Speciale
Dell'Africa
Siamo felici di pubblicare la prefazione del libro Dell'Africa di Wole Soyinka, uno dei più rispettati e influenti scrittori contemporanei africani, premio Nobel per la Letteratura del 1986. Il testo è stato gentilmente offerto dall'autore per la pubblicazione su Why Africa? Buona lettura.
Wole Soyinka, ph. Graeme Robertson
Che cosa possiede il continente noto come Africa che il resto del globo, o una sua gran parte, non abbia già in sovrabbondanza? Naturalmente non possiamo limitarci a considerare beni materiali o inerti – come risorse minerarie, località turistiche, punti strategici – senza dimenticare la secolare destinazione del continente a vivaio di esseri umani per fornire manodopera a basso costo ad altre società, orientali e occidentali. Ma esistono anche beni dinamici: i modi di vedere, di rispondere, di adattarsi o semplicemente di fare, che variano da popolo a popolo, nonché le strutture dei rapporti umani. Tutto ciò costituisce potenzialmente oggetto di scambio – non negoziabile come il legname, il petrolio o l’uranio, ma nondimeno riconoscibile come qualcosa che definisce il valore umano di un popolo – e potrebbe contribuire concretamente alla risoluzione dei problemi di comunità lontane, o addirittura alla sopravvivenza del pianeta, se solo fosse conosciuto o si potesse valorizzare in maniera adeguata.
C’è anche, naturalmente, la questione degli aspetti negativi e del fardello che rappresentano per gli altri. Sto parlando di una situazione in cui la rovina di una parte può minacciare la salute o la sopravvivenza del tutto – una strada piuttosto ingloriosa per rivendicare la propria importanza e attirare l’attenzione altrui. Se ci concentrassimo solo sull’Africa, ignorando per ora il resto del mondo, l’instabilità nel Congo o nel Ciad porta con sé minacce che devono costringere il continente non solo ad alzare la testa e a prendere coscienza, ma anche ad agire in modo preventivo per arginare l’ondata di destabilizzazione al di fuori dei confini direttamente interessati. La crisi non del tutto risolta nella regione petrolifera del Delta del Niger è stata motivo di preoccupazione nel mondo intero per più di un decennio. La stessa correlazione riguarda gli affari interni di qualsiasi paese. Se cambiamo parametri e orientamento, le economie un tempo apparentemente incrollabili dell’Europa sono diventate negli ultimi anni fonte di grave preoccupazione per le giovani nazioni africane, tanto che possiamo affermare che l’Europa ha un’importanza drammatica per queste ultime, con un cambiamento qualitativo senza precedenti dai tempi del colonialismo e della prima fase della decolonizzazione.
In ultima analisi, tuttavia, i beni primari e incontestabili che una società può rivendicare o offrire come contributi unici al progresso del mondo sono la sua umanità, la qualità e il valore della sua stessa vita e i modi in cui tratta il proprio ambiente – sia quello fisico sia quello immateriale (incluso quello spirituale). La risposta a questa domanda costituisce l’obiettivo fondamentale in questo breve excursus sul passato e sul presente dell’Africa.
Per molte persone, l’Africa è un concetto più che uno spazio delimitato, il che significa, a sua volta, che non è un unico concetto, ma molti. Nello stesso tempo è realizzazione di un desiderio e realtà, proiezione e distillato storico, falsificazione e memoria. In generale, poi, l’Africa è considerata una riserva di risorse naturali non ancora sfruttate. Mentre per alcuni è un oggetto del desiderio, per altri è un incubo dal quale pregano di essere risvegliati, un pezzo dell’arazzo della storia i cui fili possono essere disfatti senza che il resto perda la sua definizione. E molti d’altro canto paiono desiderosi di partecipare a questo allettante ma dubbio banchetto, convinti che l’Africa rimanga uno spazio di possibilità infinite, in attesa di realizzare la sua vocazione. Fra costoro, un buon numero è deciso a essere presente e a prender parte all’evento. La loro stirpe è onnipresente. Gli addetti all’immigrazione li riconoscono a prima vista. Quando vengono espulsi da una parte, non se ne vanno finché non riescono a tornare da un’altra. “Mi espellono continuamente dall’Africa,” ho sentito dichiarare a uno di loro, “ma nessuno può espellere l’Africa da me.”
Questi punti di vista contrastanti non appartengono a gruppi specifici – nazionali, razziali, religiosi ecc. – né si escludono a vicenda. Troveremo asiatici, europei e australiani, progressisti e reazionari, capitalisti, socialisti e tecnocrati che sostengono o ripudiano una di queste visioni o tutte, e forse altrettanti che cambiano terreno da un anno all’altro – dipende tutto dall’esserci stato un altro genocidio in Ruanda, o un attentatore suicida in Nigeria, o dall’efficace sfruttamento dei depositi di gas tossico dopo l’eruzione limnica nel lago Nyos[1], o dall’emergere di un nuovo Nelson Mandela nelle baraccopoli di Malabo.
Wole Soyinka, ph. Tangerine Vodka
L’Africa – concetto o realtà – è notoriamente un continente estremo, e non deve quindi sorprendere che susciti reazioni estreme. Gli africani stessi sono divisi nelle loro risposte o nelle loro strategie di accomodamento – acquiescenza, protezione, rassegnazione o fiera difesa – identificandosi, giustificando o dissociandosi da ciò che appare o si presume stia sotto alla superficie. L’idea comune sempre più condivisa, sia dai pessimisti sia dagli ottimisti, è che il continente africano non esista preso isolatamente, né sia rimasto immobile in una distorsione temporale, fuori della storia. Al contrario, l’Africa è intimamente legata alle storie altrui, nelle cause come negli effetti, è un organismo complesso plasmato dai propri moti interni e dagli interventi esterni, che continua a partecipare, per quanto ciò sia spesso negato, ai trionfi e ai progressi del resto del mondo.
Le riflessioni contenute in questo libro nascono da un interesse naturale, e a tratti frustrante, per questa camaleontica entità, dato che dalla sua definizione, in generale, deriva anche la mia. Si tratta di saggi che discutono affermazioni in cui mi sono imbattuto in circostanze molto differenti: aule universitarie, convegni internazionali, tavole rotonde, programmi radiotelevisivi. Alcuni, lo ammetto, sono stati originati o devono la loro forma a una serie di incontri casuali in cui il tema era il “Fenomeno Africa”. Non sono mancati atteggiamenti di superiorità professorale del tipo: “Ma insomma, guardiamoci negli occhi, lei deve ammettere che c’è un problema con i popoli africani… Pensi a quello che è appena successo in… / al tasso di corruzione in… / con una frazione delle risorse naturali dell’Africa, altrove…”. In alcuni casi con una sfumatura di compassione: quasi un invito a me rivolto a entrare nel club d’élite da una zona temibile e da evitare.
All’estremità opposta c’è il rassicurante consenso sulle arti tradizionali africane e l’ottimistica, addirittura entusiastica prognosi sulla sua economia: “L’Africa sarà la prossima grande economia a sconvolgere il mondo dopo la Cina, creda a me. Aspetti altri vent’anni e vedrà”. Come se l’Africa, un territorio così vasto, potesse avere parametri di sviluppo omogenei per tutto il continente. Poi ci sono varianti in cui un individuo – assurto a fama improvvisa o da sempre al potere – è allegramente confuso con la totalità, sicché si è tenuti ad accettare la brutalità di un sadico o le pagliacciate di un altro nei summit internazionali come prova della barbarie o dell’imbecillità di un intero continente. Dovremmo tirare un sospiro di sollievo quando il discorso cade sull’esplosivo talento calcistico dell’Africa, praticamente l’unico argomento che garantisce affermazioni spontanee, obiettive e (apparentemente) fondate; peccato non costituisca un sollievo per chi non prova entusiasmo verso l’isteria di massa di questo sport globale.
In tutto ciò spicca un incidente molto recente che, paradossalmente, ha approfondito la mia partigianeria: perché il suo rilievo storico sembra minare la convinta ostilità agli stereotipi che ho cercato di esporre in queste pagine. È accaduto a Bayreuth, in Germania, nel novembre del 2009. Avevo fatto riferimento, durante una conferenza, alla controversia che c’era stata l’anno prima sulla produzione dell’opera Idomeneo da parte della Deutsche Oper (vedi il capitolo 8). Era stato espresso il timore che, siccome l’opera offriva un ritratto irriverente di personalità religiose e profeti, si offendesse la sensibilità religiosa di alcune persone. Nel mio discorso affermai che sia il Cristianesimo sia l’Islam si erano macchiati non solo di atrocità sul suolo africano, tra cui la riduzione in schiavitù degli indigeni, ma anche di un sistematico assalto alla spiritualità africana, nella loro lotta per l’egemonia religiosa. Le dichiarazioni di reciproca tolleranza delle due religioni, quindi, secondo me erano ancora limitate alla visione manichea di quegli incorreggibili egemonisti, che si erano dimostrati incapaci di prendere in considerazione i diritti di altre religioni al medesimo rispetto, al medesimo spazio e alla tolleranza. Eppure – come sostengo apertamente in questo volume – proprio per questa ragione, secondo me, quelle religioni “invisibili” erano in una posizione unica per svolgere il ruolo di arbitri neutrali ogni volta che i due rivali si azzannavano alla gola.
Alla cena dopo la conferenza, l’osservazione di un giovane sui trent’anni, provocata dalle mie parole, rivelò implicazioni ben al di là delle mie intenzioni. Era banalmente offensiva, ma era interessante perché indicava l’esistenza di una convinzione profonda – non solo di quell’individuo, ma di un’intera consorteria ideologica, che lui semplicemente aveva espresso. In quel momento non sentii una voce, ma molte, da tutta l’Europa e dagli altri continenti. Solitamente represse, aspettavano un’occasione per spuntare fuori – e non solo in quelle parole abrasive dette a una cena, ma negli episodi di violenza xenofoba organizzata. Ecco ciò che disse: “Voi africani, deve ammetterlo, siete inferiori per natura. Non può essere altrimenti, o le altre razze non vi avrebbero schiavizzato per secoli. Gli schiavisti vi vedevano per quello che siete, quindi non potete prendervela con loro”.
Fu una frase secca, detta con precisione, come una battuta lungamente provata. La tavola – la parte che aveva sentito – si zittì. Io, zitto a mia volta, cambiai di posto. Pochi istanti dopo anche il giovane interlocutore se ne andò, senza farsi notare.
“Il buono, il brutto e il cattivo,” sospirò una volta un giornalista nigeriano, frustrato per l’improbabile nazione in cui era nato senza che nessuno avesse chiesto il suo parere. Il titolo del western di Sergio Leone spesso sembra tagliato su misura per il continente africano, ma non è questa una condizione condivisa dalle più avanzate nazioni occidentali e asiatiche, anche senza giungere agli estremi dell’episodio che ho appena raccontato? Questo libro si impegna a farlo notare, evitando facili generalizzazioni su un continente variegato e sui suoi popoli. In fondo, però – ed è una cosa più interessante del singolo caso di indottrinamento razzista, o anche degli elogi sentimentali – il punto è un altro: molto semplicemente, la storia ha sbagliato. Le dichiarazioni secondo cui l’Africa è già stata esplorata sono avventate come le notizie della sua morte imminente. Un’indagine davvero illuminante sull’Africa deve ancora avere luogo e non finge di accadere neanche nelle pagine di questo libro, che si limita a raccogliere qualche seme fecondo abbandonato sull’aia dell’esistenza africana nel suo complesso. Spero che da questi semi nasca una nuova stirpe di esploratori per la corsa alla necessaria. Età della Comprensione Universale, ispirata dall’Africa.
[1] Lago del Camerun di origine vulcanica. La notte del 21 agosto 1986, un’improvvisa emissione di anidride carbonica uccise nel sonno più di 1.700 persone e oltre 3.500 capi di bestiame. (N.d.T.)
Questo brano è gentilmente concesso da Bompiani
Traduzione di Alberto Cristofori
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