Appunti da Short Theatre / Decolonizzazione e disorientamento
Lo spazio vuoto sa essere opprimente. Molto spesso la paralisi, o perlomeno la difficoltà a muoversi, più che dalla mancanza di canali e interstizi entro cui “estendere” il proprio corpo derivano dall’indecisione, dall’incapacità di intraprendere una e una sola via poiché tutte sembrano percorribili al medesimo tempo. È, in qualche modo, lo stesso paradosso vissuto da uno scrittore davanti alla pagina bianca o da un pittore che si trovi a osservare una tela su cui ancora non è abbozzato alcun disegno. Entrambi si trovano di fronte al fatto che “creare” significa soprattutto selezionare e discernere, affrontare la “pienezza sottile” (cioè la ridda di virtualità) rappresentata dall’assenza.
È, anche, la contraddizione che si riverbera in alcuni degli spettacoli andati in scena durante la quindicesima edizione di Short Theatre (4-13 settembre), il festival ideato dal regista Fabrizio Arcuri e dalla curatrice Francesca Corona, nato presso le strutture del Teatro India e da due anni invece “trasportato” dentro l’area dell’ex-Mattatoio nel quartiere Testaccio di Roma. Il rapporto con lo spazio e gli spazi è tra l’altro una delle tematiche che hanno rivestito un ruolo centrale nella definizione del programma e nella costruzione di una nuova relazione con la città e con il tessuto urbano circostante. A partire, per esempio, dalla frase-citazione che introduce la scaletta di quest’anno: «Let my building burn» (“Lasciate che il mio edificio bruci”), una dichiarazione rilasciata a maggio dal proprietario del ristorante Gandhi Mahal di Minneapolis, mentre il suo edificio si trovava in fiamme per via delle proteste che si erano scatenate in quei giorni in seguito all’uccisione per mano poliziesca dell’afroamericano George Floyd. Secondo i curatori, si tratta di una vicenda che è anche il segno della «possibilità sempre presente di trasformare, il potere – tutto terreno – del lottare, la capacità di immaginare ciò che non è ancora, di creare spazio dove sembra non possa esistere, di diffondere e disseminare il desiderio, opponendo il comune al proprio, il collettivo al singolare, il trasmettere al tramandare, il trasformare al conservare».
Proprio ciò che, infatti, si propone di realizzare inoltre l’opera di decolonizzazione che è stata in qualche modo intrapresa dal festival stesso con la trasposizione degli spettacoli non solo nei locali dell’ex-mattatoio cittadino ma anche nella struttura di Wegil, storico palazzo realizzato dall’architetto Luigi Moretti per la Gioventù Italiana del Littorio, e più nello specifico con dei veri e propri interventi pratico-teorici di ri-significazione dei luoghi e della loro funzione. Già in vista della precedente edizione di Short Theatre le studiose e ricercatrici Ilenia Caleo, Isabella Pinto, Serena Fiorletto e Federica Giardini avevano problematizzato la questione del passato fascista di alcuni degli edifici in cui si svolgeva il festival (come il WeGil, per l’appunto), mettendo a punto una serie di riflessioni e proposte su un loro possibile re-orientamento e riutilizzo, di una loro ri-semantizzazione all’interno del contesto urbano. Così come, quest’anno, parte della programmazione del festival è stata dedicata proprio al tema del ripensamento del modo in cui, da individui e in quanto collettività sociale, decliniamo i concetti di “razza” e “genere”: è il caso della lectio magistralis della filosofa francese Elsa Dorlin (autrice di Difendersi – una filosofia della violenza) o dell’installazione multimediale Liquid Violence di Forensic Oceanography (progetto di inchiesta sulla militarizzazione dei confini e le politiche di migrazione del Mediterraneo che vede la collaborazione fra l’architetto Lorenzo Pezzani e il ricercatore e videomaker Charles Heller), che hanno provato a mostrare e mettere in discussione le linee di inclusione ed esclusione interne alle nostre società.
Ed è, in qualche modo, anche la contraddizione da cui parte lo spettacolo Dream is the Dreamer della coreografa portoghese Catarina Miranda con in scena il performer André Cabral – una delle proposte di danza più “pure” di questa edizione, che ha visto anche la presenza di Marco D’Agostin con First Love, Volmir Cordeiro con Rua, David Marques con Dança Sem Vergonha e Jacopo Jenna con la presentazione di alcuni lavori – per tradurla in concretezza fisica e coreografica. Sulla scena ricavata dentro gli spazi di La Pelanda (ex-mattatoio), le luci basse creano fin da subito un’atmosfera oscura e a tratti tetra, ricoperta da un alone di indeterminatezza. A terra, alcune linee di nastro giallo fosforescente si estendono lungo le diverse direttrici dello spazio, andando a dividere la scena in distinti quadranti e “spicchi” mentre il buio – per contrasto con l’acceso nitore del colore – risulta ancora più impenetrabile. «I temi di Dream is the Dreamer riflettono l’interesse sulle esperienze ontologiche ed epistemologiche come la capacità di relazionarsi, l’alterità e l’ignoto», afferma Miranda. E aggiunge: «Sono curiosa di vedere come si evolverà questa ricerca fra 15 anni».
Proprio sulla “curiosità” e sull’“ignoto”, come forme di partecipazione dello spettatore ma anche di tensione collettiva, fa leva l’inizio dello spettacolo che vede il perfomer André Cabral comparire in scena e presentarsi verbalmente al pubblico. La sua figura sembra in qualche modo “deformata”, claudicante e appariscente: il performer indossa un piumino anch’esso giallo sgargiante e ha in mano un sacco di plastica, mentre cammina con una gamba più sollevata dell’altra. «Andrò a raccontarvi alcuni eventi che si svilupperanno stasera», dice con fare assertivo e quasi auto-evidente. Un’affermazione che, in realtà e a dispetto di quanto lineare appaia, ha la funzione di sdoppiare le linee narrative e i piani di interpretazione: i racconti del danzatore non vanno infatti a “illustrare” o accompagnare i movimenti, bensì tendono a evocare dimensioni e situazioni altre rispetto a quelle in cui si trova il corpo in scena. Si parla, come spiega la stessa coreografa Catarina Miranda, di «un uomo che emula sé stesso in una soffitta; un ascensore per la mutazione genetica; un Pop monster mobile costituito di parti corporee del pubblico; strategie per volare con la sola propulsione del corpo (Ícaro)». Tutte storie e “scene” che rimandano a contenuti dai toni assurdi, oltre la logica binaria, onirici.
Di converso, i gesti di André Cabral rimangono invece ancorati a una certa pesantezza, a un immobilismo che sembra essere il segno di una presenza granitica, fisica, carnale. Al contrario, in un primo momento, sono gli oggetti circostanti ad animarsi e a comporre un atmosfera più distaccata dalla realtà, lieve ed eterea: il sacco di plastica che il danzatore reggeva in mano all’inizio dello spettacolo assume piano piano vita propria, o perlomeno capacità di movimento; lo vediamo infatti scorrere autonomamente sul suolo del palco, transitare lungo le direttrici di quest’ultimo come se fosse trasportato da dei magneti sottostanti, fino a fermarsi e sprigionare dalla sua apertura superiore una nube di fumo che avvolge lo spazio attorno; così anche il giubbetto a piumino indossato per l’entrata in scena, una volta abbandonato per terra, si sposta senza bisogno di alcun aiuto umano. La performance si fa progressivamente gioco di ombre, di illusioni. È come se André Cabral fosse in preda (e noi con lui) a tutta una serie di allucinazioni ipnagogiche. Impossibilitato a muoversi poiché in stato di sonno profondo, vede però sé stesso “dall’esterno” e gli oggetti intorno che si animano. Il commento sonoro accresce una tale dimensione onirica e perturbante: la voce del performer viene molto spesso duplicata artificialmente, assumendo un retrogusto decisamente meccanico, robotico, mentre la musica di Jonathan Saldanha si sviluppa dentro fraseggi reiterati e dimensioni elettronico-ossessive.
D’altronde – sembra suggerire lo spettacolo Dream is the Dreamer, se letto all’interno della cornice più generale dell’edizione del festival – ogni decolonizzazione inizia sempre a un livello inconscio, ogni decolonizzazione è innanzitutto una decolonizzazione dello sguardo. Anche gli altri due appuntamenti coreografici “sull’asse brasiliano-portoghese” della quindicesima edizione di Short Theatre, Rua e Dança Sem Vergonha, sembrano andare in direzione simile, verso cioè l’esplorazione dei condizionamenti e delle sovrastrutture che si annidano nei recessi più intimi e nascosti dell’io. Il primo, attraverso una sorta di “torsione” e forzatura della logica del rapporto dello spettatore con lo spettacolo, per cui il danzatore Volmir Cordeiro si lancia lungo l’ampio corridoio centrale dell’ex-mattatoio quasi alla caccia del pubblico, punzecchiando e provocando quest’ultimo attraverso continue invasioni di spazio, allusioni gestuali e contatti corporei. Il secondo, invece, facendo scendere il principio coreografico in una dimensione in tutto e per tutto personale e privata, per cui la “stanzetta” – in cui danza il performer David Marquez – si trova all’incrocio di mente e cosmo, di individuale e collettivo.
In generale – e in questo molto significative sono le suggestioni della videoperformance Gisher di Giorgia Ohanesian Nardin, artista di discendenza armena – lo sforzo di varie proposte spettacolari che attraversano il festival sembra essere quello di concepire il corpo come “materia pensante”, come un’articolazione in qualche modo già auto-cosciente dello spazio. Oltre alle testimonianze “videopoetiche” di Nardin della prima parte, infatti, anche le riflessioni registrate di numerose altre ricercatrici e danzatrici (Kamee Abrahamian, Chiara Bersani, F. De Isabella, Simone Derai, Maddalena Fragnito, Jamila Johnson-Small, Ndack Mbaye, Giorgia Ohanesian Nardin, Raffaele Tori, Taguhi Torosyan), che nella seconda parte vengono riprodotte tramite degli altoparlanti posti attorno a un falò abbordano e definiscono un tipo di emotività che non può prescindere dal contesto fisico in cui nasce e si sviluppa, di un’idea che si fa tutt’uno con la carne, per quanto in un modo niente affatto traumatico o violento ma “dolce”.
Ed è forse su questi territori che, però, Dream is the Dreamer produce uno scarto, segna una differenza con altri spettacoli. Se il disegno coreografico di Catarina Miranda pare anch’esso teso a inscriversi dentro un’unione abbastanza marcata di sogno e realtà, di simbolo e concretezza fisica, la sua perfomance esprime allo stesso tempo un forte senso di inquietudine e disarmonia, è a tratti attraversata da una angustia viscerale ed esplosiva. Fra oggetti animati, illusioni ottiche e movimenti discreti ma vigorosi, con Dream is the Dreamer ci troviamo di fronte a un rito sospeso fra fervore sciamanico e meticolosità scientifica: come un novello Frankenstein (senza però che sia presente, o almeno visibile, il creatore) André Cabral prende lentamente vita innervato da rivoli di energia elettrostatica, che si manifesta in piccole scariche improvvise e pulsanti; un’energia che, ancora prima di innervare il suo corpo, si riverbera appunto negli oggetti che lo circondano, entra in cortocircuito con l’atmosfera producendo fumo; allo stesso tempo, però, la qualità dei movimenti così generati e l’aria che si “respira” sul palco possiedono il carattere “nero” e selvaggio del voodoo: il performer disarticola i propri gesti in una serie di pose, posture e movenze che sanno di “auto-esorcismi”, di pratiche coreutiche che nulla hanno di freddo e raziocinante ma, anzi, rimandano a uno sdoppiamento del sé ardente e passionale, sebbene per nulla brusco o appariscente.
È, a tutti gli effetti, il segno di una (voluta) ambiguità compositiva: il performer come soggetto/oggetto, autore e spettatore di sé, un “personaggio” al tempo stesso dormiente eppure con fin troppa coscienza delle profondità del suo io. Perciò, nonostante sia evidente la presenza di un disegno coreografico molto preciso dall’esterno della scena, in Dream is the Dreamer ogni scrittura per il corpo è anche scrittura del corpo su sé stesso, una psicografia continua del danzatore in stato di trance. Piano piano che il corpo fisico in scena – prima quasi immobile e sulla fine dello spettacolo invece stremato – si anima di movimento, ritorna la paradossale dialettica dello spazio che menzionavamo in apertura: il vuoto non come possibilità di esplorazione sconfinata, ma forza opprimente, costrizione. Pur seguendo delle sequenze stabilite e progressive, André Cabral interpreta ogni movimento come spinta verso un limite fisico fino a quel momento sconosciuto, tendendo ed estendendo, per ogni singola “figura”, muscoli e arti al loro massimo e inconsapevole grado di potenzialità espressiva. L’intensificarsi del carattere ossessivo della musica e il crescente pulsare dei fasci di luce, che iniziano a spegnersi e accendersi a intermittenza, contribuiscono a far convergere tutta la nostra attenzione sull’eccedere del movimento a sé stesso, sulla pura corporeità del danzatore che è ormai disgregata, dissolta in un unico gesto di sforzo e lotta.
“Disorientamento” potrebbe essere la parola che meglio riassume Dream is the Dreamer. Nonostante alcuni momenti che, soprattutto nel finale, si fanno anche lievi e ironici, la consapevolezza dello spazio – intesa come racconto di un contesto altro (reale o fittizio) ed esplorazione fisica dell’ambiente scenico – assume i tratti dell’incubo, dell’estasi nevrotica: poiché, quanto più si guadagna contezza di ciò che ci circonda, tanto più ci si confronta con la sua vastità e indeterminatezza. Lo sforzo che Catarina Miranda intende rappresentare, inscrivendo la concezione coreografica dentro la carne stessa del danzatore, è appunto lo sforzo di far resistenza al vuoto, di abitare lo spazio con il proprio corpo, che – ancora prima di essere veicolo di gesto e movimento – è innanzitutto traccia di ferite primordiali, marchio di quell’urlo che accompagna ogni nascita. Rimane una sola cosa da fare, dice André Cabral poco prima della calata del sipario: «Andare giù, restare rasenti al suolo e aspettare».
L’ultima immagine raffigura un momento dello spettacolo Dream is the Dreamer di Catarina Miranda, ph. Jose Caldeira.