I soldati delle parole di Frank Westerman / Raccontare contro il terrore
Una «bomba sta alla democrazia come la parola sta alla dittatura»: l’una e l’altra provocano crepe, rendendo instabili le basi dei rispettivi ‘edifici’. Diversamente da una bomba, certo, la parola può provocare uno shock positivo, o almeno non cruento. Ma la parola serve davvero nei casi estremi, contro le armi spianate di un terrorista o di fronte alle minacce di un sequestratore? È questa la domanda che si pone, e a cui cerca di dare una risposta, il libro da cui è tratta la frase iniziale: I soldati delle parole (‘Een woord een woord’, 2016) di Frank Westerman, appena uscito da Iperborea nella traduzione dal nederlandese di Franco Paris. Westerman è nato a Emmen, nord dei Paesi Bassi, nel 1964; prima di stabilirsi ad Amsterdam e dedicarsi a tempo pieno alla scrittura, ha viaggiato in molte parti del mondo. Tra i primi paesi che ha visitato c’è il Perù, dove Westerman, studente ventenne di scienze agrarie, era andato per conoscere i sistemi d’irrigazione impiegati dalle antiche civiltà andine.
Viaggiare, capire; aver presente un problema e sapere com’è stato risolto, in un altro luogo e in un’altra epoca. Non si può mai sovrapporre perfettamente l’esperienza personale di un autore alle sue scritture; ma nel caso di Westerman sembra proprio che il viaggio e la ricerca siano campi strettamente legati agli intenti e alla forma stessa del suo raccontare. La definizione di ‘inchiesta narrativa’ non copre infatti tutti i connotati del genere misto – tra giornalismo e letteratura – a cui appartengono le opere di Westerman; nei suoi libri c’è piuttosto una tensione partecipativa verso l’estremo, nei confronti del quale Westerman non si dispone come cronista o giudice, ma adotta la prospettiva empatica come miglior strumento per conoscere i caratteri e i moventi delle persone implicate, calandoli nelle situazioni critiche della storia contemporanea. Ma quei caratteri, quegli individui, non diventano personaggi fittivi; le loro vicende, nonostante siano incluse nella narrazione, non prendono il sopravvento sulla missione conoscitiva che resta il fondamento della scrittura. Non ci sono eroi, né avversari, che orientino in modo univoco l’interpretazione dei fatti o che mettano in secondo piano il complesso di questioni etiche, economiche e sociali in cui l’agire dei singoli si colloca.
Per questo Westerman è un autore da leggere, forse specialmente in Italia: per come riesce a far risaltare le vicende individuali situandole in un sistema, mostrandole come elemento di un tessuto connettivo che si distende su una superficie di tempo e spazio più estesa rispetto ai tempi e agli spazi delle vite dei singoli, privati soggetti. È questo modo di raccontare, anzi di concepire la funzione stessa del racconto, che può permettere a uno scrittore di oltrepassare i confini dell’inesperienza, e l’insignificanza di un privato locale e introverso, in cui la narrativa contemporanea rischia a volte di chiudersi. Il grande romanzo ha sempre cercato e cerca di oltrepassare quei confini, ma oggi è più facile avvicinarsi a quell’obiettivo provando a mettere a fuoco le cause e i nessi tra ciò che accade qui e ora in un determinato luogo e ciò che è accaduto (o accadrà) altrove.
Nella sua carriera di giornalista e di scrittore, Westerman ha visto direttamente i luoghi di cui parla, ha varcato soglie interdette, per guardare da lì al mondo che abitiamo. Come corrispondente del quotidiano olandese «de Volkskrant», è entrato nella Srebrenica devastata dalla guerra, raccontando poi quell’esperienza in un libro uscito nel 1997, Het Zwartste Scenario (alla lettera ‘lo scenario più nero’ o ‘più oscuro’), scritto con il collega Bart Rijs. Corrispondente da Mosca per un’altra testata olandese «NRC Handelsblad», tra la fine degli anni Novanta e il 2002 ha viaggiato attraverso i territori dell’ex-Unione Sovietica. A quegli anni risale anche la sua escursione sul monte in cui la tradizione vuole si sia arenata l’arca di Noè: Westerman ne ha parlato in Ararat, mescolando al racconto una riflessione sulla religione, sulla sua relazione con la scienza e la matematica. Il libro, uscito nel 2007, è stato tradotto in italiano, sempre per i tipi di Iperborea, nel 2010; due anni prima, lo stesso editore aveva fatto conoscere in Italia El Negro e Io, in cui Westerman, tornando a un episodio dei suoi anni di studio da agronomo tropicale, incentrava il racconto sul tema dello sguardo sull’altro, dell’uomo europeo sul mondo postcoloniale. Negli anni successivi sono usciti da noi anche Pura Razza Bianca (2013) e L’enigma del Lago Rosso (2015), due opere a sfondo ecologico; mentre un libro del 2002, Ingegneri di anime (sul rapporto tra progresso industriale e letteratura celebrativa nella Russia stalinista), era stato già tradotto da Feltrinelli nel 2006.
I soldati delle parole ha in comune con quei libri precedenti non solo l’alternanza tra riflessione e narrazione, ma anche il continuo trapasso da un tempo a un altro, da una situazione all’altra, collegati da analogie evidenti o accostati per via dei contrasti e paralleli che il narratore-reporter coglie e spiega. Uno di questi confronti distintivi riguarda il diverso trattamento che le autorità olandesi hanno riservato alla memoria delle vittime del nazismo, da un lato, e ai profughi molucchesi dall’altro. Nelle stesse baracche in cui negli anni Sessanta vengono relegati i rifugiati delle ex-colonie olandesi erano stati già internati dai nazisti «più di centomila ebrei, zingari, omosessuali e comunisti», trasportati da lì nei campi di sterminio di Auschwitz e Sobibór. «La famiglia Solisa fu una delle ultime a lasciare Westerbork nell’aprile del 1970. La loro baracca, la numero 37, fu immediatamente demolita con un bulldozer. Doveva essere tutto impeccabile per l’arrivo della regina, il 4 maggio, che avrebbe svelato il Monumento all’Olocausto: un paraurti con i resti di un binario morto le cui rotaie si incurvano arrugginite verso il cielo».
Spesso i binari e i treni, strumento della deportazione, sono diventati simboli e veicoli di una memoria che si vuole riparatrice. Nel libro di Westerman, altri treni e altri binari sono emblemi di una diversa, inconciliata rievocazione. Le domande da cui siamo partiti, sul terrorismo e sul potere della parola davanti a una simile attitudine all’estremo, sono infatti ispirate a Westerman dal ricordo delle Molukse Acties: con quel nome è passata alla storia la serie di attentati e sequestri compiuti nei Paesi Bassi da terroristi di origine molucchese. I fatti hanno le loro radici storiche nel colonialismo olandese. Dopo la guerra d’indipendenza indonesiana, conclusasi alla fine del 1949, gli abitanti delle isole nell’arcipelago meridionale delle Molucche, collaborazionisti degli olandesi (e arruolati in gran numero nelle file dell’esercito coloniale), proclamarono una Repubblica autonoma, osteggiata dall’Indonesia unita di Sukarno. Molti molucchesi, in attesa di una soluzione diplomatica, s’imbarcarono così per i Paesi Bassi, dove vissero relegati ai margini della società olandese.
La radicalizzazione fu la via che alcuni giovani molucchesi scelsero per rendere nota la loro condizione fuori dai ghetti erano cresciuti (come le baracche di Westerbork). Tra le azioni terroristiche più importanti ci furono nel 1970 l’assedio dell’Ambasciata Indonesiana a Wassenaar e, nel 1975, il tentato rapimento della regina Giuliana e il sequestro di un treno con cinquanta persone a bordo. Tra i sequestratori di quel treno c’era anche un insegnante di Westerman: anche per questo lo scrittore ha conservato una memoria particolare dell’evento. In quell’occasione, venne sperimentato un metodo di risposta non violenta, conosciuto come Dutch Approach, basato sulla negoziazione. Cioè sulla parola, a cui ci si affida per mantenere un contatto, per ricostruire idealmente un ponte sul quale il treno possa passare per arrivare a destinazione. In questo senso, cioè rispetto al valore letterale e metaforico dell’immagine ferroviaria, con le sue risonanze storiche, appare ben concepito il disegno sulla copertina dell’edizione italiana: l’autore, Alessandro Gottardo, vi ha appunto rappresentato un treno su un viadotto che sta crollando; ancora pochi metri e il convoglio precipiterà nella voragine. Parlare (e scrivere) è per Westerman un modo per tentare di evitare disastri e crolli di quel genere.
Ma il ponte che la scrittura edifica è anche quello che unisce a distanza tempi, fatti e persone; un ponte che può essere attraversato dal passato verso il presente e viceversa. Questo principio è la base su cui l’autore ha modellato la forma del contenuto – politico e morale – dei Soldati delle parole (e dei suoi libri precedenti). Il racconto del terrorismo molucchese degli anni Settanta si alterna infatti, con una tecnica di montaggio quasi cinematografica, alle immagini di altri terrori: quello ceceno degli anni Duemila, a cui l’autorità russa risponde con un metodo opposto al Dutch Approach; e quello jidahista dei nostri giorni: «Ripenso all’agente di polizia francese ferito sul marciapiede davanti alla redazione di Charlie Hebdo. Si chiamava Ahmed Merabet. […]
Provo a immaginare cosa avrebbe detto se il suo assassino gliel’avesse permesso. Se avesse avuto modo di pronunciare un discorso in propria difesa, avrebbe potuto iniziare dalla Rivoluzione francese, alla quale i libri di scuola fanno risalire i concetti di terreur, grande terreur e guillotine […]. Quelli che trovavano tutto questo troppo gretto fecero scoppiare, sempre da Parigi, una seconda rivoluzione durante la quale – almeno per un breve lasso di tempo nel maggio del 1968 – l’immaginazione salì al potere. Ora, mezzo secolo dopo, due fratelli integralisti avevano aperto il fuoco proprio contro la libertà dell’immaginazione. Da poliziotto, Ahmed Merabet difendeva quest’ultima. La sua storia, semplicemente, era migliore di quella dei suoi assassini – in questo senso ha vinto brillantemente il duello». ‘Una parola una parola’ (Een woord een woord): il titolo originale del libro sembra trovare qui un senso pieno, come invocazione e riaffermazione di un diritto, di una libertà.
Il passo appena letto è utile per mostrare come nei Soldati delle parole la superficie della storia si ripieghi intorno a una scena, a un’immagine significativa, fino a far combaciare punti distanti nella linea del tempo. Molte di quelle immagini, come il poliziotto Merabet a terra freddato dai terroristi, hanno la capacità di creare un simile cortocircuito nel tempo e nello spazio proprio perché sono icone della nostra epoca, epifanie negative che impressionano i nostri sguardi senza più obbligarci a capire. Gli accostamenti stranianti con cui Westerman fa procedere il racconto riescono spesso a scuoterci dall’incanto morboso della pura immagine. Certo, il legame paradossale che qui lo scrittore intravede tra gli attentati del gennaio 2015, il Sessantotto e la Rivoluzione francese è un po’ forzato, se non proprio gratuito, e rischia di far scivolare il discorso verso una retorica patetico-euforica. Del resto, I soldati delle parole è un libro importante, non è un libro perfetto.
Ma, in altre parti, Westerman gestisce meglio gli equilibri, senza affrettarsi a chiudere la partita tra la parola vincitrice e il terrorismo sconfitto. Sulla capacità costruttiva della parola lo scrittore non ha dubbi (nelle note finali cita, tra le fonti di ispirazione, i Dialoghi platonici), ma l’affermazione dei valori dialettici non è incontrastata. Il narratore è continuamente disposto a mettere in crisi le certezze sul metodo se non sul merito. Per questo, ripercorre gli eventi che hanno segnato lo sviluppo e la fine del terrorismo molucchese nei Paesi Bassi; nel 1977, le autorità olandesi rinunciano al Dutch Approach fronteggiando con la forza il secondo sequestro di un treno: stavolta la polizia spara uccidendo, oltre ai sequestratori, anche alcuni ostaggi: «Il blitz del treno di De Punt è durato in totale undici minuti. In una nota interna dell’FBI la brutalità dell’Operazione Mercedes viene descritta come “eccezionale”. Il livello di violenza cui si è fatto ricorso è considerato “molto poco olandese”».
Westerman è bravo a portarci nel teatro degli eventi; sa rappresentare con molta efficacia la situazione, accelerando i ritmi, creando suspense, alternando i punti di vista e le voci degli ostaggi, dei sequestratori, dei negoziatori, dei poliziotti. Riesce cioè a rendere il terrore delle vittime e l’esaltazione dei sequestratori e ci induce così a chiederci: se ci trovassimo in una situazione simile, ci basterebbero le parole? Forse no, probabilmente no. In un’intervista, lo stesso Westerman ha dichiarato: «Ecco, quando mi sono trovato nel mezzo della simulazione, mi sono reso conto di una cosa molto importante, e cioè che il tempo guadagnato con le negoziazioni era in funzione e non alternativo all’intervento dei Corpi d’Assalto. Io non sono pacifista e credo che in alcuni casi le parole non possano prescindere dall’uso della forza. Quello che ho capito senza ombra di dubbio quel giorno, però, è che la forza non può fare a meno della parola. E questo rende l’approccio alla Putin (“Uccidiamoli tutti!”) ben poco lungimirante.»
La forza non può fare a meno della parola, è vero, ma questo significa anche che l’uso della violenza non può essere escluso, resta sempre un’opzione. L’esercizio della violenza, a sua volta, alimenta un senso di colpa nelle società che lo bandiscono (o si illudono di farlo) , come ha mostrato la reazione dell’opinione pubblica olandese dopo l’esito cruento del secondo sequestro ferroviario. L’attrito tra valori e realtà genera un ulteriore disagio, sul quale Westerman riflette: «Sono cresciuto con l’idea che progresso significhi: risolvere i conflitti con le parole. […] Il rovescio della medaglia è che siamo diventati impotenti contro chi semina distruzione e morte». Prima di esprimere questo dissidio attraverso la scrittura, Westerman ha dovuto comprenderlo, anzi provarlo in prima persona, sia pure attraverso la simulazione a cui allude nell’intervista. Oltre a frequentare i corsi di formazione in cui la polizia insegna le tecniche di negoziazione; oltre a partecipare a un congresso mondiale di negoziatori (La biennale internationale de la négociation) a Parigi; oltre a incontrare famosi negoziatori come Henk Havinga e perfino ex-terroristi della RAF, lo scrittore ha infatti partecipato anche a un’esercitazione all’aeroporto di Schiphol, nel ruolo di passeggero di un Boeing 747 dirottato.
Westerman è sceso da quell’aereo senza aver risolto i dubbi o trovato le risposte a tutte le domande: se è vero che la bomba e la parola possono avere un analogo potere, quando dobbiamo rinunciare alla prima per la seconda? Quando possiamo accettare il passaggio dalla «terapia della parola dello psichiatra empatico» (la negoziazione ‘all’olandese’ degli anni Settanta) alla «macelleria del chirurgo dal camice insanguinato» (il metodo Putin contro la Cecenia)? I soldati delle parole ci consegna quei dubbi con tutta la loro forza e urgenza, attraverso le risorse della scrittura.
Raccontare contro il terrore. I soldati delle parole di Frank Westerman, tr. it. di F. Paris, Milano, Iperborea, 2017, pp. 330, euro 18,50.