La strada al MAXXI di Roma / Dove si crea il mondo
Lo spazio è saturo di rumori, echi, suoni, voci. Dal frastuono emerge un fischiettio insistente e stonato, come se qualcuno si sforzasse di riprodurre melodie familiari, mentre schermi e monitor proiettano bagliori colorati. Il primo impatto con La strada. Dove si crea il mondo, la grande mostra aperta lo scorso 7 dicembre al MAXXI di Roma (fino al 28 aprile 2019) evoca la saturazione sensoriale, lo strepito assordante di una strada, uno spazio di movimenti, flussi, architetture, oggetti, veicoli, corpi, segni e gesti in perpetua trasformazione. Con oltre 200 lavori di 140 artisti internazionali, la mostra curata da Hou Hanrou è una prova coraggiosa e per molti versi controcorrente che susciterà attenzione e dibattito, senz’altro uno dei progetti più ampi e ambiziosi della sua attività di direttore artistico dell’istituzione romana (mirabile e per certi versi tangente a questo fu Open museum open city del 2014).
Sacrificando alcuni aspetti ormai canonici della pratica curatoriale, della strada la mostra ci restituisce la virulenza: ogni opera si presenta in tutta la sua fisicità, fatta di suono, colore, e spazio, vicina alle altre, a noi e agli altri, con una prossimità a tratti scomoda, capace di mettere alla prova di sottecchi il limite sottile, eppure vitale, tra privato e pubblico. L’allestimento, denso e di grande effetto, è concepito come un attraversamento di spazi intesi via via come luoghi fisici e simbolici da visitare ma anche di cui fare esperienza come laboratori di discussione, creazione, confronto, per la cultura e l’identità contemporanee. Il percorso, scandito in sei sezioni – Street politics, Good design, Everyday life, Community, Open institutions, Mapping – affronta il tema incrociandolo con la vita quotidiana, la storia, le azioni pubbliche, la politica, la comunità, l’innovazione, l’ecologia, mimando la sua essenza di luogo-manifesto in grado di riflettere e accompagnare il contemporaneo soprattutto nella sua perpetua mutazione.
Se la strada è storicamente anche un’arena delle tensioni e delle trasformazioni della società. la mostra propone di partire dalla sezione Street politics da dove si ricava una visione ampia di quei fenomeni espressivi e politici che hanno trovato nella strada, dagli anni Novanta ai nostri giorni, il loro teatro naturale. Artisti come Jonathas de Andrade, Yael Bartana, Eric Baudelaire, offrono le loro visioni, riprendendo il discorso iniziato negli anni Sessanta e Settanta da quella generazione scesa in strada per condividere un nuovo pensiero e nuovi modelli sociali, culturali e creativi, congiuntamente a un senso del privato immediatamente tradotto in politico. De Andrade (Maceió, Brazil, 1982) con il video O Levante (The Uprising, 2012-2013), ambientato a Recife, forza il divieto cittadino al transito degli animali da fattoria nella zona del centro, organizzando una corsa di carri trainati da cavalli per le strade, mentre una voce spiega le difficoltà della vita di campagna e racconta la corsa come l’inizio di una rivolta alla conquista della metropoli.
L’arte diventa lo strumento per rendere possibile una situazione altrimenti irrealizzabile, che sottolinea, tra l’altro, le origini rurali della regione a dispetto del panorama urbano circostante. Anche attraverso il lavoro di Yael Bartana (Kfar-Yehezkel, Israele, 1970) e sempre attraverso il video – il mezzo di elezione in mostra – lo spettatore si trova a esplorare l’immaginario dell'identità culturale e politica della memoria ma stavolta viene trasportato in Israele. In questo caso l’artista, documentando le proteste contro lo sfratto dei residenti musulmani da parte di coloni ebrei (The Recorder Player di Sheikh Jarrah), riprende una giovane donna mentre suona L’Internazionale – canzone popolare israeliana del 1982 e simbolo di protesta contro la prima guerra del Libano – di fronte alla polizia e all’esercito israeliano schierato e impassibile. L’immagine, semplice e fortissima, evoca nello spettatore altre immagini in cui la strada è stata il teatro di analoghe rivolte poetiche e non violente.
Tra documento e ironia, si giunge al lavoro di Eric Baudelaire (Salt Lake City, USA, 1973) con il video Walked The Way Home (2018), girato a Roma durante la residenza dell’artista presso l’Accademia di Francia. Qui il panorama è più familiare: l’artista mostra con garbo l’inquietante presenza dei presidi militari, organizzati nelle città europee a seguito degli attacchi terroristici nelle grandi capitali: strade e piazze cittadine si trasformano nei luoghi di una straniante coabitazione tra civili e militari.
E mentre Jeremy Deller ci suggerisce come uscire da Facebook (How to leave Facebook, 2018), marcando l’importanza dei temi della privacy e del “capitalismo della sorveglianza”, altre città, strade e vite possibili (talvolta più sostenibili) ci vengono incontro attraverso le sezioni Good design e Every day life. Qui la strada è riaffermata quale teatro di una parte rilevante della vita quotidiana e della nostra identità, estensione della nostra storia ma anche del nostro vissuto ‘domestico’, e per queste ragioni soggetto elettivo di un intervento creativo, critico e progettuale. Così, mentre grandi infrastrutture e piccoli elementi di arredo raccontano ipotesi di sosta, condivisione, innovazione tecnologica a servizio della sostenibilità, Adnan Softić (Sarajevo, 1975) con il video Bigger Than Life (2018), evidenzia la capacità pervasiva delle ideologie nel tessuto cittadino e, attraverso il pathos dell’opera lirica, documenta sarcasticamente l’operazione di restyling “Skopje 2014” che, per inscenare una lettura eroica del passato, ha previsto la costruzione di una trentina di edifici in stile neoclassico e la rivisitazione – con colonne e balaustre – di alcuni complessi costruiti negli anni Sessanta dando vita a una contesto architettonico posticcio, che pure la strada ha riassorbito nel suo tessuto di vita quotidiana, portando la realtà in un progetto privo di memoria.
Ancora, la strada si conferma teatro elettivo di azioni performative. Già nelle dérives urbane teorizzate dai situazionisti alla fine degli anni Cinquanta dello scorso secolo, i percorsi urbani diventavano oggetto di esplorazione fisica e psicoanalitica, dove camminare, cambiare direzione casualmente, perdersi; modi per costruire nuove mappature fisiche e affettive della città. Seguendo la traccia situazionista oggi alcuni artisti tentano di riaprire nella strada spazi di espressione e relazione, tra questi Yilin (Guangzhou, 1964) che nelle sue Golden Series, 2011-2012, raccoglie un ciclo di performance svolte nel 2011 a San Francisco dove l’artista, sdraiato a terra, percorre rotolando, ovvero usando la stessa azione fisica di base delle ruote dell’automobile, alcuni luoghi emblematici cittadini, preceduto da un gruppo di collaboratori che cammina lentamente aprendogli la strada. Cao Fei (Guangzhou (Cina), 1978), figura di spicco della “new generation” di artisti cinesi, con i suoi video (Hip Hop: Guangzhou, 2003 ; Hip Hop: Fukuoka, 2005; Hip Hop: New York, 2006) racconta invece la gioia del quotidiano attraverso una carrellata di personaggi che balla felice in strada al ritmo di una traccia Hip Hop, genere musicale che nasce appunto nelle strade come mezzo di protesta delle classi disagiate.
Di opera in opera, di nazione in nazione la strada si conferma luogo fondamentale per consentire alla comunità di sviluppare un’identità e una coscienza condivise e spazio per gli artisti per un’indagine dei confini fra pubblico e privato. Il conflitto sociale, il pregiudizio, l’immigrazione, le minoranze, in generale le relazioni interpersonali e il senso della comunità vengono vagliate, spesso in maniera disturbante, attraverso i lavori in mostra. Francis Alÿs (Anversa, 1959) con Paradox of Praxis 5, (2013) esplora il tessuto urbano mediante il gesto inutile e metaforico di calciare un pallone infuocato camminando in strada: nel buio intravediamo la città Ciudad Juárez illuminata dal bagliore del fuoco. Pochi lavori dopo osserviamo Kimsooja (Taegu, 1957) ripetere un’esperienza legata alla propria infanzia nomade e posizionarsi di volta in volta nelle strade di Delhi, Lagos, New York, rinegoziando ogni volta la propria identità, trasformando la sua visione personale nella nostra (l’artista è di spalle), la presenza in assenza, il privato in pubblico, e così convertendo in uno sguardo il soggettivo in universale.
La strada è una mostra da vedere, anche due volte: la successione incalzante delle opere, volutamente estenuante, conduce il pubblico verso dimensioni, spazi e tempi nuovi, talvolta imprevedibili, che pure mimano un movimento continuo di crocevia, luoghi e identità, familiari e non, un po’ come avviene con An Embroidery of Voids di Daniel Crooks dove l’osservatore è portato a vivere il movimento fluido della telecamera attraversando un infinito corridoio urbano di scorci e angoli cittadini avvertendo insieme un effetto ipnotico e straniante. Attraversando la mostra, vedendo, ascoltando e sentendo ‘fisicamente’ nelle opere tutta la dimensione umana della strada, si osserva quanto proprio nelle strade, in ogni latitudine, le tensioni, anche quelle apparentemente minime, siano spesso portate all’estremo e quanto l’immaginazione e la creatività abbiano ancora il potere di trasformare e muovere.
Chiusura ideale dell’esposizione, e prima opera ad aprirsi alla strada ‘vera’ (sono previste anche una video gallery e alcune performance in città) è il lavoro di Liu Qingyuan (Chongqing, 1972) The streets of the story del 2018: una serie di incisioni che tracciano la storia degli incroci fra l’iconologia della strada e l’arte nell’arte occidentale, nel periodo compreso dagli anni Sessanta e gli anni Novanta del Novecento, evidenziando la preistoria e la storia alla base della mostra e anche una differenza sostanziale tra le strade che si sono osservate: quelle cinesi, latino americane, medio orientali sono strade che stanno vivendo oggi un rivolgimento decisamente più marcato di quelle europee, italiane in particolare. L’assenza italiana sul tema – tra le poche eccezioni il bellissimo lavoro di Rosa Barba Free Post Mersey Tunnel comunque ispirato al tunnel che corre sotto la manica – dimostra quanto le strade nazionali non siano oggi al centro del cambiamento come lo furono negli anni Sessanta. E in effetti è attraverso le due timeline della mostra, che raccontano la strada dal punto di vista storico, che ci confrontiamo con esperienze come quelle di Ugo La Pietra e con un periodo, quello compreso tra gli anni Sessanta e Settanta, in cui attraverso le varie discipline dell’arte, dell’architettura, delle arti applicate, del design, in un’Italia al centro di una trasformazione economica, sociale, culturale e urbanistica, è stata tentata una fusione immaginifica tra ricerca e sperimentazione.
Allora emergevano graffianti e poetici progetti tesi a un’abitabilità più sostenibile, alla deviazione da luoghi e strutture della società già avvertite come rigide, capaci di agire nel sociale per la diffusione di un pensiero differente, incitare alla trasformazione delle convenzioni, a gesti minimi ma fondanti per la riappropriazione di strade e città. Analogamente oggi, a latitudini più lontane, rese vicine da mezzi e linguaggi inimmaginabili negli anni Sessanta, si tenta, attraverso le armi dell’arte e della creatività, – come dimostrato dalla mostra al MAXXI – una guerriglia impegnata nella “polis”, d’altra parte il termine ‘politica’ deriva appunto dalla parola greca pòlis («città-Stato») e indica l’insieme delle attività che hanno a che fare con la vita pubblica, una vita pubblica che ha il suo teatro principale proprio nella strada. E così un ampio spettro dei linguaggi della creatività contemporanea è impegnato nell’osservazione e nell’azione, nella considerazione di temi fondanti quali i rapporti interno/esterno centro/periferia individuo/società, alla ricerca di un genius loci, ovvero di quello spirito dei luoghi con cui, fin dall’epoca romana, l’uomo ha dovuto confrontarsi per poter abitare e che oggi, spessissimo e ovunque, dimentichiamo.