Arte della memoria a Madrid / Doris Salcedo, lacrime di cristallo

23 Dicembre 2017

Tomba di Keats, Cimitero Acattolico, Roma.


Come ognun sa, John Keats e Percy Bysshe Shelley sono sepolti a pochi metri di distanza l’uno dall’altro, in una valletta di dolce verdezza al Cimitero Acattolico di Roma: all’ombra della Piramide Cestia, non lontani da Gramsci, Gadda e Amelia Rosselli. Vicini pure morirono, nel tempo più che nello spazio: men che trentenni entrambi, tra il febbraio del 1821 e il luglio del 1822. Il primo a Roma, di tisi; il secondo al largo di Portovenere, in quello poi ribattezzato Golfo dei Poeti, nel naufragio della goletta Ariel. Le rispettive lapidi (riportate, fra l’altro, nel bellissimo Tumbas di Cees Nooteboom, un paio d’anni fa tradotto da Fulvio Ferrari per Iperborea) paiono dialogare fra loro. Quella di Shelley, memore del naviglio fatale, riporta i versi celebri della Tempesta di Shakespeare – «Nothing of him that doth fade, / But doth suffer a sea change, / Into something rich and strange» –, ma sul suo destino pare impossibilmente riflettere, prima di poterlo conoscere, l’epitaffio dettato per sé dall’altro poeta, Keats: «Here lies One Whose Name was writ in Water». La sua lapide è ritta a perpendicolo sull’erba, mentre orizzontale si stende su di essa quella di Shelley.  

 

Madrid, Palacio de Cristal.


A queste parole di dolente eloquenza fa pensare la magnifica installazione di Doris Salcedo, Palimpsesto, al Palacio de Cristal del Museo Reina Sofía, nel Parque del Retiro a Madrid (fino al 1 aprile 2018). Soprattutto perché il nome «scritto sull’acqua» è una metafora, per Keats, per dire che sulla sua lapide, in realtà, non c’è scritto nessun nome. Mentre di nomi, essenzialmente, consiste appunto l’opera dell’artista colombiana: nomi non scritti sull’acqua, e dunque destinati subito a svanire, ma (come pure si potrebbe tradurre la frase dettata dal poeta) con l’acqua. Alla lettera. Quando mi avvicino alla struttura efflorescente di vetro e metallo, incastonata fra i cipressi calvi e gli ippocastani del parco, e il laghetto artificiale antistante colla sua fontana a getto, il Palazzo di Cristallo sembra del tutto vuoto. Ma quando abbasso lo sguardo ai miei piedi mi accorgo che su un tappeto granulare di colore grigio, steso uniformemente sull’intera superficie circoscritta dalle pareti trasparenti, pian piano si vanno addensando macchie di umidità che, dopo qualche minuto, diventano lettere davvero fatte d’acqua; e queste lettere compongono dei nomi di persone. Persone morte in mare, nel Mediterraneo, nel tentativo di salvare la propria vita dalla guerra e dalla fame. Passa qualche altro minuto, l’acqua pare riassorbita dal “terreno”, poi lentamente si formano di nuovo delle lettere. Altri nomi. Gli uni si sovrappongono al ricordo recente di quelli che li hanno preceduti. Un palinsesto appunto. 

 

Ph Maria Teresa Carbone, Doris Salcedo, Palimpsesto.

 

Ph Maria Teresa Carbone, Doris Salcedo, Palimpsesto.


Tutto qui. La potenza di una metafora si misura, spesso, dall’economia di mezzi impiegati per realizzarla. (Economia apparente: ci sono voluti quattro anni, a Salcedo e ai suoi collaboratori, per mettere a punto il complesso sistema d’ingegneria idraulica che rende possibile questo affioramento perfettamente silenzioso, e poi l’inabissamento altrettanto graduale, e altrimenti impercettibile, delle gocce d’acqua che compongono i nomi degli Scomparsi.) Continuo a camminare sulla superficie dell’opera, stando bene attento a non calpestare i nomi visibili, ma anche quelli temporaneamente cancellati (che lasciano, ad aguzzare gli occhi, un’impronta cava sul grigio leggermente più scuro). Ogni tanto alzo gli occhi da terra, ma non c’è altro da vedere. Solo gli altri visitatori, che lentamente perimetrano la superficie ai loro piedi (c’è chi si tiene a debita distanza dalle scritte, altri si azzardano a scavalcarle con passi più lunghi, tracciano percorsi diagonali, disegni variabili nello spazio). E gli alberi fuori dai vetri, e l’acqua del laghetto (l’aspetto site-specific è però soprattutto nella scelta del contenitore: edificato nel 1887 per l’Esposizione delle Isole Filippine, dunque per celebrare il colonialismo spagnolo, come il Crystal Palace di Londra cui s’ispirava il Palacio de Cristal doveva essere un’«architettura a orologeria», per dirla con Marco Biraghi, e invece sopravvisse alla sua occasione; mentre l’originale andò distrutto in un incendio, nel 1936, il d’après madrileno è giunto sino a oggi: in una dialettica fra permanenza e dissoluzione che, come illustra l’opera di Salcedo, non è dissimile dal funzionamento dei meccanismi della memoria e del riconoscimento).

 

Crystal Palace, London, interno.

 

Crystal Palace, London.

 

La fragilità materiale del lavoro è il primo aspetto su cui riflettere. Giustamente Manuel Borja-Villel, il direttore del Reina Sofía (dal quale alla GNAM, nell’ambito di C17 – la Conferenza sul Comunismo dello scorso gennaio –, ho avuto modo di ascoltare di quest’anno un’intelligente riflessione sul ruolo delle istituzioni pubbliche nella discussione politica che l’arte può sollecitare), definisce Palimpsesto un «monumento». Retoricamente opposto alle forme classiche (anche quelle novecentesche) della monumentalità, certo: ma davvero capace di riattivare il cortocircuito attivo-passivo da sempre insito nell’etimo: ricorda e, così facendo, ci ricorda. Come i lavori di altri artisti – da Kiefer a Boltanski ai Kabakov – ricordati, è il caso di dire, dall’Aleida Assmann di Ricordare (il Mulino 2002), l’«arte della memoria» ha tanta più forza quanto più si presenta fragile, intermittente, semicancellata: se il monumento classico s’impone allo spettatore, con l’affermarsi verticale che lo sovrasta, qui la postura orizzontale (come nel caso delle parole che, all’Acattolico, ricordano Shelley) fa piuttosto pensare alla delicatezza, in tutti i sensi, dell’esporsi. In Palimpsesto, come dice il titolo, l’apparire della memoria ha tanto peso quanto il suo sparire.

 

Ci ricorda tanto il silenzio acquiescente con cui assistiamo alle tragedie del nostro tempo quanto le troppe parole sbagliate, retoriche e vacue, con cui ci illudiamo di prenderne atto. Come scrisse nel 1969 (un anno prima di porre fine ai suoi giorni, dunque, procurandosi la morte per acqua nella Senna) Paul Celan: «la poésie ne s’impose plus, elle s’expose». La figura di Celan è un riferimento costante, per Salcedo; e credo si debba proprio alla sottigliezza con cui la tragedia della storia (quella della Shoah, cui s’intreccia la sua biografia personale, famigliare) non viene mai detta, da lui, in modo troppo esplicito; ma incombe immanente, si può dire, su tutto ciò che ha scritto. Argumentum e silentio, s’intitola una poesia dedicata da Celan a René Char in Di soglia in soglia; la maestria retorica, in forma di preterizione, consiste nel nominare appena il silenzio. Quanto basta per interromperlo, e dunque negarlo. È «la parola vinta al silenzio», dice Celan, che «testimonia della notte».  

 

Salcedo non è nuova né alla dialettica fra oblio e memoria, né a quella fra la verticalità metaforica della poesia e l’orizzontalità materiale del suo esporsi. Basti ricordare il suo lavoro più noto, Shibboleth, di giusto dieci anni fa: una fessura irregolare che si stendeva per 167 metri lungo l’intera, vastissima superficie della Turbine Hall, alla Tate Modern di Londra. Uno «spazio negativo», come lo definiva l’artista, che anche in quel caso intendeva ricordare l’illocazione, per usare un termine coniato da Emily Dickinson (e volto nella nostra lingua da Amelia Rosselli), delle persone migranti: di cui già allora si vedeva il destino di non-persone cui nell’indifferenza generale, di lì a qualche anno, sarebbero state condannate. È vero che tante, troppe opere di sedicente arte del nostro tempo si limitano a denunciarlo, il nostro tempo, così condannandosi alla piattezza della retorica, nel senso peggiore della parola (come ha mostrato qui Stefano Chiodi, a proposito per esempio dell’ultima Documenta a Kassel; o come si poteva vedere nella mostra centrale curata da Christine Macel all’ultima Biennale di Venezia). Come amano dire Antonio Rezza e Flavia Mastrella, chi abbia qualcosa da «denunciare» fa meglio a rivolgersi ai Carabinieri. Ma questo non ci deve indurre a una paradossale censura preventiva di chi cerchi le “parole”, in tutti i sensi, per dire certe cose. Altrimenti quelle “cose”, davvero, resteranno scritte solo sull’acqua.    

 

Una versione più breve di questo articolo è uscita su «Alias» il 3 dicembre

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