In mostra ai Musei Reali di Torino / La Comédie humaine di Vivian Maier
Al nome di Vivian Maier, ormai, si associano non solo un gran numero di immagini inserite nella cultura visiva generale, ma soprattutto, sorte riservata a pochi, una storia: è stata infatti accolta dall’immaginario comune come mito della fotografia contemporanea colei che di sé avrebbe finito per non lasciare alcuna traccia (e poche comunque ne avrebbe volute lasciare), scoperta casualmente durante un’asta a Chicago nel 2007 da John Maloof, che comprò tutte le sue migliaia di negativi ancora da sviluppare, scoprendo una delle principali esponenti della street photography americana (categoria per lei addirittura riduttiva), totalmente autodidatta. Così infatti la schiva bambinaia di origini francesi è diventata la più discussa fotografa di smisurata fortuna postuma.
Infatti, credo bastino questi pochi accenni per far tornare alla mente di addetti ai lavori e non l’intera vicenda, rievocata in ognuno con i particolari aneddoti di chi ricorda una persona nota.
Ai Musei Reali di Torino (Palazzo Chiablese) viene proposta una Vivian Maier inedita: è infatti il sottotitolo a suggerire l’esigenza di non abbandonare un personaggio ormai così tanto maneggiato scoprendone tutte le sfumature possibili, andando alla ricerca del non-ancora-noto, come a costruire un dettagliatissimo render di uno scavo archeologico che non smette di appassionare visitatori e ricercatori.
Entrando, ci si affaccia nella prima sala dedicata agli autoritratti. Filone tanto importante nella ricerca di Vivian Maier quanto quello di reportage urbano, ci permette di prendere – o riprendere – confidenza con gli occhi che avrebbero dato vita ad alcune delle immagini più iconiche del secondo Novecento.
Come unica fotografa di sé stessa, la traccia di sé che ci ha lasciato è spesso intrecciata a visioni frastagliate e ripetute da effetti specchianti, da riflessi nelle vetrine dei negozi, oppure sotto forma di ombra. Lei nel mondo: un esistere registrato. E in questo stesso modo possono anche essere definiti i suoi soggetti, che insieme vanno a comporre una vera e propria Comédie humaine, una catalogazione umana che quasi affannosamente la fotografa ha cercato di comporre solo per propria personale memoria. Il punto principale della questione Vivian Maier, infatti, come è già stato sollevato molte volte, è appunto quello di non aver voluto spontaneamente consegnare le proprie immagini al mondo.
Questa osservazione porta con sé a catena una serie di considerazioni. Si può dire, infatti, che la Maier abbia esercitato, per tutta la vita, solamente l’azione del vedere, delegando ogni sua pulsione di ricerca e di comprensione alla semplice vista, senza farla seguire dalla comunicazione, solitamente naturale e sentita dall’uomo come necessaria. Così facendo, oltre al suo sguardo rimasto precluso agli altri, l’unica tesoriera di quel mondo visto, l’unico archivio di quelle immagini impresse, è stata la sua stessa memoria. Gli occhi per un momento, la memoria per quanto tempo possibile. Questa interruzione del meccanismo che vede l’attenzione posta solo sulla prima fase del processo, ovvero quella della raccolta di informazioni e suggestioni, è il fatto tanto curioso, il punto di rottura che rende impossibile qualsiasi immedesimazione e che per questo suscita tanta attrattiva.
Vivian Maier voleva solo vedere, e ha solo visto, conservando per sé i risultati della proiezione costantemente rivolta all’esterno della propria attenzione. Il maggior numero di scatti riguardano il reportage urbano, a testimoniare che la vera dimensione della fotografa è indubbiamente l’umanità viva, colta nei millimetri che la rivelano. Espressioni facciali, gesti nascosti, il modo di camminare o di tenere le gambe, le acconciature, gli sguardi rivolti a lei o altrove. Le immagini, ricordando un dato probabilmente ben noto, sono scattate con una Rolleiflex – di cui la mostra ci fornisce in visione l’esemplare da lei posseduto – e sono quindi di formato quadrato. Nella sua profonda capacità di sintesi formale, in cui riesce a raccogliere i pochi elementi che servono attorno al viso di una persona per poterle dare un contesto, una storia, un luogo e quindi una vita, non manca un certo simbolismo, una qualche illuminazione che la mette a paragone con opere consacrate della storia dell’arte, come la fotografia che ritrae due ragazzi, il primo di spalle baciato da una luce netta e quasi bianca che lega l’immagine alla cultura del cinema neorealista, e il più piccolo di fronte, di cui si intravede poco più di un pezzetto di nuca (può venire in mente il “Ritratto allo specchio” di R. Magritte), mentre le loro due ombre si stagliano nette sulla parete di lato, facendone intuire l’intera silhouette.
Superando, poi, la sezione veramente “inedita”, ovvero la piccola sala dedicata al viaggio in Italia che Vivian Maier fece nell’estate del ‘59, passando da Genova e Torino, proprio nella zona in cui ora è allestita la mostra che la omaggia, si approda all’infanzia: probabilmente come riflesso autobiografico per la sua attività di bambinaia, i bambini sembrano rappresentare per la fotografa il simbolo dell’essenza e della tragedia umana, che fa anche degli esseri più innocenti il veicolo grottesco, a volte drammatico, altre volte astratto, delle sfumature altrettanto grottesche, drammatiche e astratte dell’esistenza.
In una poetica maturamente sintetica, che vede sì una moltitudine di scatti, ma unificati sotto pochi e correlati filoni, proprio l’astrazione è un secondo modo di vedere che la Maier sa far convivere perfettamente col proprio sguardo lucido sulla realtà umana: nelle sezioni “Gesti” e “Forme”, dettagli di scenari in cui si muoveva diventano vere composizioni informali dei segni che l’uomo lascia – riflessi, pozzanghere, tende, oggetti lasciati per strada o buttati nella spazzatura. Ogni lascito umano è per la Maier fonte inesauribile a cui attingere per addentrarsi con cautela nel mondo, cercando di capire qualcosa da cui si è sempre tenuta lontana, in una solitudine calmierata soltanto dalla sua professione.
In ogni immagine non trapela quasi mai la volontà di esprimere un’opinione o un messaggio, e questa è l’altra riflessione a cui porta quel processo espressivo, ma non comunicativo, che distingue l’operato della Maier. Se un’immagine viene scattata per proprio uso, senza avere l’urgenza di svelarla neanche a se stessi, è difficile che dietro ad essa sia nascosto un messaggio da trasferire, come di solito si presuppone in qualsiasi opera d’arte.
Il dialogo, in questo caso, avviene tra sé e sé, il bisogno di capire e di catturare è più che mai personale e assolve a funzioni che possiamo soltanto intuire, lasciando solamente impressa la sensazione che qualcosa è stato visto, niente di più. L’aspetto affascinante sta, dunque, proprio nello scardinamento di un meccanismo a cui siamo socialmente, culturalmente e biologicamente sottoposti, quello di far defluire le informazioni o le impressioni raccolte attraverso svariate vie comunicative: tenere per sé i frutti delle proprie ricerche, e l’entusiasmo o il pessimismo che possono portare, è in antitesi con l’invenzione umana dell’espressione visiva.
Con Vivian Maier è stato reso pubblico l’esempio di quanto la fotografia, e quindi l’arte, possano essere pratiche del tutto private. Viene proposto, in definitiva, un fine totalmente diverso di queste pratiche, facendone vacillare la definizione e quindi la natura. Si può ancora dire, per portare agli estremi il ragionamento, che così facendo Vivian Maier abbia ri-polarizzato il concetto di espressione, non intendendola più come strumento di auto-affermazione di se stessi e della propria visione da comunicare necessariamente, bensì di auto-riconoscimento, ovvero il bisogno di cercare, attraverso un mezzo espressivo, la propria identità nel mondo. Si ribalta, così, la proposizione dall’io-sono al sono-io, mettendo in discussione l'io autoriale. L’attitudine che trapela dalle immagini, infatti, è proprio quella di avvicinarsi a un mondo che non si ha del tutto afferrato, sperando, guardandolo poche porzioni per volta, di poterci entrare sempre più in confidenza, fino a trovare lì in mezzo anche il proprio profilo, la propria forma e il proprio spazio, che non sia solo quello che occupa la propria ombra.
La Vivian Maier presentata in mostra, però, si allarga ad ambiti effettivamente fino a ora non ancora approfonditi sul suo lavoro. Infatti, è inedita anche per altre due propaggini della sua ricerca visiva, ovvero il colore e il video. Guardando questo materiale, più che nelle immagini in bianco e nero, si rivela la volontà della Maier tanto di sperimentare coi mezzi di espressione visiva a pellicola, quanto di registrare per ricordare: i filmati in super8, a volte anche le interviste che faceva ai bambini e alle persone che incontrava in coda al supermercato, sembrano il tramite, l’aggancio tra la sua esistenza e quei raffinati e sublimati risultati fotografici per cui è diventata poi famosa. In mezzo sembra esserci la pura volontà di raccogliere quanto più possibile, con la verosimiglianza e la maggior attinenza che il colore può conferire al ricordo.
A permeare l’esposizione non è, quindi, solo il talento di una fotografa giustamente paragonata ad altri maestri come Lisette Model, Robert Frank, Diane Arbus e altri, ma anche la voracità con cui questo talento è stato espresso – seppur sempre con la delicatezza della fotografia umanista francese.
Il cammino in cui si è condotti visitando la mostra è il flusso di coscienza una volta contenuto nella memoria di una persona, in cui non mancano le ossessioni che una vita vissuta in una solitudine quasi totale può provocare. Si è spinti a percorrerlo con il riguardo che si deve avere entrando in una casa in cui non si è mai stati davvero invitati a entrare e allo stesso tempo sentendosi grati di potersi avvicinare ai tesori di cui nessuno è mai stato reso legittimo erede.