ieri’, discutendo dei nomadi, tema che conoscevano entrambi, ma anche di “Storia, geologia, antropologia [...] Rimbaud, enigmi paleontologici, ipotesi sull’influenza dei Simonidi in Grecia”. Il tema del nomadismo aveva letteralmente ossessionato Bruce Chatwin. Durante i suoi primi anni da scrittore non ancora affermato aveva cercato di portare a termine una storia dei nomadi. Avrebbe dovuto intitolarsi l’Alternativa Nomade per rispondere alla domanda che tanto appassionava lo scrittore e che oggi rimane ancora aperta: “perché l’uomo abbandona la propria casa scegliendo di viaggiare e di vivere una vita in perpetuo movimento?”. Il voluminoso manoscritto non giunse mai alle stampe. Secondo la leggenda venne bruciato nel camino di una casa di campagna inglese. Il testo sarebbe stato però riscritto in gran parte proprio a Kardamyli all’Hotel Theano, come racconta Borsani, quando secondo la testimonianza di Leigh Fermor “la stanza era un caos totale…[e Chatwin] aveva gettato le pagine dappertutto”. Tra quelle carte sparpagliate sarebbe risorto dalle ceneri il suo capolavoro (L’alternativa Nomade è anche il titolo di una raccolta di lettere di Bruce Chatwin pubblicata in italiano da Adelphi). Ed è in un angolo segreto del Mani, dove Borsani ci porta, che Chatwin riposa in eterno.
Tra le inquietudini della letteratura e dei suoi protagonisti, l’autore ci rammenta anche dei misfatti della Storia: dei naufraghi delle navi da guerra italiane affondate durante la battaglia di Capo Matapan (1941). Fu un episodio raccontato in presa diretta da un giovanissimo Dino Buzzati, corrispondente di guerra durante la scellerata invasione dell’Italia fascista per “spezzare le reni alla Grecia”. Borsani s’interroga, sempre curioso, sugli echi di quegli eventi oggi. Lo fa attraverso domande anche scomode, rivolte alle persone del posto che incontra, alcune delle quali non riescono a trattenere qualche risatina di fronte alla donchisciottesca e cieca arroganza di Mussolini e dell’Italia di allora durante la nefasta campagna di Grecia.
Per scrivere questo libro Borsani è diventato anche lui un “vagabondo nel Mani”. Eccolo rispondere su WhatsApp proprio da un tavolino tranquillo di un caffè all’aperto di una piazzetta di Kardamyli, seduto all’ombra: una coincidenza perfetta per l’occasione. “Per la prima volta ci vado in vacanza e non per le ricerche del libro o per scriverlo!”, esclama con una risata. Passiamo rapidamente al tu e alla mia prima domanda banale quanto utile a rompere il ghiaccio sul ‘come ti è venuta l’idea del libro?’, risponde in maniera affabile. “Ho sempre scritto sulle isole del mondo e il Mani per quanto collegato alla terraferma è anche un po’ un’isola, sia geograficamente sia letterariamente”. “Scrivere del Mani oggi dopo il libro di Leigh Fermor (Mani: Viaggi nel Peloponneso, pubblicato sempre da Adelphi) è praticamente impossibile”, mi dice con una modestia e un savoir faire d’altri tempi, quasi britannico. Lui però ci è ampiamente riuscito. E aggiunge: “molte cose che ho scritto, nel libro di Leigh Fermor non ci sono. Ho voluto estendere l’ambito d’indagine ed espandere alcuni temi, come per esempio quello dei poeti maledetti greci. Avevo un po’ il timore di infrangere un’area sacra, ma allo stesso tempo ne ero motivato e quindi mi sono fatto coraggio e alla fine l’ho scritto”. “Ho sempre cercato di raccontare i luoghi attraverso i personaggi che li hanno attraversati, come per esempio Melville e Stevenson nelle isole Marchesi dell’Oceano Pacifico (visitate da Borsani nel 2001 con grande invidia di chi scrive), ma anche Samoa e Somerset Maugham. E questa volta sono arrivato nel Mani”.
Ambrogio Borsani è per sua stessa ammissione un viaggiatore che ama raccontare i territori attraverso gli occhi degli scopritori che li percorsero. E in questo suo libro sul cuore dimenticato del Peloponneso ci conduce per mano, attraverso suggestioni e paesaggi remoti, avvolti dalla letteratura, dal mito e dal divino.
Ambrogio Borsani, Vagabondi nel Mani. Anime inquiete nel cuore selvaggio del Peloponneso, Neri Pozza, 2024.
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