De Dominicis: uno scandalo lungo cinquant’anni
Esattamente cinquant’anni fa, la mattina di giovedì 8 giugno 1972, una imprevista baruffa viene a scomporre il rituale dell’inaugurazione della xxxvi Biennale Internazionale di Venezia. A scatenarla è l’opera di uno degli artisti invitati a partecipare all’esibizione Opera e comportamento, in seno al Padiglione Italia. La mostra, curata da Francesco Arcangeli, Renato Barilli e Marco Valsecchi, intendeva documentare una coppia dialettica cruciale nell’arte di quegli anni, ovvero le due tendenze opposte perseguite, per un verso, da artisti che continuavano a realizzare quadri e sculture e, per l’altro, da coloro che ambivano alla completa abolizione dei mezzi artistici tradizionali in favore del coinvolgimento in prima persona degli artisti stessi.
Nel visitare la sala in cui Gino De Dominicis ha presentato i suoi lavori, un gruppo di artisti, critici e giornalisti lo attacca per avere coinvolto Paolo Rosa, un giovane veneziano affetto dalla sindrome di Down, nella realizzazione di una di quelle opere. A detta dei protestatori, una simile operazione è offensiva e inaccettabile. Colpito da queste reazioni ostili, De Dominicis decide di allontanare Rosa e, con l’inasprirsi della polemica, l’intera sala viene chiusa al pubblico.
La chiusura non basta a placare le polemiche. Venerdì 9 giugno, il caso del “mongoloide” (questo il termine allora impiegato dai giornalisti) esposto alla Biennale rimbalza sui media nazionali – giornali, quotidiani e televisione – dove viene commentato e distorto. Il Corriere della Sera erroneamente descrive Rosa come «cieco e sordo», e titola l’articolo di Giulia Borgese con un «Si è toccato il fondo». Benché non corrisponda all’effettiva composizione dell’opera mostrata a Venezia da De Dominicis, l’immagine di Paolo Rosa con il cartellino Seconda Soluzione di Immortalità attaccato al collo ricorre e ricorrerà nella maggioranza dei quotidiani e rotocalchi del periodo. La pubblica anche Il Giorno, dove l’articolo di Natalia Aspesi descrive la turbolenta mattinata della vernice veneziana: quella di De Dominicis, scrive Aspesi, è una «indignarte» espressa in due filoni, umano e politico. Il primo concerne l’esibizione di «un povero uomo di aspetto anormale» che ha irritato il pubblico e gli stessi lavoratori della Biennale, mentre il filone politico riguarda la parete dove De Dominicis ha tracciato a matita quattro simboli d’immortalità, «un segno forse magico per l’immortalità del corpo, una croce per l’anima, una falce e martello per la specie, una svastica per la razza». Aspesi riporta come questi disegni abbiano fatto infuriare alcuni artisti e critici, al punto di minacciare e dare del nazista a De Dominicis.
Benché a sostegno dell’opera dell’artista si sollevino alcune voci autorevoli – tra gli altri: Barilli, Germano Celant, Achille Bonito Oliva, Kynastone McShine, Filiberto Menna, Mario Merz, Marisa Merz, Emilio Prini, Fabio Sargentini, Tommaso Trini – la cricca dei giornalisti non demorde. Il 10 giugno è l’Osservatore Romano a prendere posizione: evitando di nominare l’artista, l’editoriale definisce «sacrosanta» l’indignazione di coloro che a Venezia hanno protestato contro l’esposizione del “mongoloide” e parla di umiliazione e offesa all’uomo. Il titolo dell’Unità denuncia invece la «stupidità» e il «sadismo» dell’episodio che Dario Micacchi definisce «sciocco e violento» rilevando, però, che non va accusata in blocco tutta l’arte e gli artisti moderni. Anche Enzo Tortora, il noto presentatore televisivo, dice la sua sulla Nazione, con toni alquanto veementi. Per Tortora, la «agghiacciante farsa» risponde alla «sete di notorietà» dell’artista che avrebbe scelto «un così cinico trampolino per tuffarsi nel giro dei nomi “conosciuti”». Sempre il 10 giugno i quotidiani danno ampio risalto al fatto che De Domincis e il suo assistente, Simone Carella, sono stati querelati alla Procura della Repubblica di Venezia perché sospettati del reato di sottrazione di persona incapace. Nell’aprile 1973 saranno poi pienamente assolti perché “il fatto non sussisteva”.
Per buona parte dell’estate e con ripercussioni fino a ottobre, lo scandalo del “mongoloide” alla Biennale continua a interessare i media nazionali e internazionali: da Lotta Continua a Le Monde, da Rinascita a L’Espresso, da La Fiera Letteraria a Der Spiegel. Nonostante De Dominicis la sera dell’11 giugno dichiari all’ANSA che la presenza di Rosa è intesa a porre in evidenza i temi della morte e dell’invecchiamento, l’opinione dominante resta tuttavia quella che si tratti di una deplorevole provocazione, se non di una “mostra degli orrori”.
A questa schiera di detrattori si aggrega finanche Pier Paolo Pasolini. Il suo articolo (uscito sul settimanale Tempo) ha ragioni da vendere nel denunciare come, accettando il ricatto dell’attualità e della moda, la cultura italiana sia entrata in una fase di compulsiva autosvalutazione. Tanto che ormai proliferano i “provocatori”: degli ibridi di fascista e gauchista, qualunquista e marxista. Il caso di De Dominicis sarebbe appunto il prodotto di tale confusione, mescolerebbe la provocazione della neoavanguardia con quella neomarxista dei gruppuscoli sessantonteschi. Laddove lucido e profetico nel descrivere il degrado del Bel Paese, Pasolini resta troppo annodato alle proprie prerogative mentali quando deve giudicare un’opera d’arte visiva. Non lo sfiora il dubbio che essa (in contrasto con le opere letterarie) potrebbe avere la duplice facoltà non solo di alterare il tempo ma di generare o implicare una soggettività sui generis, esercitando un’azione antidestinale incontenibile tanto nelle cosiddette politiche di destra e di sinistra quanto nell’ordine di discorsi vigente in qualsivoglia stato di cose passato o futuro.
Prima di sondare questa “realtà” artistica, è bene ricordare che le implicazioni umane dello scandalo di Venezia toccano l’esibizione della diversità di una persona che, se da un lato sembra simile a noi, dall’altro non riusciamo, o non vogliamo, accettare come nostro pari. Lo vorremmo curare, addirittura normalizzare, pareggiare al nostro standard di “salute” e “crescita” corporea e mentale. Con il suo essere fisicamente là, per come è, il giovane Paolo Rosa mette in dubbio queste tendenze a tradurre, addomesticare e correggere – dal punto di vista tanto culturale e artistico quanto politico e medico – chiunque e qualsiasi cosa strida con le acquisite definizioni sull’identità e su come essa evolve o dovrebbe evolvere nel tempo. Tali incertezze devono essere apparse insopportabili nel giugno del 1972. Tuttavia, a distanza di cinquant’anni, è giusto chiedersi se a demonizzare una presunta anormalità di Rosa non fossero la Seconda Soluzione in sé o il suo autore bensì coloro che l’attaccano. Essi pretendono che la diversità venga nascosta, non esibita in ambito artistico – e addirittura in modo così indecoroso – e preferibilmente valutata in base alle convenzioni della società oppure relegata alle diagnosi e alla cura nel contesto della scienza medica. Fortunatamente, però, da secoli la pratica artistica è lì a smentire questa ipocrisia: dalla Olympia di Manet ai folli e le streghe di Goya, dall’Alienato di Gericault alle Demoiselles di Picasso, non mancano le opere in grado di riconoscere e farci riconoscere la complessità della natura umana. Sembrerebbe che, a dispetto dello scandalo se non proprio grazie ad esso, la Seconda Soluzione sia parimenti efficace nel rompere lo specchio e sconfessare le nostre arbitrarie presunzioni identitarie.
Se, nel 1972, i resoconti dei media sono fuorvianti e contraddittori è perché molto spesso si basano su dicerie. Poiché rimase aperta soltanto per alcune ore, in pochi videro di persona la sala di De Dominicis. Non è poi da escludere che l’artista ne stesse ancora stabilendo l’assetto definitivo. In ogni caso, sappiamo che aveva raccolto una varietà di opere, probabilmente con l’obiettivo di offrire un compendio dell’attività da lui svolta fino ad allora.
Ma c’è di più. Benché le immagini diffuse dalla stampa lo mostrino isolato, Paolo Rosa è tutt’altro che una figura messa in disparte. Siede su una sedia nell’angolo sullo sfondo e il cartellino Seconda Soluzione di Immortalità (L’universo è immobile) è poggiato ai suoi piedi. Sul pavimento di fronte a lui, sono collocati, da destra a sinistra: una pietra, una palla di gomma e il perimetro di un quadrato bianco. Si tratta di tre opere che De Dominicis aveva già mostrato alla galleria L’Attico di Fabio Sargentini, a Roma, nel 1969. La pietra: Attesa di un casuale movimento molecolare generale in una sola direzione tale da generare un movimento spontaneo della pietra (1969); la palla: Palla di gomma (caduta da due metri) nell’attimo immediatamente precedente il rimbalzo (1968); e il quadrato, un cubo invisibile la cui base è tracciata da una vernice bianca (1967).
Queste tre opere, insieme alla persona di Paolo Rosa, compongono la Seconda Soluzione d’Immortalità. Così risulta da una fotografia in bianco e nero, che presenta, sul lato sinistro del recto, la scritta a mano “(foto ricordo) De Dominicis” (1972). Testimonianza del suo drammatico exploit veneziano, (foto ricordo) documenta quel che è visibile la mattina dell’8 giugno 1972 ed è ritenuta dall’artista un’opera a tutti gli effetti. L’immagine aiuta a comprendere come senza la figura di Rosa l’insieme risulterebbe privo di senso, nonché il motivo per cui di lì a breve De Dominicis rinunci a mantenere la sala aperta. Al processo intentato contro di lui e Carella, come pure in discussioni e interviste negli anni a venire, De Dominicis insiste nell’affermare che la Seconda Soluzione d’Immortalità è composta da Rosa e dai tre oggetti sul pavimento. Il punto è ribadito in modo lapidario in un’intervista con Franco Fanelli del 1995, nella quale, interrogato in merito agli eventi del 1972, l’artista risponde di non avere «mai esposto un mongoloide» ma creato invece un’opera, «composta da alcune opere poste innanzi al signor Paolo Rosa che le osservava dal suo unico e particolare punto di vista interno […] opposto a quello degli spettatori».
Traspaiono dalle sue parole l’affezione per questo lavoro altamente controverso e il rispetto per Rosa, il quale viene descritto come un auspicabile astante per la contemplazione di questa e altre opere d’arte, come appunto quelle collocate innanzi a lui sul pavimento. Inoltre, De Dominicis insisteva sul fatto che la sindrome di Down non è una malattia, bensì uno stato diverso dell’essere. Il giovane che sedeva di fronte alla palla, la pietra e il cubo invisibile, andava percepito nella sua singolarità. Infine, un’indiretta conferma dell’attaccamento dell’artista alla Seconda Soluzione è riferita da Marco Smolizza, direttore di Quadri e sculture. Dovendo decidere che cosa pubblicare sulla copertina di un numero della rivista in cui sono riportate alcune sue celebri frasi, e che uscirà il giorno successivo alla sua scomparsa (28 novembre 1998), De Dominicis esita a lungo tra l’immagine della Seconda Soluzione e una di lui bambino, quasi le ritenga simili e intercambiabili. La prima avrà la meglio.
In virtù della sua posizione, Paolo Rosa si rivela immediatamente una figura cruciale: è seduto al centro della composizione e ricopre i ruoli di agente, osservatore e guardiano delle tre opere ai suoi piedi. Ma chi è e che cosa fa di così essenziale da rendere l’opera veneziana di De Dominicis una “soluzione” d’immortalità? A poco servirebbe ricordare che Rosa all’epoca ha ventisette anni, vive a Venezia nel sestiere di Castello con la madre, alla quale l’artista e il suo assistente, Simone Carella, hanno chiesto il permesso perché il figlio partecipi a un’opera da realizzare per l’imminente Biennale. Né sarebbe di maggiore aiuto scavare nella biografia dell’autore: De Dominicis usava ricordare come, nella sua infanzia ad Ancona, fosse incuriosito da un coetaneo affetto dalla sindrome di Down che sedeva per ore a contemplare il mare.
È rilevante riconoscere che Rosa incarna una condizione considerata fuori norma rispetto alle fasi regolarmente osservate nello sviluppo mentale e fisico di un essere umano. Al centro dell’opera documentata da (foto ricordo) siede qualcuno le cui discontinuità della memoria e dell’intelligenza razionale possono facilmente eludere o eccedere le nozioni di volontà, orientamento e discernimento, ma anche le consuete categorie del prima e dopo, dell’alto e basso, del visibile e invisibile. In altri termini, qualcuno che “vede” e percepisce in maniera altra rispetto al comune.
Da (foto ricordo) si è incoraggiati a immaginare che quel giorno, alla vernice della Biennale, anche se per un tempo brevissimo, prima che scoppiasse lo scandalo, Rosa contempla le tre opere sul pavimento e i visitatori della mostra, inducendoli a restituire il suo sguardo e a puntare gli occhi verso ciò che lui sta guardando. Questo scambio di occhiate dà luogo a un disadattamento, a una caduta di comunicazione; è un vedere che non si traduce in un sapere, bensì nella scoperta di un divario. Osservando Rosa, si è assorbiti in uno spazio-tempo che non ci contiene né prevede. L’esperienza che si ha di lui è indefinibile così come la sua imperscrutabile figura; non si è in grado di accertare un suo particolare stato d’animo, attitudine o tratto caratteriale; si ignora se c’è qualcosa che si possa apprendere nel tentativo di “rispondere” all’opera d’arte. Si è proiettati in quello stesso vuoto in cui ci imbattiamo quando cerchiamo di incrociare il suo sguardo. Il che implica un vedere inalterato dal passaggio del tempo, sradicato da una soggettività che si suppone connessa a una cronologia, nonché a un corpo o un naturale corso di cause ed effetti.
Grazie alla presenza di Rosa, ciò che si vede e chi guarda sono liberati dai vincoli prodotti dalle nette distinzioni tra il visto e il non visto, il conoscibile e l’ambiguo. Nell’allentare queste distinzioni, la Seconda Soluzione tende a generare una presenza pura, qualcosa che non riflette, duplica o raddoppia se stessa in alcuna modalità speculare. Anche se per poche ore, nel giorno del vernissage, diviene evidente come un’opera d’arte possa essere qualcosa di assolutamente reale eppure distante da tutto il resto. La Seconda Soluzione sembra corroborare così un’intuizione chiave del critico e storico dell’arte Cesare Brandi, secondo il quale l’arte è pura “astanza”: che il suo autore sia Giotto o Alberto Burri, nel suo rendersi presente un’opera d’arte nega di essere una cosa del mondo. Con l’introduzione di una frattura nel normale corso delle cose, la Seconda Soluzione realizza tale negazione.
L’ignoto prevale: lo spettatore non sa più chi o cosa guarda (includendo Rosa, l’opera stessa lo guarda) e osserva senza poter dare conto di ciò che effettivamente osserva, essendo venuto meno il legame che solitamente c’è nell’incontro con un’opera. Difatti, l’incidente del mongoloide nel 1972 è la dimostrazione di come l’opera e il pubblico non si incontrino. La creazione dell’opera d’arte comporta il realizzarsi di una discontinuità grazie alla quale le dimensioni di chi vede e di quel che è visto appaiono vicendevolmente sottratte l’una rispetto all’altra. In virtù di questa doppia sottrazione, l’opera non soltanto appare “oggettiva” e inalterata nel tempo ma coltiva e perpetua il desiderio di essere ora e per sempre. Certo, non offre l’elisir della vita eterna, ma nondimeno il messaggio è che le creazioni artistiche contengono un principio di soluzione. La pietra che potrebbe spontaneamente muoversi, il cubo invisibile, la palla colta nell’attimo prima del rimbalzo e l’indecifrabile Paolo Rosa non sono circoscritti o inquadrabili in un divenire temporale che gli preesiste e li trascende. L’insieme da loro composto evoca un tempo estraneo all’evoluzione e all’irreversibilità, nonché uno spazio immune al movimento determinato dalla causalità o dalla volontà di agenti umani e/o divini. La Seconda Soluzione invita a riconoscere una perennità dell’essere invincibile al non essere e all’entropia.
La vituperata opera veneziana articola, rendendola per la prima volta esplicita, la poetica che connoterà l’oeuvre di De Dominicis, la sua profonda convinzione che esista un legame inscindibile tra l’arte e la ricerca dell’immortalità del corpo. Due anni prima egli aveva già elaborato alcune sue vedute in merito. Per esempio, nella cosiddetta Lettera sull’immortalità (1970), De Dominicis non solo sostiene che unicamente le cose eterne e immortali esistono veramente, ma propone anche che ci si impegni tutti affinché la specie umana sia messa finalmente in grado di fermarsi nel tempo. Si tratta di una posizione che, per quanto seducente dal punto di vista argomentativo e sul piano propositivo, non si discosta molto da quella di coloro che tramite il progresso scientifico mirano ad allungare la durata media della vita umana se non a sconfiggere la morte. Non è così con la Seconda Soluzione. Il richiamo all’immortalità attesta e implica una precisa idea della creazione artistica. È significativo che a Venezia, nel proporre una “soluzione” d’immortalità, l’artista connetta l’immobilità caratteristica delle opere delle arti visive, quali disegno, architettura, scultura e pittura, all’immagine di universo a sua volta immobile. Si è ispirati a concepire l’opera d’arte come un’entità priva di radici e condizioni, che si staglia in un tempo senza divenire, perseguendo così l’arcana inclinazione ad allentare, se non abbattere, le barriere tra i flussi temporali e l’eternità.
Un simile intendimento non riguarda l’arte in generale, né qualsivoglia produzione genericamente creativa, bensì una precisa concezione delle arti visive. De Dominicis chiarisce la propria posizione quando, nel 1995, dichiara che «ogni espressione artistica nasce da una peculiare mentalità e da un desiderio che la differenziano ulteriormente da tutte le altre» e che la pittura, la scultura e l’architettura «sono immobili, materiali e mute, hanno origine nella non accettazione della corruttibilità e della morte. Creano forme che non assecondano il tempo e fondano e perpetuano il desiderio d’immortalità».
Per De Dominicis, le arti visive non solo intrattengano un legame speciale con la misteriosa dimensione del tempo ma andrebbero apprezzate in quanto veicoli di una precisa aspirazione antropologica. In virtù dei loro inequivocabili tratti di immobilità, materialità e silenziosità, riuscirebbero a introdurre il concetto di atemporalità in un mondo che lo ignora. Di per sé, possono, laddove non generare, senz’altro puntare verso il nuovo inizio descritto nella Lettera sull’Immortalità: l’evento che consentirebbe all’umanità di “fermarsi nel tempo” e “iniziare a vivere”.
A Venezia, si concretizza l’intuizione che l’immortalità è la motivazione galvanizzatrice delle arti visive e che essa non costituisca necessariamente un privilegio riservato alle divinità, una promessa da realizzare alla fine dei tempi, o una conquista fattibile solo per le élite danarose. Piuttosto, l’immortalità può accadere a chiunque: tanto a chi come Paolo Rosa si direbbe super partes e inviolato dal pensiero della morte, quanto a individui e specie che divengano coscienti della libertà di dare una svolta alla propria vita, in modalità evocanti quel salto che ci ha resi umani, pensanti e mortali.
Oggi come nel 1972, Rosa esemplifica un tabù: il mistero tremendo di ciò che è e resta innominabile in quanto la mente è incapace di cogliere e/o contenere i pensieri per pensarlo. Egli è inquietante perché risulta socialmente refrattario al commercio del mondo e all’ordine delle leggi e delle credenze accettate dagli esseri umani, ma soprattutto perché, nonostante le apparenti differenze, in noi c’è qualcosa di lui e viceversa. De Dominicis appunto lo considerava il portatore di un quid arcano, un extraterrestre – una convinzione, questa, ulteriormente ribadita in occasione della personale dell’artista presso il Centre National d’Art Contemporain Le Magasin di Grenoble, nel 1990, dove ricorre il setting di Seconda Soluzione, malgrado con qualche variazione. Stavolta, la sedia di Rosa è in legno e alluminio, dipinta di nero, con lo schienale a semicerchio e le gambe appuntite. È ancora collocata nell’angolo della sala, sebbene sospesa a cinque metri da terra. Descrivendo l’oggetto levitante, Italo Tomassoni lo definisce un “trono” e ricorda come De Dominicis assicurasse che vi sedeva “l’immortale invisibile”. La nuova sedia rappresenta visivamente una sorta di beatificazione post-facto di Rosa e ci avverte che, come i santi e gli illuminati, egli è stato direttamente assunto nell’alto dei cieli.
Cinquanta anni dopo la Seconda Soluzione si è pienamente calati nell’era digitale e delle intelligenze artificiali. È supernoto che molte di quelle funzioni in precedenza stimate esclusivamente umane oggigiorno è in grado di svolgerle una macchina, benché la sua programmazione sia comunque (ancora?) dipendente dall’iniziativa di esseri umani. Un software può vincere una competizione di bridge (gioco di gran lunga più intricato degli scacchi o del Go); organizzare il traffico aereo o navale; gestire le risorse del personale di un’azienda; prendere decisioni indifferenti a fattori estranei all’obiettivo prefisso; svolgere lavori cosiddetti creativi, dal disegno architettonico alla scrittura di un libro o la curatela di una mostra d’arte. Bisogna pertanto concludere che la parola “umano” nomini qualcosa di stantio che (ammesso sia mai esistito) avrebbe fatto il proprio corso? Oppure, paradossalmente, proprio questa sua supposta implosione va di pari passo con una mutazione prettamente antropologica? Invero, forza un ripensamento della vita e della natura umana, un riesame mirante non tanto a bollare l’idea di umanità come illusoria quanto a comprendere la nostra specie in virtù di una plasticità infinita che la caratterizzerebbe?
Nel rendere Paolo Rosa il nume della poetica dell’immortalità, la Seconda Soluzione affronta e stimola ad affrontare questi interrogativi. Esattamente perché con la sua presenza sancisce il crollo dell’assunzione di un esserci in comune costruito da una mente o un corpo, o entrambi, già categorizzati in una regola predefinita di tempo e spazio, schemi linguistici e accordi comunicativi, Rosa annuncia che non tutto è computabile: che l’incognita suprema è la vita stessa nelle sue realtà psichiche, emotive e cognitive. Ci si ritrova così a meditare che sì siamo quel che siamo – mortali, dannati, discontinui, funzionali, intelligenti, distratti, istruiti e idioti – ma avremmo potuto anche essere altrimenti o non essere del tutto. Tanto che ci si chiede se questo dubbio non sia di per sé l’indicatore di una nostra indole sconosciuta a noi come ai database che di noi intercettano e archiviano le parti calcolabili.
Il vaticinio della Seconda Soluzione prevede che il riscatto dalla condizione di subalternità (dal meschino asservimento all’attualità e alla moda denunciato da Pasolini, come pure dalle modalità di sorveglianza attive nell’epoca attuale) possa avvenire sia tramite la creazione di nuovi significati sia grazie alla facoltà di sviluppare e distinguere ora e ancora le qualità o agentività assolutamente umane. In questo modo ci si può adoprare per arrestare l’entropica autosvalutazione culturale e tentare di sconfiggere infine finanche la morte termica. A riguardo, una risorsa primaria è la nostra mente. Contrariamente a una macchina pensante, essa può compiere salti e avvalersi di intuizioni, emozioni e intenzioni di senso che non ammettono dimostrazione, né sono immediatamente deducibili da alcunché. Semmai, esse potrebbero esistere quali punti di vista assenti in altre menti, nonché nella medesima che ha appena iniziato a contemplarli.
Probabilmente da sempre alcuni artisti hanno saputo che l’assolutamente umano si dà nel tempo, inizia ed è plastico e multiscalare, ma non è riducibile a una storia, cultura, esperienza, biografia personale o collettiva. Anzi, aspira a incarnarsi e stagliarsi sub specie aeternitatis. È come se con le opere d’arte ci si opponesse al caos e al disordine: si volesse riparare al danno di Adamo e riproporre, senza appellarsi per forza a una trascendenza, la lezione delle religioni rivelate che dimostrano come l’eterno o la divinità possano interrompere il fluire delle cose. L’universo dell’opera è difatti immobile. Invero, la Seconda Soluzione indica che l’arte sarebbe nientemeno in grado di offrire un modello per resistere alla morte e accrescere la consapevolezza che essa non è una variabile indispensabile per la nostra comprensione di noi stessi.
Che la Seconda Soluzione meriti di venire ricordata come una delle opere più significative della seconda metà del Novecento è confermato dal genere di riflessioni che suscita. Ugualmente rilevante, però, è la censura che provoca, a questo punto da intendersi non soltanto come quella conseguente allo scandalo scoppiato l’8 giugno 1972 e che per anni ha relegato l’opera nel dimenticatoio, bensì come quella che avviene ogniqualvolta si nega che l’arte possegga la facoltà di influire nella vicenda umana tout court. Questa omissione viene di recente perpetrata in svariati modi, per esempio, tollerando un misto di sensazionalismo, opportunismo e relativismo nei valori che informano i giudizi critici; permettendo che gli interessi dei mercanti prevalgano su quelli di altra natura; equiparando l’efficienza di curatori e direttori di museo a quella dei manager e di uomini e donne di affari. Si tratta di atti che cancellano le valenze di quelle opere, contemporanee e non, che aspirano all’unità tra le forme dell’arte e quelle della vita, o che si spingono, come nel nostro caso, a istituire un nesso tra creazione artistica e ricerca dell’immortalità. Mentre quelle valenze appaiono opache o incomprensibili perché si sono sovvertite le priorità e altri criteri di intelligibilità spadroneggiano, l’insieme composto da Paolo Rosa e le tre opere innanzi a lui resta oggetto di una rimozione ancora più insidiosa.
Naturalmente, non è il presente articolo, o altre pubblicazioni più o meno accurate, che potrà rimediare al danno. Ma forse in questa situazione di precarietà massima è proprio nel figurarsela lontana, dentro e oltre questo mondo, che la Seconda Soluzione dimostra la sua esemplarità: non solo sfugge a una predefinita collocazione dimensionale ma crea e perpetua una temporalità indipendente che può sì intersecarsi con il tempo della storia, e della stessa storia dell’arte, ma che in ogni caso si direbbe virtualmente assolta dal divenire. Così facendo, essa fa fede alla convinzione del suo autore che l’opera d’arte «oggetto vivente perfetto può influire sul processo biologico».