Ermanno Cavazzoni: meno è meglio

2 Aprile 2024

Lo scorrere del tempo sbiadisce il ricordo dei libri letti, anche di quelli molto amati, lasciando nel setaccio della memoria solo qualche pepita. Sarà perché si tratta di un romanzo che cuce insieme diverse trovate curiose, ma del Poema dei lunatici (Bollati Boringhieri 1987), il romanzo d’esordio di Ermanno Cavazzoni, ricordo bene diversi episodi. Ancora oggi, credo che la mia scena preferita sia quella in cui, alla fine del libro, il protagonista Salvini osserva un inseguimento aereo fra un ministro e un prefetto, entrambi capaci di volare per circostanze che non ha senso spiegare qui. Si tratta di una scena leggera, liberatoria, nella quale Salvini immagina la città vista dall’alto come fosse il fondale cartonato di un’enorme recita globale, nella quale gli uomini sono impegnati come attori improvvisati e un po’ incapaci, obbligati a recitare la propria identità come una parte assegnata dal caso e scritta da non si sa bene chi.

A decenni di distanza, nel primo corsivo del recente Manualetto per la prossima vita, pubblicato nella collana di Quodlibet «Compagnia Extra» da lui stesso diretta, Cavazzoni riconferma questa visione shakespeariana della V.I.T.A. come Vero Incessante Teatro Animato, per la quale tutto il mondo è un palcoscenico nel quale a ognuno tocca recitare molte parti, tanto che il rischio di confondersi e indossare la maschera di qualcun altro è sempre dietro l’angolo. In fondo, il tema dell’impostura è al centro degli ultimi romanzi brevi di Cavazzoni, La madre assassina (La Nave di Teseo 2020) e Il gran bugiardo (La Nave di Teseo 2023), libri piacevoli e simpatici che però, al contrario di questo Manualetto, non aggiungono molto alla lunga attività del narratore reggiano. La forma del corsivo, invece, svincola l’autore dall’esigenza di incastonare gag e trovate nello scheletro di una trama e lascia campo aperto alle idee, che possono sbizzarrirsi e ignorare il coprifuoco imposto anche dal più leggero dei recinti narrativi. Non solo i libri più immediatamente simili a questo Manualetto, come Il pensatore solitario (Guanda 2015) o Storie vere e verissime (La Nave di Teseo 2019), sono organizzati intorno alla dialettica mai risolta fra ipotesi ragionativa e divagazione narrativa, ma anche ibridi più felicemente complessi come Storia naturale dei giganti (Guanda 2007; Quodlibet 2022). 

Già l’indice del Manualetto, se letto mettendo in sequenza i titoli dei diversi pezzetti, è un manifesto del contenuto e del tono del libro, un po’ come accade nei romanzi picareschi, che anticipano a bella posta i fatti che verranno raccontati di capitolo in capitolo. Così recitano i titoli della prima delle otto sezioni in cui è divisa l’opera: 1. La vita è uno spettacolo teatrale incessante, senza rispetto per gli elementari diritti sindacali; 2. C’è sempre il peggio del peggio, quindi anche in punto di morte si può essere contenti; 3. E se gli extraterrestri fossero dei truffatori peggio di noi?; 4. I mercati di cose vecchie sono il triste riassunto della vita nel suo fatale declino; 5. Se riuscite a vivere da cinici, a piedi o in auto; 6. Le ricette per sopravvivere nell’aldilà non sono attraenti, salvo una. Nella quarta di copertina, Cavazzoni presenta così il suo Manualetto, che avrebbe potuto anche chiamarsi, in omaggio all’amato Perec, La (seconda o terza) vita istruzioni per l’uso: «Questo libricino dà le istruzioni (se per caso si torna al mondo una seconda o terza volta) per non cadere negli stessi errori, nelle stesse ingenuità e credenze illusorie che di norma finora ci hanno sempre accompagnato». 

Indossando la maschera di un novello Diogene, che alla botte preferisce però l’automobile, Cavazzoni assembla un sussidiario di “metafisica fantastica” (così l’autore a Fahrenheit in conversazione con Tommaso Giartosio), ma lo vende al lettore come un rigattiere della prosa, già sottolineato e con le orecchie alle pagine. In effetti, il diminutivo Manualetto segnala come l’opera ambisca a essere un po’ meno di un Libro nel senso più monumentale del termine, presentandosi più come una serie di bigliettini scritti a matita, magari su carta riciclata, o di post-it cuciti insieme con un filo troppo sottile, pronti quindi a sfilacciarsi e disperdersi alla prima folata di vento. Guardando alla nostra tradizione, il lunario di Cavazzoni non sfigurerebbe sul banchetto del venditore d’almanacchi del dialogo leopardiano; se si guarda ai riferimenti più vicini all’autore, invece, questo libro fa pensare al Diario minimo di Eco (più al secondo che al primo), agli Improvvisi per macchina da scrivere di Giorgio Manganelli o ai Consigli inutili di Luigi Malerba, pubblicati proprio in «Compagnia Extra». Dal punto di vista linguistico, l’atticismo bizzarro di Cavazzoni coagula con grande efficacia in questi libretti di pezzi brevi, forse più che nelle novelle lunghe pubblicate negli ultimi anni, dove pagine di bravura si smagliano qui e là in passaggi più stilisticamente diluiti.    

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Come Manganelli, Cavazzoni sa bene che l’oggetto più anonimo, il dettaglio più trascurabile (una vite allentata che geme, per esempio), contiene per sineddoche la decadenza di tutto l’esistente e segnala la precarietà pressapochista dell’universo: questo è uno degli aspetti sempre ritornante nel libro, reso senza compiacimenti nichilisti ma con serena accettazione filosofica. Si veda in questo senso la meravigliosa esplorazione archeologica dei mercatini dell’usato nella prima sezione del libro. In una sua recensione a La valle dei ladri (Quodlibet 2014), Matteo Marchesini aveva individuato nella Fatiscenza la musa di Cavazzoni, e il Manualetto conferma questa intuizione. La fatiscenza può essere descritta come una condizione imperfetta e mediana delle cose, che sono in viaggio verso la completa dissoluzione senza però esservi ancora giunte.   

Si capisce dunque come il purgatorio, luogo anti-massimalista per definizione, sia la dimensione elettiva dell’opera di Cavazzoni, il fondale dove si svolgono molte delle storie che l’autore racconta e il punto da cui giungono le voci che prendono parola nei suoi libri, compresa quella sofisticamente impostata che sibila dal suo Manualetto, che parla come da una sala d’attesa con le sedie cigolanti e le crepe nell’intonaco. A differenza di quanto accadeva nei libri precedenti, nel purgatorio di Cavazzoni oggi non si festeggia più il carnevale. Si ha come l’impressione che la voce strologante del suo nuovo libro, impegnata in un circo di giochi logico-ragionativi, ambisca segretamente a rattrappirsi, a ripiegarsi in un cupio dissolvi non ritrattabile. Durante la lettura potrà accadere che il lettore possa ricevere, contrabbandato fra i sorrisi che questo Manualetto regala, anche un leggero senso di angoscia e malinconia. È come se del carnevale restassero in terra solo i coriandoli del giorno dopo, fradici di pioggia e pestati dalle suole dei passanti. 

Cavazzoni ha sempre tradotto in forma letteraria la sua invidia per vagabondi e anacoreti, non solo negli Eremiti del deserto (Quodlibet 2016), ma quasi in ogni suo lavoro. Qui, tuttavia, pare che la disperazione che nasce dall’impossibilità di poter imitare quei modelli di vita (esilio volontario + sparizione discreta) generi non un’angoscia in maschera, di facciata, ma vera. È come se l’autore volesse fuggire, ma senza sapere bene dove dirigere i piedi, anzi sapendo in cuor suo che oggi non esiste più un luogo riparato dall’implacabile burocratizzazione dell’universo, che colonizza e rovina ogni nicchia di pace. Sembra che Cavazzoni ormai desideri solo contemplare gli alberi, il cielo e le variazioni di luce, dimentico di tutte le passioni di prima come un convalescente in un giardino d’ospedale.    

Questo desiderio di ripiegamento produce alcuni dei pezzi migliori del libro, quasi commoventi nel loro costruire piccole utopie “al ribasso”, minimali e regressive, che liberano per un momento dalle zavorre dell’esistenza proprio nel momento in cui sottolineano l’impossibilità di questa liberazione. Ciò accade, ad esempio, in Se riuscite a vivere da cinici, a piedi o in auto, che esplora in dettaglio come potrebbe essere il ritirarsi a vivere, non per necessità materiale ma per scelta deliberata, nella propria macchina, recidendo ogni legame mondano.  

 In filigrana, dietro questa sorta di congedo dal mondo, qui e là è ancora percepibile il fastidio dell’autore per alcuni fenomeni della contemporaneità più stringente (l’infodemia, ad esempio), molti dei quali venuti alla luce in tutta la loro evidenza durante l’ultima pandemia e che in realtà sono per Cavazzoni ricorsi eterni e inaggirabili dell’idiozia umana e italiana, quest’ultima dipinta come un teatro di burattini le cui maschere negli anni possono cambiare nome, ma non la loro peculiare smorfia. Questo perdonabile fastidio carica ogni tanto la penna di Cavazzoni di qualche dardo avvelenato che disturba la perfetta atarassia – l’imperturbabilità d’animo di tradizione scettico-epicurea – che caratterizza la voce e lo sguardo del suo compilatore filosofico, il quale coglie tanto più nel segno quanto più riesce a sganciarsi dalle sirene dell’attualità per simulare il distacco dello studioso delle umane illusioni, sia esso un entomologo attento alle minutaglie o un astronomo che guarda ai pianeti come biglie. 

Nel libro l’autore critica velatamente e a buon diritto la “funzione-Crozza” della nostra comicità, che si fa involontariamente “caricatura della caricatura” nel tentativo di prendere in giro in modo professionale personaggi che, nella loro comicità involontaria, andrebbero solo affrontati sul campo oppure lasciati a sé stessi, nel rispetto di quel motto di Mark Twain per cui con gli idioti sarebbe meglio non discutere, pena la sconfitta per inesperienza. Anche Cavazzoni, dunque, deve stare attento a non farsi prendere troppo la mano dalla satira più a buon mercato, quando ad esempio bersaglia gli opinionisti da talk show, i governi corrotti e i complottisti. Ogni tanto, si ha la brutta sensazione – e anche l’autore secondo me se ne è accorto – che gli idioti di Cavazzoni, che tanta fortuna gli hanno portato negli anni, se fossero liberati oggi nel mondo reale si confonderebbero nella folla e non si distinguerebbero più di tanto: forse potrebbero essere invitati in televisione, ambire a una cattedra universitaria o essere eletti in parlamento. 

Se Manualetto per la prossima vita è un libro votato al “meno è meglio” da ogni punto di vista (formale, filosofico, poetico e stilistico), ciò è forse dovuto anche alla proliferazione, reale o mediatica non importa, di immagini illusorie, informazioni sbagliate e teorie cretine che hanno caratterizzato gli ultimi anni, rendendo sempre più difficile il provare a comprendere dove si è vissuti, come e perché. In questo contesto, la filosofia dell’errore, dell’imperfezione e dell’universo “pressappoco” portata avanti dal Cavazzoni apprendista filosofo funziona come uno spillone infilato in un ingombrante pallone gonfio d’aria. Oggi che in libreria proliferano gli atlanti, i manuali e i vademecum di ogni sorta, che offrono bussole a buon mercato per lenire il nostro senso di disorientamento, affidarsi a questo Manualetto può essere una scelta sensata: lo strabismo umoristico di Cavazzoni è al contempo un tentativo di capire le cose (+) e una rinuncia a farlo del tutto (-). 

Suggella il libro un omaggio all’amatissimo Kafka, che mi permette di chiudere questa recensione con un’ultima nota. Spesso, per esigenze di sintesi, il percorso narrativo di Cavazzoni è stato appaiato a quello dell’amico e “fratello maggiore” Celati. Non è questa la sede per affrontare le somiglianze e le differenze fra questi due narratori – forse è roba che interessa più ai professori che ai lettori. L’omaggio finale a Kafka, tuttavia, mi ha ricordato uno dei pezzi più intimi di Storie vere e verissime, cioè Avventure con Celati, che racconta la storia di un’amicizia e che si chiude proprio sulla visione, che i due scrittori hanno condiviso e co-plasmato nel loro frequentarsi, della vita come «uno spettacolo fatto fra noi, casalingo, però anche obbligatorio, perché qualunque cosa uno faccia, quella è la sua recita […], non c’è modo di sottrarsi, teatro naturale (come dice Kafka), cinema naturale (dice Gianni Celati)». Finito il Manualetto di Cavazzoni, che in questa particolare recita, ormai possiamo svelarlo, ha avuto il ruolo del suggeritore, si alza lo sguardo e si vede che l’autore del libro, così prodigo di consigli durante la lettura, ora è sparito nella sua buca. La sua voce, che parlava fino a un momento fa, ora tace: speriamo di risentirne le dritte per le prossime repliche, se ce ne saranno. 

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