Editoria senza André Schiffrin

6 Dicembre 2013

L’editore americano André Schiffrin è morto a Parigi in questi giorni. È uno strano destino, Schiffrin infatti era nato nel 1935 proprio a Parigi non lontano da dove è morto. All’eta di 5 anni insieme alla madre Simone e al padre, il grande editore, fondatore della Bibliothèque de la Pléiade, Jacques Schiffrin, erano dovuti scappare difronte all’invasione nazista e Jacques Schiffrin che nelle sue lettere mostrava tanta nostalgia per la Francia morì a New York senza riuscire a rivedere l’Europa.
Padre e figlio erano dei “passeurs” di cultura, dei veri e propri ponti tra la Russia, dove era nato Jacques Schiffrin, la Francia e poi l’America.

 

André Schiffrin aveva pubblicato alla Pantheon Books Jean-Paul Sartre, Michel Foucault, Simone de Beauvoir, Gunther Grass  ma anche Noam Chomsky e Art Spiegelman. Nei suoi racconti estremamente discreti ma appassionati descriveva gli incontri nei suoi viaggi nell’Europa del secondo dopoguerra con Giangiacomo Feltrinelli, Giulio Einaudi, François Maspero, Pierre Bourdieu.

 

Poi nel 1990 ci fu lo scontro con la nuova proprietà della Pantheon Books, il gruppo di S.I. Newhouse, e con Alberto Vitale, patron della casa editrice. Uno scontro che portò all’auto-licenziamento di quasi tutta la redazione che non voleva applicare le percentuali di profitto imposte dalla nuova direzione. Come ripeteva spesso André Schiffrin ci devono essere sempre dei titoli che sostengono quelli più difficili ma non si possono fare solo best-seller. Negli Stati Uniti fu un vero caso, si mobilitarono scrittori come Kurt Vonnegut e Studs Terkel.

 

Poco dopo Schiffrin fondò una casa editrice no-profit la New Press che ormai ha un catalogo di saggistica e letteratura tradotta – cosa rara in America - invidiabile e scrisse un libro Editoria senza editori (Bollati e Boringhieri, 2000) che denunciò per primo la trasformazione dell’editoria che dopo secoli stava diventando parte di monopoli che pretendevano profitti estranei a questa industria culturale.

 

La sua autobiografia Libri in fuga. Un itinerario politico tra Parigi e New York (Voland, 2011) è un appassionante racconto della sua vita, del lavoro di editore e dei rapporti tra gli Stati Uniti e l’America nel dopoguerra.

 

Nonostante fosse molto pessimista sull’avvenire dei libri e della politica era combattivo e sempre alla ricerca di possibili soluzioni alternative per sostenere una cultura di ricerca e non appiattita sul mercato.

 

 

Ho incontrato Schiffrin nella sua casa newyorkese, piena di libri, tra cui le prime edizioni della Bibliothèque de la Pléiade di suo padre, a Parigi dove ormai viveva metà dell’anno e nel 2003 sempre a New York lo intervistai in una delle prime sedi della New Press, all’interno di un’università che ospitava la nuova redazione.



Dalla Russia del ’17 agli Stati Uniti dell’11 settembre

 

Gli inizi della saga Schiffrin. Suo padre in Francia…

 

Quando mio padre arriva in Francia, anche se proveniva da una famiglia abbastanza ricca in Russia che però era rimasta praticamente senza un soldo dopo la rivoluzione sovietica, deve cominciare a guadagnarsi da vivere e prova a farlo come editore, ma agli inizi un editore non ha sempre autori disponibili. Decide così di tradurre i classici che non erano ancora mai stati tradotti direttamente dal russo, perché negli anni Venti la maggior parte delle traduzioni era fatta a partire dalla traduzione inglese. Mio padre stringe un’amicizia con Gide e si mettono insieme a fare traduzioni, poi ha l’idea di creare la “Pléiade” esattamente come la conosciamo oggi. Il proposito era quello di pubblicare edizioni convenienti: per esempio si poteva avere tutto Proust in un solo volume.

 

Ha cominciato con le opere di Edgar Allan Poe tradotte da Baudelaire, poi ha continuato con i classici. La collezione della “Pléiade” è partita molto bene, anche troppo, perché potesse continuare da solo: mancavano i capitali. Ancora una volta è intervenuto Gide, che ha persuaso Gaston Gallimard a stringere un accordo con mio padre, che ha così potuto continuare a fare e a dirigere la “Pléiade” all’interno della Gallimard. Questa situazione funzionava benissimo almeno fino alla guerra.

 

Scoppiata la Seconda Guerra Mondiale, l’ambasciatore tedesco Otto Abetz, che conosceva molto bene la cultura francese, vuole avere il controllo di alcuni organismi importanti nell’editoria e nella cultura. Per l’invasore “la NRF (‘Nouvelle Revue Française’) era importante quanto la Banca di Francia”. La casa editrice è stata, come si diceva all’epoca “arianizzata”: diversi dipendenti ebrei furono cacciati nell’agosto del ’40, tra cui il direttore commerciale Hirsch e mio padre. Questo molto prima che venissero fatte le leggi di Vichy. I tedeschi sono entrati a Parigi il giorno del mio quinto compleanno, il 14 giugno 1940, e meno di due mesi dopo avevano già iniziato questo processo di epurazione.

 

Purtroppo dopo la guerra la casa editrice Gallimard ha cercato di negare che tutto questo fosse successo. E, nonostante io abbia fornito tutta la documentazione necessaria, continuano a far finta che mio padre abbia lasciato la Francia nel ’39 e che quindi tutto questo non sia accaduto. Anche nella biografia di Gallimard scritta da Pierre Assouline di tutto ciò non c’è menzione.

 

Per una strana coincidenza pochi giorni fa è venuta a trovarmi una signora che sta scrivendo la biografia di Hans Rey, autore della famosa collezione per ragazzi “Curious George”, di cui mio padre all’epoca si occupava per la Gallimard. Costei mi ha mostrato un dossier di corrispondenza tra mio padre e questo scrittore, tutti i contratti erano stati firmati nel ’40, dunque all’epoca in cui Gallimard fa credere che mio padre fosse già partito.
È strano ritrovare queste lettere dopo sessant’anni e costatare come la vita normale continuasse fino agli ultimi giorni prima dell’Occupazione. Dopo, tutto è cambiato.

 

Jacques Schiffrin nel ’36  ha fatto il viaggio in Russia con Gide?

 

Sì, c’è un dossier abbastanza divertente di lettere e telegrammi, perché i russi non volevano che partisse con Gide. Mio padre era russo, parlava perfettamente il russo, poteva capire quindi tutto quello che accadeva e ciò non era gradito. E poi credo ci fossero anche delle ragioni politiche. Mio padre era amico di Boris Souvarine, che aveva pubblicato negli anni Venti in Francia una biografia molto critica di Stalin, quindi anche lui era considerato come un antirivoluzionario. Ma alla fine gli hanno permesso di partecipare al viaggio e naturalmente ha aiutato Gide a capire che cosa gli accadesse intorno.
Ho riletto poco tempo fa il libro di Gide e devo dire che è un testo molto impressionante e onesto. Ha veramente cercato di capire quello che accadeva e all’epoca ci voleva coraggio per prendere una posizione come la sua.

 

Io conoscevo Gide da bambino ma dopo la nostra partenza non ci eravamo più visti, ho potuto rincontrarlo a 14 anni. Nel ’49 sono venuto in Francia, a Juan-Les Pins, curioso per un adolescente passare l’estate con Gide. Era l’inizio del Festival d’Avignone, mi ricordo molto bene del viaggio per andare a vedere nel Palazzo dei Papi Parsifal e Condolé. Siamo partiti in macchina da Antibes e ci siamo fermati per strada a pranzare: siamo entrati in un enorme ristorante dove non c’era nessuno tranne a un tavolo una persona, circondata da altre, con una voce molto profonda. Era Mauriac, allora mi ricordo che Gide si girò verso le persone che lo accompagnavano e chiese se potevamo far finta di non averlo visto, cosa assolutamente impossibile e così si sono salutati, nonostante tutto.

 

Il vostro arrivo negli Stati Uniti nel ’41…

 

Il viaggio è stato molto difficile. Poche persone potevano lasciare la Francia, e pochi potevano rifugiarsi negli Stati Uniti.

 

Dopo Parigi ci siamo fermati in Marocco per due mesi, cosa che avrebbe potuto essere molto dura, perché il governo di Vichy, in una mescolanza di ipocrisia e cattiveria, sosteneva che non c’erano abbastanza camere d’albergo per alloggiare i rifugiati. Una menzogna, naturalmente. Avevano allestito dei campi profughi nel deserto. Per fortuna Gide ci ha potuto ospitare nella sua casa a Casablanca dove siamo rimasti due mesi.

 

Poi sembrava dovessimo andare nei Caraibi ma invece siamo arrivati nel dicembre del ’41 a New York, prima dell’entrata degli Usa in guerra. Gli Stati Uniti erano in quel momento un paese molto strano, non volevano entrare nel conflitto e fu solo l’attacco giapponese di Pearl Harbour a far cambiare posizione all’opinione pubblica.

 

Mio padre, che parlava appena l’inglese e l’unica cosa che conosceva era l’editoria francese, tenta di riprendere la sua attività. Nei primi anni crea la sua casa editrice “Jacques Schiffrin et compagnie” e pubblica i libri che appaiono in Francia con la Resistenza; uno dei primi è Il silenzio del mare di Vercors, uscito per le Editions de Minuit, nate sotto l’Occupazione, e distribuito in Francia dagli areoplani dell’esercito inglese - il modo ideale per distribuire un libro. Mio padre pubblicò anche Aragon, Saint-Exupéry e Gide che, in Africa del nord, aveva appena scritto Les Interviews immaginaires e Teseo, apparsi per la prima volta a New York.

 

Ma la diffusione delle pubblicazioni “Schiffrin et Compagnie” era abbastanza ristretta: in America solo gli esiliati erano interessati a leggere questi libri, sia negli Stati Uniti che in America Latina, dove mio padre si era associato con le edizioni Ocampo, argentine, creando le Editions du Sud. Ha anche provato a fare un giornale letterario internazionale, ma senza successo.

 

 

Nel 1942, incontrò un editore molto importante Kurt Wolff, l’editore di Kafka in Germania, anche lui in esilio a New York, dove aveva fondato la Pantheon Books. Mio padre è andato a lavorare con lui: i testi francesi sono entrati nel fondo Pantheon dove, poco dopo, agli autori europei si sono aggiunti anche quelli americani.

 

Vent’anni  più tardi, agli inizi degli anni Sessanta, è il suo turno di lavorare alla Pantheon Books…

 

Questi venti anni hanno cambiato molte cose.
Mio padre è morto giovane, quando io avevo solo 15 anni. Da allora la Pantheon aveva proseguito il suo percorso e non avrei mai creduto di ritrovarmici; avevo iniziato un lavoro completamente diverso nell’editoria quando mi proposero di entrare da loro fui felice di accettare, era un momento di grandi cambiamenti per questa prestigiosa casa editrice. Era appena stata comprata da Random House, che era una gloriosa casa che pubblicava solo il meglio di quello che appariva in Europa e negli Stati Uniti. Ho avuto la fortuna di trovarmi all’età di ventisei anni in una situazione, come racconto nel mio libro, in cui avevamo la libertà quasi totale di pubblicare tutto quello che ci sembrava importante per la cultura americana “prosciugata” dal maccartismo. Con la Guerra fredda, si era sempre meno aperti al pensiero di sinistra e all’Europa. Tutto questo comincia a cambiare solo verso la fine degli anni Cinquanta. Bisognava recuperare gli anni perduti.

 

In tutta l’Europa gli intellettuali facevano scoperte che sarebbero diventate le radici degli anni Sessanta; per esempio nella psicoanalisi: in Inghilterra c’erano Laing e Cooper, in Francia Mannoni, in Italia Basaglia. Negli Stati Uniti le strutture erano estremamente conservatrici; Foucault, per esempio, che era apparso molti anni prima che io potessi leggerlo, non era né pubblicato, né invitato da università o giornali. Quando bbiamo pubblicato i suoi libri ci è stato quasi impossibile persuadere Harvard o Yale che era qualcuno da ascoltare. Molti dei nostri libri non sono stati accolti bene dalla stampa, la gente non voleva veramente parlare di queste idee nuove, sia nella psicoanalisi sia nella ricerca storica. Gli anni Sessanta hanno segnato un profondo cambiamento, i media hanno iniziato ad aprirsi. Un pubblico di giovani cominciava a porsi le stesse domande negli Stati Uniti e in Europa, spontaneamente, come accade di nuovo oggi con il movimento anti-globalizzazione. Con la fine delle guerre coloniali avevamo tutti esperienze parallele, che fosse l’Algeria per la Francia o il Vietnam per l’America. Improvvisamente Franz Fanon era letto negli Stati Uniti come in Francia.

 

Come arriva la crisi che le lasciare la Pantheon Books?

 

Non era più la casa editrice indipendente dei suoi inizi. Era stata ricomprata e rimessa in vendita. Alla fine solo il gruppo di S.I. Newhouse si rivelò interessato: solo le holding possono comprare holding, cosa che raddoppia l’impronta monopolistica nei media. È quello che è accaduto. Newhouse, diventato padrone, chiede a pantheon di guadagnare da tre a quattro volte di più all’anno. Facendo quello che facevamo era impossibile!

 

Allora i miei colleghi e tutto il personale ha deciso di lasciare, tutti insieme. Siamo diventati un simbolo, ci sono state manifestazioni davanti alla sede editoriale, un fatto rarissimo per gli Stati Uniti: la gente in fondo non si interessa di queste cose, le case editrici si rassomigliano talmente. Il “Times” ci ha attaccato duramente, sostenendo che dovevamo accettare quello che il capitalismo moderno impone.

 

Negli Stati Uniti di oggi quelli di Bush, l’editoria come si comporta? E la vostra nuova casa editrice, la New Press?

 

Male. Viviamo in un’epoca in cui il governo non vuole sentire quello che il resto del mondo dice. Sulla stampa ci sono ingiurie quotidiane verso gli europei e le loro posizioni sulla guerra contro l’Iraq. C’è un eurofobia pronunciata, quindi è ancora più importante dare la parola agli intellettuali.
Con la New Press pubblichiamo numerosi testi di contestazione e quello che mi stupisce è che siamo pochissimi a farlo.

 

 

A mia conoscenza non ho mai visto un governo così reazionario come questo. È per questo che la nostra struttura è così importante: quando abbiamo iniziato, dodici anni fa, mi erano stati proposti diversi incarichi in grandi case editrici, ma ho rifiutato – la questione della struttura è fondamentale per conservare la propria libertà. Volevo evitare di avere di nuovo un tasso di guadagno già prestabilito che avrebbe deciso quello che doveva essere pubblicato. Così abbiamo creato la New Press, una casa editrice no-profit, un genere che esiste negli Stati Uniti solo per le pubblicazioni universitarie e per quelle ecclesiatiche ma non per la normale editoria.

 

Con l’aiuto di fondazioni garantiamo oggi il 70% delle opere di contestazione e di ricerca storica nel mercato statunitense. È pericoloso ed è un peccato che ci siano così poche persone che si impegnino in questo, ma l’autocensura nei media è andata aumentando sempre di più dall’11 settembre. La gente ha sempre più paura di criticare il governo.

 

Nonostante questo, l’ultimo libro di Noam Chomsky, autore che pubblico da molto tempo, ha venduto 50.000 esemplari: quattrocento pagine che raccolgono tutte le sue conferenze, un’opera difficile. Abbiamo venduto anche 250.000 copie di un suo piccolo pamphlet scritto dopo l’11 settembre. C’è un pubblico numeroso di giovani che si pone queste domande per la prima volta, che vuole comprare, pensare, discutere. La situazione è lontana dall’essere così unanime come il governo vorrebbe far credere. Accanto ai media molto sciovinisti, il libro diventa l’oggetto simbolico di opposizione o di presa di coscienza, diventa un’opinione pubblica che mostra che non tutti sono d’accordo. Le grandi case editrici non vogliono agire contro il governo. Noi pubblichiamo autori americani o stranieri molto conosciuti ma ignorati dai grandi media.

 

Mi ricordo della fortuna che abbiamo avuto nel pubblicare Pierre Bourdieu. La sua scomparsa è stata un’enorme perdita per noi. È stato veramente l’esempio internazionale di quello che un intellettuale può fare, come Foucault aveva fatto prima di lui.

 

Bisognerebbe creare una rete internazionale di case editrici indipendenti fuori dal sistema delle grandi holding. Quello che mi stupisce è che il mio libro, che penavo sarebbe apparso solo negli Stati Uniti e in Francia, è stato tradotto in diciotto paesi.

 

Quello che Bourdieu aveva fatto del suo ufficio al college de France è esemplare. Tutti gli editori francesi mi assicuravano che allora non c’era più un pubblico per testi politici. Mi ricordo dell’ufficio di Pierre, dove c’era solo la segretaria e basta. È lì che hanno potuto pubblicare dei libri venduti in centinaia di migliaia di copie. Come Bourdieu, una persona può cambiare le cose anche in un periodo in cui sembra che contino solo i media di massa, che non esiste più un artigianato, che bisogna avere grandi mezzi economici.

 

L'intervista è apparsa su L'Ospite Ingrato n. 2 nel 2004

 


 

Domenica 8 dicembre alle 10.30 a Roma presso il Palazzo dei Congressi dell'Euro, Ricordo di André Schiffrin con Stefano Salis e Daniela Di Sora

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