Germano Celant, New York 1962-1964

18 Settembre 2022

New York 1962-1964 (NY 62-64), apparso in occasione della omonima mostra visibile allo Jewish Museum di NY fino al prossimo gennaio, è un volume fruibile per sé. Rappresenta un tributo postumo a Germano Celant, il quale lo aveva ideato e stava curando prima della sua scomparsa nel 2020. In termini di formato e grafica, ricalca volutamente quelli di Life magazine, la arcipopolare rivista americana che si distinse (dagli anni Trenta agli inizi dei Settanta) grazie alla sua attenzione alla fotografia, impaginando con perizia una quantità di superbe immagini vuoi di reclame di prodotti di ogni tipo vuoi di notizie avvincenti. Seguendo questa falsariga, NY 62-64 narra, e soprattutto illustra, un repertorio di fatti che riguardano il triennio tra gennaio 1962 e dicembre 1964, e includono dalla crisi dei missili a Cuba al suicidio di Marylin Monroe, dall’apertura del terminale TWA progettato da Eero Saarinen all’assassinio di John F. Kennedy, dalla carismatica figura di Martin Luther King alle mutazioni del gusto e della moda, dall’uscita del film Dr. Strangelove di Stanley Kubrick alle rivendicazioni di diritti civili che nei decenni successivi verrà confermata dalla fervente multiculturalità newyorkese. Naturalmente, però, larga parte del libro è un rendiconto delle vicende artistiche di quei tre anni: l’avvento della Pop Art e il crescente prestigio di artisti quali Allan Kaprow, Claes Oldenburg, Simone Forti, Jasper Johns e Andy Wahrol.         

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Pagina dopo pagina, i lettori di NY 62-64 hanno accesso a una miriade di dati, visivi e letterari. Seguendo una impostazione cronologica, foto d’epoca si interpongono con numerosissimi paragrafi che puntualmente descrivono accadimenti di varia natura. A spadroneggiare sono le immagini: di opere, persone, pubblicità e fatti del giorno. Ad esse fungono da corredo sia dei testi redatti ad hoc, sia delle lapidarie citazioni di tantissimi personaggi più o meno noti del triennio. Oltre ai succitati, si incontrano, per esempio, Timothy Leary e Malcom X, Susan Sontag e George Maciunas che vorrebbe «purgare il mondo dell’europaneismo».

Alla fine della seconda guerra mondiale, gli Stati Uniti godono di un enorme vantaggio materiale sul resto del pianeta, ma assurgono alla preminenza negli affari culturali soltanto gradualmente, nei successivi vent’anni, posizionandosi intorno ai ‘60 al centro di un circuito internazionale dell’arte e delle idee. Già approdo di migranti illustri dai primi del Novecento, a quel punto la metropoli della costa orientale nordamericana diviene l’agognata meta di numerosi artisti operanti o esordienti nella periferia del consolidato impero. Nel nuovo free world, la possibilità di mostrare la propria arte in una galleria di NY è percepita come una conferma o legittimazione dei suoi meriti. Sono pochi quelli disposti a rinunciare a sognare questo sogno.

Tra questi si segnala la figura immaginaria della ceramista Nene (Valentina Cortese), una dei personaggi di Le Amiche (1955) di Michelangelo Antonioni. Delusa dal legame con Lorenzo (Gabriele Ferzetti), a sua volta pittore, alquanto frustrato, accetta l’invito di esporre a NY, ma poi deciderà di non partire: l’avvenuta conciliazione con il marito fa sì che i sentimenti e l’attaccamento al luogo abbiano la meglio sull’esterofilia e il nomadismo. Quella di Nene evidentemente rappresenta una rara storia di inattuale conservatorismo (assente nell’omonima novella di Cesare Pavese a cui si rifà Antonioni, è un’invenzione del regista). Difatti, seppur con connotazioni diverse, le migrazioni di artisti e intellettuali attratti dalle opportunità, professionali e non, offerte dalla cultura americana continueranno a verificarsi fino a quelle più recenti provocate dalla decolonizzazione e dalla esponenziale pervasività globale dei modelli di vita “occidentale”.

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NY 62-64 contiene in apertura la trascrizione di una interessante conversazione tra Celant e l’artista bulgaro-newyorkese Christo, il quale ricorda come avvenne che, nel 1962, si ritrovasse a esporre le sue opere nella mostra dei “New Realism” organizzata da Sidney Janis nella sua galleria newyorkese – un evento emblematico nella storia degli scambi tra il Nuovo e il Vecchio Continente. Di lì a breve anche l’ormai lanciato gallerista Leo Castelli estenderà un invito a Christo, che non solo si reca a NY ma la elegge a città di residenza. Tuttavia, perfino in quel clima di accoglienza non devono esser state tutte rose e fiori.

Vengono in mente le parole di Michelangelo Pistoletto (in un’intervista del 1984, con Celant), il quale nel 1964 rifiuta la proposta, fattagli da Castelli, di trasferirsi negli Stati Uniti, suggerendo che il futuro della sua carriera sarebbe dipeso dall’adesione al gruppo di artisti da lui rappresentato. «Da quella volta», commenta Pistoletto, «non sono più andato negli Stati Uniti per 15 anni. Questo per dire come […] abbia reagito a una concezione di mercato che rendeva potente un dominio culturale e pratico che ti forzava a sentirti o parte di un clan o solo».

La posizione di Pistoletto non è ricordata in NY 62-64. E si tratta di un omissis coerente con uno dei suoi assunti basilari, ben descritto da Hiroko Ikegami nella trascrizione di una discussione tra i vari contributori del volume, che «nonostante la democrazia compromessa e la politica estera imperialistica degli Stati Uniti», l’America «offriva comunque un modello controculturale che attraeva i giovani di tutto il mondo». Non è da sottovalutare, però, quanto questa alternativa culturale potesse essere talvolta equivoca. Proprio Ikegami, scrivendo sul conferimento a Rauschenberg del Gran Premio della Biennale di Venezia del 64, osserva come la coronazione non fosse frutto di talento artistico soltanto. Ha implicato dei notevoli sforzi da parte di Alan Solomon, curatore del Padiglione Americano, che si prodigò in una varietà di espedienti pur di ottenere la vittoria.

Il racconto delle res gestae di Solomon potrebbe suggerire a un lettore poco avvertito che bisogna apprezzare questa imprenditorialità culturale, e semmai curarsi meno di capire se Rauschenberg meritasse quel riconoscimento, se le susseguenti polemiche fossero davvero dettate da cocciuto settarismo da parte degli italiani e dei francesi. Eppure è ragionevole supporre che la premiazione fu tutt’altro che inaspettata. In quegli anni, finanche gli europei meno catastrofisti devono essersi accorti che si stava avverando un processo di cui non si capiva bene quale fosse lo scopo. Se si voleva il rinnovamento dell’arte occidentale o il suo inquadramento secondo gusti, stili e schemi ideologici da infondere nelle culture ormai ritenute troppo affezionate al passato, nonché responsabili di avere prodotto due guerre mondiali e tre totalitarismi.

L’accettazione di forme artistiche più adeguate ai tempi era parte della cura intesa a risanare l’Europa e fugare ogni resistenza alle chances di progresso, democrazia e modernizzazione economica offerte dalla leadership capitalistica degli USA. Nel reportage sull’exploit veneziano di Rauschenberg, così come in altri casi, glissando piuttosto che sviscerando le contraddizioni del periodo, NY 62-64 corre il rischio di celebrare una funzione di carismatica guida americana che oggi meriterebbe un vaglio approfondito (come del resto è accaduto e accade in innumerevoli pubblicazioni). Il presentarla nel 2022 come un fait accompli potrebbe facilmente indurre alla nostalgia, se non alimentare un immotivato rigurgito di orgoglio e pretese egemoniche. 

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Una rimarchevole caratteristica di NY 62-64 è che ripropone una modalità di lavoro elaborata e raffinata da Celant durante la sua carriera. Se, nella seconda metà dei ‘60, difendendo l’Arte Povera, il giovane critico scrive con slancio e si direbbe condivida gli ideali della sinistra più estrema, benché con gli occhi puntati a quanto accade oltre l’Atlantico, di lì a breve egli ammetterà l’impossibilità di affiancare i fenomeni artistici con ogni sorta di commento. Ispirato in parte da Sontag, dalla sua invettiva contro l’interpretazione, e dalla pratica documentaria tipica dell’allora emergente Arte Concettuale, Celant si prefigge di offrire la propria «esperienza informazionale» al fine di un’apprensione diretta delle attività degli artisti.

Il suo testo Per una critica acritica (1969-1970) argomenta che la critica dovrà «essere acritica e collaborare fattivamente alla sopravvivenza e conservazione dell’arte […] oppure essere spazzata via dall’arte». L’obiettivo è raccogliere, archiviare e pubblicare testi, fotografie, filmati, dischi e informazioni di ogni tipo che offrano una spassionata documentazione delle vicende dell’arte contemporanea. Nella tormentata Italia dei ‘70, mentre l’intellighenzia oscilla tra l’intransigenza e l’opportunismo e alcuni dei suoi precedenti compagni di strada abbandonano l’arte a favore della militanza politica; tornano a studiare, delusi dalle aspettative sessantottesche; propongono una riflessiva ripresa del progetto “moderno” versus le fascinazioni per il “pensiero debole”; oppure teorizzano il tradimento quale assunto ideologico e strategia creativa utile a posizionarsi nelle strutture di potere che controllano il mondo dell’arte; Celant ritaglia per sé il ruolo di intellettuale-manager disposto a offrire la propria espertise alla committenza di gallerie, musei e ambiziosi mecenati privati.

D’ora innanzi, viaggi e incontri avranno in lui un’incidenza pari, se non superiore, alla domestica attività di lettura. Analogamente, il lavoro in team ha il sopravvento su quello individuale. Il suo è un “professionalismo” apparentemente tanto estremo quanto disincantato, che lo vede autore di saggi e cataloghi dedicati a un impressionante numero di artisti, spesso diversissimi tra loro in termini di poetiche. E se non c’è traccia della partigianeria che animava la critica d’arte nella modernità è anche perché i tempi scanditi dall’apparato internazionale in cui circolano opere e artisti non la favoriscono, anzi premiano un saper fare distaccato e in linea con dei condivisi standard di efficienza e adeguata specializzazione.

Il metodo acritico darà prova della sua efficacia in Precronistoria 1966-1969, un volume del 1976 (ristampato da Quodlibet nel 2017) dove viene offerta una abbondante casistica di mostre e di fonti scritte (saggi, pubblicazioni e dichiarazioni) che illustrano il susseguirsi di tendenze e movimenti quali quelli della Minimal Art, dell’Arte Povera, dell’Arte Concettuale, della Land Art e della Body Art. Un altro esempio di ampia documentazione è il catalogo per l’esibizione parigina Identité Italienne (1981) che, in virtù della cronologia, degli autori invitati, degli argomenti proposti e della cospicua raccolta di dati (non solo artistici), per anni ha costituito un riferimento nello studio dell’arte italiana dal 1959 al 1980. In altri casi, però, l’approccio di Celant non resiste a una tentazione totalizzante.

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Ne sono una prova, tra l’altro, l’allestimento di una mostra alla Triennale di Milano e il volume omonimo Arts & Foods. Rituali dal 1851 (2015). È come se non dovessero esserci residui o lacune nell’impresa documentaristica che non dovrà trascurare alcun campo – pittura, scultura, installazione, fotografia, video, ma anche letteratura, moda, design, cinema, televisione, ecc. L’esposizione gigantesca di circa 2000 pezzi e il catalogo di più di 900 pagine sfoggiano una copiosità che stordisce. Questa dimostrazione di possanza curatoriale, quantunque motivata dal desiderio di tener conto di una molteplicità di contesti, non solo sfocia nella mera spettacolarizzazione ma è arduo stabilire a chi giovi: ai visitatori stimolati nei loro appetiti fruitivi, ai lettori allertati dalle parole da digerire, oppure alla insaziabilità di gruppi e persone deputati alla gestione dell’industria artistica ormai allineata assieme alle industrie del lusso e quelle cosiddette creative.

In NY 62-64 Michael Rock giustamente definisce il volume espressivo del «Metodo Celant». Come egli spiega, ospita dei testi informati da differenti punti di vista, è organizzato in un flusso cronologico in cui «un fiume di brevi elementi contestuali circonda isole narrative di forma più lunga», inquadra i fenomeni artistici assieme agli eventi sociali, politici e culturali del loro periodo. Resta indeciso, tuttavia, se l’impersonalità e il distacco professionale (Inespressionismo americano [1981] è il titolo di uno dei suoi libri più suggestivi, che offriva un tempestivo resoconto dell’operato di artisti quali Cindy Sherman, Robert Longo e Richard Prince) siano stati tali da allontanare arbitrio, interessi, valutazioni e volizioni soggettive; e ancora: se il modus operandi celantiano non corrobori un certo intendimento, di cui egli è stato più o meno consapevole, dell’arte e delle vicende artistiche dell’ultimo mezzo secolo.

Oltre a offrire un ritratto o autoritratto del critico-curatore, NY 62-64 presenta la traccia di una forma mentis che precede il suo esordio pubblico e che, in un certo grado, lo plasma ancora prima della nascita. Di che si tratta? Agli inizi dei ‘60 la sensibilità artistica d’oltreoceano acquisisce una sua marcata fisionomia. Tende a sminuire la facoltà di creare qualcosa di originale, per esaltare invece un duttile atteggiamento mimetico che, quantunque sperimentato nella vecchia Europa, assume implicazioni nuove. Gli artisti si immergono nel tessuto urbano; le loro opere si inviluppano e confondono con i segni e le cose del contesto circostante. Mentre i readymade di Duchamp si rivelano una fonte primaria di ispirazione – lo si evince, tra l’altro, dalle pratiche di Johns, Rauschenberg e John Cage – la convinzione che checchessia possa diventare arte, anch’essa europea e primonovecentesca, adesso viene opportunamente rilanciata.

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All’importanza di queste metamorfosi allude lo stesso Celant, in un saggio del 1980, citato a chiusura della discussione tra i contributori di NY 62-64. Egli riconosce che gli anni tra il 59 e il 63 registrano l’annessione nell’arte di una quantità di condizioni e di linguaggi, e che ciò aiuta a spingere «l’arte a ‘inghiottire’ il maggior volume possibile di dati comunicativi, con un approccio e una presa di posizione aperti e consapevoli. La proposta è quella di ‘aprirsi ampiamente’ per incorporare il mondo fino al punto di identificarsi con esso».

Tuttavia, un’arte che si fa con tutto e il contrario di tutto comporta non poche criticità. L’incontrollata deregulation può deprivarla della sua originaria portata sovversiva (ancora percepibile nelle avanguardie storiche) e porla sotto la balia del credo nel laissez-faire del neoliberismo americano. Ma se questa forma mentis attecchisce nell’ambito dell’arte contemporanea non è unicamente perché serve gli interessi dei mercanti o dei collezionisti. La si può apprendere, assorbire, distillare e disseminare in tanti modi, così che alla figura del vecchio critico otto-novecentesco ne subentri un’altra, ricettiva verso le mutate condizioni dell’arte. A cambiare, cioè, non sono soltanto le opere e le priorità degli artisti ma i rituali, i metodi, le immagini e le parole-chiave impiegati per darne conto al pubblico.

Benché dati alla fine dei ‘60, la scelta di Celant di perseguire una critica acritica meriterebbe una diversa, ideale datazione: si inserisce nell’orizzonte dischiusosi con il suddetto andamento storico-artistico, che è la sua matrice profonda. Difatti, una volta accettata l’indistinguibilità tra opera d’arte, oggetto esteticizzato e oggetti ordinari e che la figura dell’autore sia un idolo del passato, una volta compreso che il relativismo e il pluralismo stanno avendo la meglio sull’essenzialismo e che la formulazione di giudizi di valore finirebbe con il cadere in un vuoto abissale dove questo e gli altri mondi appaiono genericamente equivalenti, un critico che non voglia ritrovarsi a rappresentare una sorta di punto cieco nel reale dovrà assumere un ruolo che non è più quello di Argan, Venturi e Longhi, e nemmeno di Greenberg e Rosenberg, ma che semmai estremizzi la poliedricità e l’interdisciplinarietà di Eugenio Battisti (a Genova, era stato tra i primi mentori di Celant). Ecco che allora, precisamente come Oldenburg o Warhol replicano le cose, le immagini e le persone del mondo mutandone la scala o trasponendole nel domino artificiale appositamente prodotto da un medium tecnico-semiotico, a sua volta un critico potrà raccogliere un’immensità di materiali e duplicarli, mescolarli e riposizionarli grazie alla meditata costruzione di un libro, una mostra, un testo, un archivio, un catalogo, e così via.

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Il paradosso di quel gesto critico è che, per quanto eviti gli eccessi dell’esegesi e venga compiuto con lucida neutralità, comunque imprime un particolare sigillo ai materiali che amministra. Di più: è interpretabile come il veicolo di una interpretazione dell’arte e della vita di cui si avvale al fine di ottenere consenso e credibilità professionale. A rifletterci, quel gesto stranamente emula l’assidua ricerca di accumulazione del capitale che, è Walter Benjamin a notarlo, abbina la religiosità mercantile alla fascinazione per l’illimitato, e trova nel denaro vuoi il solvente che magicamente annulla le distinzioni vuoi l’emblema della tesaurizzazione sconfinata. Non a caso sfogliando le pagine di NY 62-64 si ha l’impressione che il volume sia ritmato da una “grande accelerazione”: proceda senza sosta o pause nel collezionare, addizionare e moltiplicare le informazioni. L’horror vacui è intollerabile. Si è riempito ogni spazio disponibile, esorcizzando l’inquietante intimazione di un vuoto che, qualora venisse avvertito, si teme possa compromettere gli intenti onnicomprensivi della documentazione. Quest’ultima, confidando nel tempo del calendario quale medium ineccepibile, lascia che gli eventi simultanei eppure asincronici o sconnessi si ritirino nel limbo per dare spazio all’immagine del triennio 62-64 come un tutto integrato. Sorge però la domanda se la pienezza così raggiunta non sia una simulazione ottenuta blandendo lo smisurato e trascurando la presenza di temporalità eterogenee che potrebbero coesistere tanto in un breve spaccato cronologico quanto nella storia umana in generale.

Il metodo devisato da Celant è quindi adottabile quasi di default non solo in ragione dell’apparente impersonalità che lo contraddistingue. Altrettanto decisiva è la sua capacità di esplicarsi all’insegna della riproduzione e della traduzione, di una rimodellante dinamica di “ri-mediazione” che si potrebbe addirittura rintracciare nel passato recente, considerando come la pittura moderna venisse rimodellata dalla fotografia, il teatro dal film e quest’ultimo dalla televisione. Tuttavia, a partire dai ‘60, prima con il definitivo affermarsi di una modernità transnazionale e poi con l’avvento dell’era digitale, la riproduzione diviene una delle più pervasive armi del potere che smette di fondarsi sul controllo dei mezzi di produzione e/o distribuzione delle merci per esercitarsi attraverso un lavorio di incessante replicazione che, impiegando misure, codici e media eterogenei, stimola corpi e cervelli alla condivisione di un omologante principio di realtà, una contemporaneità globale che funge da schermo o specchio nel quale ritrovarsi. 

Seppure in scala ridotta, una simile specularità tra i contenuti esibiti o duplicati e le menti di chi li assorbe è uno degli effetti provocati da NY 62-64. Avendo assunto come referente un determinato segmento storico, un triennio newyorkese, il libro esegue su di esso un intervento simile a quelli della chirurgia plastica: liberamente lo incarta in un involucro studiato per l’occasione e lo ricompone in un sembiante che “ri-media” le immagini e le parole di quel tempo trasferendole e ridistribuendole in un altro sistema di segni. Non si tratta quindi di critica, filologia, ermeneutica o storia per come vengono intese nei consueti ambiti delle humanitas, bensì di un inventivo mix di cronistoria, display di informazioni e visionarietà barocca. È come se i richiami al passato avallassero (anziché confutare) la convinzione che esista unicamente il presente. Però l’atteggiamento acritico, lo spiccato professionalismo e la notata assenza di partigianeria non devono trarre in inganno. Il metodo Celant è stato parziale. Proprio perché lo ricalca, gli è fedele al punto da rendere espliciti i suoi procedimenti, NY 62-64 non solo lo distilla e instilla ma illustra come fosse un metodo eminentemente critico, ovvero schierato e frutto di scelte. Quel mix è congeniale a una particolare cultura artistica – e alle forme di vita che essa ratifica, imita, gratifica e perpetua – di cui Celant ha incorporato e rappresentato gli slanci quanto le cadute, il bene quanto il male.

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