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Elsa Morante: come leggere “La Storia”

23 Settembre 2024

«…e la Storia continua»: questa la frase posta da Elsa Morante nella penultima pagina del suo romanzo, subito dopo l’inquietante cronologia degli anni 1948-1967. Purtroppo la Storia con la “S” maiuscola è continuata, e sta continuando tuttora, nei tremendi termini delineati nel romanzo, cioè in un quadro di tragicità e squallore.

Benché pubblicata nell’ormai lontano 1974, La Storia si rivela dunque più che mai attuale, per cui è oggetto di una notevole e crescente riscoperta. Oggi, infatti, appaiono del tutto infondate le opinioni di quei recensori degli anni Settanta che, anziché coglierne lo sguardo limpido e lungimirante sulla realtà, la giudicarono come un mediocre libro alla De Amicis, volto a un semplice compatimento degli umili in un’ottica di rassegnazione e, di conseguenza, diseducativo per i lettori. Nella maggior parte dei casi si trattava di giudizi basati su schemi interpretativi ristrettamente ideologici, e non sorretti da un’adeguata lettura del libro. Per capire il significato e il valore della Storia, è necessario invece partire concretamente dal testo, anche in relazione al percorso umano e intellettuale dell’autrice. 

È opportuno ricordare che, nel 1962, Elsa Morante subì un lutto devastante: la tragica morte del giovane pittore statunitense Bill Morrow, a cui era molto legata. Ne derivò un’incessante meditazione sul senso della vita, nel corso della quale, a partire dalla metà circa degli anni Sessanta, Morante trovò una forte consonanza con le opere di Simone Weil, come dimostrano le copie estremamente compulsate degli scritti weiliani presenti in edizione francese nella sua Biblioteca, e poi trasferite nella Biblioteca Nazionale Centrale di Roma. Dalle numerose e commosse postille si ricava che Morante si sentiva vicina a Weil tanto nelle idee sulla guerra e sulla condizione operaia quanto in quelle sull’attenzione e sulla compassione (intesa nel senso etimologico di una condivisione della sofferenza, dal latino «cum patior») verso tutti i viventi, nella convinzione di un’essenza comune all’intero esistente. Peraltro, su questo agiva anche un preesistente interesse della scrittrice per il pensiero orientale, riconsiderato attraverso Weil. Inoltre, in quel medesimo periodo, Morante lesse con analoga partecipazione l’Etica di Spinoza.

Da tali presupposti scaturirono la conferenza Pro o contro la bomba atomica (febbraio 1965), Il Mondo salvato dai ragazzini (1968) e La Storia (1974), per la quale furono importanti anche i Vangeli e i classici greci, soprattutto l’Iliade, riletta attraverso Simone Weil (L’Iliade o il poema della forza).

La scrittrice riprese nella Storia, riadattandoli a un diverso contesto temporale e narratologico, alcuni nuclei già presenti in Senza i conforti della religione», un romanzo iniziato nel 1958 e interrotto dopo la morte di Bill Morrow; ma cominciò a concretizzare il progetto del nuovo libro tra la fine del 1970 e l’inizio del 1971, e lo proseguì nel tempo con instancabile cura. Lo si comprende dai manoscritti presenti alla Biblioteca Nazionale Centrale di Roma, corredati da annotazioni e disegni che denotano un enorme impegno nella documentazione e un’immersione totale di Morante nel mondo dei suoi personaggi. 

A parte una retrospezione iniziale, le vicende si svolgono negli anni 1941-1947 in alcuni quartieri popolari di Roma e dintorni. Al centro della narrazione ci sono soprattutto le vicissitudini della maestra ebrea Ida Ramundo vedova Mancuso, del suo primogenito Nino e del piccolo Useppe, frutto di uno stupro da lei subito nel gennaio del 1941 da parte del soldato tedesco Gunther, nel contesto della seconda guerra mondiale. Si tratta di un contenuto, per quanto non immediatamente autobiografico, di certo molto sentito dall’autrice, che era a sua volta di madre ebrea e aveva vissuto personalmente la tragedia della guerra.

Nell’intento di privilegiare la storia delle vittime rispetto alla grande storia, i capitoli, che hanno un andamento annalistico, sono preceduti da cronologie scritte in caratteri più piccoli, nelle quali gli avvenimenti sono però scelti con tagliente, e a volte caustica, oculatezza. In esergo ai capitoli si trovano numerosi epigrafi – citazioni, filastrocche, piccoli testi creati dalla stessa Morante –: si tratta di materiali intensi e quasi scenici, perciò capaci di accentuare la risonanza emozionale della narrazione. La più drammatica di queste epigrafi è quella che, all’inizio del capitolo sul 1943, presenta la disumanità assoluta dell’Olocausto attraverso lo sguardo straniato dei bambini ebrei che devono partire per il «paese di Pitchipoi / il paese dei fumi e delle urla», come sembra che essi, nel campo di Drancy, chiamassero il luogo finale della deportazione. Già le epigrafi fanno dunque comprendere che La Storia di Morante non è un libro neorealistico in ritardo, come affermarono molti critici del passato, e che è invece un’opera complessa, in cui si intrecciano realismo e visionarietà, storia, romanzo, poesia e teatro. 

I personaggi sono molti, ma ruotano quasi tutti intorno a Ida. Una figura, la sua, rappresentativa della situazione di effettiva fragilità di molte donne italiane di epoca fascista, ma anche collegabile con alcune problematiche della stessa autrice rispetto al proprio corpo di donna. 

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Un aspetto, questo, che stupisce in una donna, per il resto, forte e fiera come Elsa Morante, e che le era verosimilmente derivato, oltre che dall’idea dell’inferiorità femminile trasmessa dal regime, da un personale retaggio ebraico e cattolico (Elsa era stata, sia pure tardivamente, battezzata). Inoltre bisogna pensare che Morante, uscita giovanissima di casa con grande coraggio per sottrarsi a un pesante clima familiare, fu costretta ad affrontare l’enorme difficoltà per una donna del suo tempo di vivere da sola nel mondo, soprattutto in quello letterario. Tutto ciò emerge chiaramente da un diario giovanile di sogni del 1938, pubblicato postumo nel 1989, appunto con il titolo Diario 1938, a cura di Alba Andreini; poi inserito nel 1990, con il titolo originale Lettere ad Antonio, nel secondo volume del Meridiano Mondadori delle Opere di Elsa Morante, a cura di Carlo Cecchi e Cesare Garboli. 

La scrittura diventò allora per lei l’unica forma possibile di riscatto; e non è strano che, per evitare di essere riportata a una letteratura femminile considerata minore, Morante, come altre grandi autrici italiane del Novecento, si fosse rifugiata nell’idea di un “neutro” della scrittura, per cui voleva essere definita al maschile “scrittore”. Ciò nonostante, non smise mai di sentirsi una donna, e ne lasciò traccia nella sua intera produzione, nella quale, oltretutto, il principale filo-conduttore è il rapporto madre–figlia/figlio, declinato sia nella sua ricchezza sia nella sua problematicità. Un punto di partenza autobiografico, che però diventa ogni volta la base per una visione intera del mondo, la quale, per Morante, doveva essere la caratteristica di fondo del romanzo, come si legge nel suo saggio del 1959 Sul romanzo, pubblicato in quell’anno su «Nuovi Argomenti» (n. 38-39, maggio-agosto); ora nel II vol. del citato Meridiano Mondadori. 

Se in Aracoeli (1982) troviamo la deflagrazione del materno in una società ormai disumanizzata, del femminile e del materno La Storia è invece, attraverso Ida, la massima espressione positiva.

Lo si vede già a partire dalla voce narrante, criticata da molti come riesumazione del narratore esterno onnisciente di tipo ottocentesco. In realtà, come risulta da elementi linguistici precisi, si tratta di una narratrice, in parte esterna e in parte interna, non in quanto lei stessa personaggio del romanzo, ma come testimone delle vicissitudini di Ida e dei suoi figli. Oltretutto, alla fine dell’ultima stesura manoscritta, questa narratrice, nel raccontare l’ultima sua visita a Ida nel manicomio romano di Monte Mario, ricorda di averle detto, tra l’altro: «Mi riconosci? Sono Elsa». A un certo punto, però, l’autrice decise giustamente di eliminare l’intero passo, il quale, sebbene molto bello, avrebbe ristretto la prospettiva della voce narrante, che si identifica anche con lei stessa, ma che si allarga nello stesso tempo a una sorta di “inconscio collettivo” al femminile, in cui confluisce la voce delle madri di tutta una catena di generazioni. In questa chiave si spiega il senso del «Buona notte biondino» rivolto a Giovannino Marrocco che in Russia si abbandona sfinito alla tormenta.

Tornando a Ida, non si possono certo tacerne le molte problematiche: la difficoltà nel sentire il proprio corpo, i malesseri psicofisici, la paura del mondo esterno derivatale dalla madre Nora, il frequente soccombere al primogenito – il simpatico ma spavaldo e prepotente Nino –, sul quale l’autrice proietta, come già su Arturo, la propria simpatia per i ragazzi, senza però tacerne gli aspetti narcisistici e la superficialità, che lo spingono spesso ad atti sconsiderati. 

Peraltro, in Ida intervengono anche elementi riconducibili a una sorta di grandezza del femminile. In particolare, in lei è presente l’eco di un’ancestrale e quasi magica potenza della donna, nella sua capacità di sentire fisicamente la vita e la morte. Inoltre il suo personaggio mostra un’evoluzione, in quanto la timida maestra impara a uscire gradualmente dal suo blocco psico-fisico e dal suo spazio ristretto – la casa, la scuola – entrando in contatto con le donne del ghetto, che diventa per lei un ambito di confidente appartenenza. Oltretutto Ida supera la sua consueta ubbidienza alle regole, rubando sistematicamente per dare da mangiare a Useppe; e, in occasione dell’assalto di alcune donne a un camion tedesco carico di farina, si unisce alle altre, arrivando perfino a insultare i soldati tedeschi. Troviamo qui un evidente capovolgimento dell’episodio manzoniano dell’assalto ai forni, poiché la narratrice della Storia, in cui Morante proietta se stessa, sta interamente dalla parte delle donne assaltatrici. 

Attraverso lo sguardo privilegiato rivolto a Ida, viene recuperata nel libro una dimensione quotidiana che va oltre quella degli umili manzoniani. Infatti Morante, diversamente da Manzoni (autore, comunque, da lei molto apprezzato in gioventù, come si legge nella nota del 16 marzo 1938 di Lettere ad Antonio), è attenta non solo all’anima ma anche alla fisicità dei suoi personaggi: in particolare, all’epilessia psicologica, alle mestruazioni, alla gravidanza e al parto di Ida. Se si considera che per la donna del passato la voce del corpo (che poteva andare dall’isteria all’anoressia, all’estasi, alla possessione) era uno dei pochi mezzi per esprimersi, ecco che allora la corporeità di Ida acquista un importante aspetto conoscitivo, diventando il linguaggio per eccellenza dell’estraneità della donna alla “Storia” con la lettera maiuscola, e alle infinite offese all’umano che essa ha sempre arrecato. 

Significativa in questo senso è anche la figura di Vilma, nella quale confluirono due donne reali, di cui aveva scritto Giacomo Debenedetti in 16 ottobre 1943: uno scritto del 1944 più volte pubblicato, che è tra le fonti storiche del romanzo indicate dalla stessa Morante nella nota finale. L’una, di nome Celeste, la sera del 15 ottobre 1943 era giunta affannata e scarmigliata al Ghetto da Trastevere, dicendo di aver saputo che stava per compiersi un rastrellamento di ebrei; ma, nonostante le sue disperate insistenze, non era stata creduta, perché considerata una «chiacchierona, un’esaltata, una fanatica»; l’altra – una strana «ragazza attempata» di nome Letizia, detta l’Occhialona – era stata la prima, la mattina del 16 ottobre, ad accorgersi che i tedeschi stavano arrivando al Ghetto.

Morante riprende le figure reali, ricreandole nell’unico personaggio di Vilma. E ne fa una spiritata gattara, trattata come una mentecatta, la quale, fin dal 1941, avverte a più riprese gli abitanti del Ghetto di aver saputo che, dove arrivano i tedeschi, tutti gli ebrei vengono trascinati «via, fuori dei confini […] nella notte e nella nebbia» per poi essere crudelmente sterminati. Ma nessuno le crede, tranne Ida, per la quale Vilma diventa «una sorta di profetessa». 

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Ida e Vilma dimostrano dunque, all’interno del romanzo, che le donne, comprese le più umili e le più disprezzate, benché solitamente silenziose di fronte alla “Storia”, al momento opportuno sanno guardarla in faccia, assumendosene coraggiosamente la responsabilità, anche a costo dell’incolumità personale. E la denuncia degli orrori nazifascisti diventa efficace proprio quando passa attraverso il loro sguardo. Notevole è soprattutto la scena in cui Ida, che al Tiburtino ha appena comprato a Useppe un paio di stivali, segue, quasi in stato di trance, la signora Di Segni, una sua conoscente ebrea, che corre forsennata verso la Stazione per congiungersi ai suoi familiari portati via dal Ghetto. La signora Di Segni si collega a una persona reale: Costanza Calò Sermoneta, come si legge in Black Sabbath di Robert Katz, un’altra delle fonti della Storia. Ma, pur restando una figura molto concreta e corporea, diventa anche l’immagine cosmica di un’angoscia senza confini, mentre corre lungo tutti i vagoni «con le sue gambucce senza calze, corte e magre, di una bianchezza malaticcia, e il suo spolverino di mezza stagione sventolante dietro al corpo sformato», chiamando disperatamente i suoi cari e insistendo per partire con loro. Ida riesce a resistere di fronte a quanto sta accadendo perché, a un certo punto, accede a una specie di estasi, in cui presente e passato, vivi e morti si uniscono dolcemente, finché il battito del cuore di Useppe la riporta alla realtà. In questa scena le consuete categorie cronologiche vengono scardinate, perché il tempo del quotidiano si fonde con quello della “Storia” e con quello assoluto della visione. Altissima in tutto ciò è, rispetto all’Olocausto, la funzione testimoniale di Ida con il suo bambino, collegato a lei in una straordinaria maternità.

Useppe acquista spesso nel libro un carattere sapienziale, nella sua adesione totale alla vita e al mondo e nel suo comprendere l’unità di tutto ciò che esiste, da cui la capacità di comunicare anche con gli animali. Nello stesso tempo, però, è un ben definito bambino, seguito amorevolmente dalla voce narrante nella sua crescita e nel progressivo sviluppo del suo linguaggio infantile; il che non ha l’uguale nella nostra letteratura. Nonostante la sua fine precoce, certo straziante, Useppe porta nel romanzo un grande senso di allegria, come fanno del resto Nino e alcune vivaci figure minori. In effetti nella Storia non ci sono solo orrori, ma anche momenti di gioia, di quella gioia occasionale e molto provvisoria, eppure in qualche modo totale, che è propria delle persone semplici. 

Rispetto agli altri personaggi, più articolato ma contraddittorio, e per vari aspetti fuori campo, risulta Carlo Vivaldi – Davide Segre. Morante gli affida i propri ideali di anarchica pacifista, che però in lui restano astratti, tanto che, da un certo momento in poi, si delinea uno scarto tra la voce narrante, con cui la stessa autrice converge, e i comportamenti del giovane, specialmente quando, per vendicare i genitori e la sorella (che pure aveva sempre disprezzato con intransigente alterigia), massacra a calci in faccia un soldato tedesco ferito. E sarà proprio Davide, in preda a una crisi di astinenza dalla morfina, a facilitare la crisi finale di Useppe, cacciandolo via con brucianti ingiurie. Davide viene seguito invece con uno sguardo affettuoso dalla voce narrante nei suoi momenti di fragilità e nella sua morte solitaria. 

In effetti tutti i personaggi nella Storia sono sostanzialmente considerati con un’attenzione weiliana, quindi in un orizzonte di fondamentale comprensione. Ciò vale non solo per i protagonisti, per Davide o per figure minori positive, come per esempio Carulina e Scimò, ma anche per lo stupratore Gunther e per l’assassino Nello D’Angeli. E grande dignità acquistano gli animali, soprattutto Blitz, Bella e la gatta Rossella, che diventano personaggi a tutti gli effetti. 

La vita dei protagonisti, come quella dei personaggi minori, è restituita con un accorto impasto linguistico, nel quale fluiscono senza brusche fratture, all’interno di un registro medio, voci dialettali (specialmente, ma non solo, romanesche) e modi tipici di una parlata popolare. Su questa base si innestano elementi raffinati, tra cui un riferimento al Purgatorio dantesco e un altro al Macbeth di Shakespeare, introdotti però in sordina e riportati alla misura di un contesto elementare. Attento è inoltre l’uso delle figure retoriche, soprattutto di corpose similitudini, che consentono una forte aderenza ai personaggi. Frequenti sono quelle attinte al mondo animale, come in Verga (autore caro a Elsa Morante), ma con una tutta diversa tenerezza. Quindi, anche sul piano formale, la Storia appare come un romanzo estremamente curato, checché ne abbiano detto molti recensori del passato.

La pubblicazione del libro suscitò negli anni 1974-1975 un impressionante numero di recensioni, per le quali si rimanda all’esaustivo volume di Angela Borghesi L’anno della «Storia». Il dibattito politico e culturale sul romanzo di Elsa Morante. Cronaca e antologia della critica (Quodlibet, Macerata 2019). 

Oggi i tempi sono maturi per comprendere che lo sguardo di Morante sulla storia umana, sebbene (e a ragione) non ottimistico, non si risolve nella spinta a una fatalistica accettazione di tutto ciò che accade, ma piuttosto nella convinzione che chiunque, nei limiti delle sue possibilità, debba contrastare ogni forma di ingiustizia, discriminazione e violenza, per contribuire, già nel presente, alla costruzione di un mondo più degno. E in questo c’è, nonostante tutto, una speranza nell’umano. Si spiega così la citazione finale dalle Lettere dal carcere di Antonio Gramsci: «Tutti i semi sono falliti, eccettuato uno che non so cosa sia, ma che probabilmente è un seme e non un’erbaccia». 

In occasione dei 50 anni dalla prima pubblicazione del romanzo La Storia di Elsa Morante nel 1974, Biblioteche di Roma e doppiozero propongono dal 24 settembre al 17 dicembre 2024 una nuova rassegna Alfabeto Morante, Lezioni in biblioteca dedicata a una delle autrici più significative del Novecento.
 

martedì 24 settembre ore 17.00
Biblioteca Flaminia

Come leggere “La Storia” di Elsa Morante
con Graziella Bernabò

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