Fatiche del lavorare nel terzo settore
Hanno visi smunti, espressioni facciali tirate, camminano anche un po’ curvi, soprattutto le donne, con andature anchilosate. Non rimandano immagini né salubri né felici. E, pur controllandomi, li guardo un po’ stupito, sorpreso di scoprirli molto al di là dell’immagine che di tale mondo mi è stata rimandata in tanti anni di mio lavoro nelle organizzazioni aziendali, manifatturiere e di servizio. Sono questi miei nuovi interlocutori le donne e gli uomini che hanno responsabilità di direzione e di gestione nelle organizzazioni del sociale e della cultura. Sono per me sorprendenti nella loro palese ansia e segnali di disorientamento, per lo più malcelati dai tratti informali del porsi, del vestire e di un linguaggio che per quanto diretto e cordiale non ha ancora trovato una cifra peculiare, capace di costruire con una qualche verosimiglianza per l’interlocutore un mondo comune.
Da qualche tempo lavoro con le realtà del sociale e della cultura con ripetuta frequenza; non ho ancora compreso perché tutto questo mi stia accadendo e il solo volontariato non rende conto della frequenza di questa mia immersione in queste realtà, che nella mia giovinezza e nella mia maturità mi sono state per lo più lontane e in ogni caso parallele al mio operare centrale, come già detto, nelle aziende profit oriented.
Mi sono confrontato con amici e colleghi e quello che mi sento di dire a questo proposito è che, al di là di una complessità crescente e di una esperienza ansiogena conseguente per tutti noi che lavoriamo nelle organizzazioni, i colleghi che operano nel sociale e nella cultura attraversino un tempo complesso, che ho cercato minimamente di puntualizzare tra l’altro perché esposti a una particolare fenomenologia e invasi pervasivamente da un insieme di modelli gestionali per molti aspetti a loro estranei.
Metto lì il mio primo post riferito all'esposizione: ricerche e testimonianze diverse indicano fin dai primi dati come l’obbligato confronto con il Bello per i gestori di Istituzioni operanti nella cultura e nel sociale incrementi una inquietante complessità esperienziale in attività, quelle culturali e sociali, già di per sé problematiche. Recenti ricerche commentano con ampiezza di riflessioni tale dato di esperienza organizzativa e manageriale: “il bello consiste in una disposizione provvidenziale grazie alla quale la verità e la giustizia, non ancora riconosciute, richiamano in silenzio la nostra attenzione”. Basterebbe questa annotazione di Simon Weil del 1942 per verificare quanto affermato. Bello è un qualcosa che obbliga i nostri amici, operatori del sociale e della cultura, a un incontro inevitabile; contemporaneamente, mi pare sempre di poter dire che Bello è un qualcosa di inafferrabile, oltre che di indefinibile, capace di esporre nella sua manifestazione a interrogativi e transiti tanto misteriosi quanto inquietanti. Si può anche osservare – e questa differenza è quasi una chiacchiera da bar dello sport – che mistero, a differenza di segreto, è una realtà in sé non decifrabile, che donne e uomini portano con sé come non risolta per tutta la durata della propria esistenza.
E a questo punto non posso esimermi da una affermazione solenne, del tipo: confrontarsi con la Bellezza significa esporsi a un transito che inevitabilmente propone un andare verso una sua ulteriorità nei confronti di tutto ciò che può essere per le donne e gli uomini esperienza quotidiana. Il confronto con la Bellezza non è riducibile, in altre parole, a una semplificante dimensione estetica ma sfida gli operatori, e soprattutto coloro che hanno responsabilità di vertice nelle organizzazioni sociali e della cultura, ad un mutamento profondo del loro stile manageriale e dell’insieme di competenze che testimoniano. La Bellezza richiama a un guardare a un livello più elevato all’interno del quale “si fondono organicamente il bello, il vero e il virtuoso”1
Se posso considero conclusa con questa affermazione solenne del filosofo la parte del mio conversare dedicata alla fenomenologia dell’esposizione e passo a commentare l’aspetto invasione.
Invasione riassume la circostanza per la quale da molti anni ormai il mondo del terzo settore è stato assalito e invaso da modelli gestionali/organizzativi, non costruiti ad hoc per tale mondo ma trasferiti arbitrariamente da altri mondi, quelli specificatamente del profit, delle organizzazioni aziendali. L’incongruenza di tale transito non è connessa alla circostanza che alcuni modelli trasferiti “da là a qui” siano in sé errati o inutili; l’incongruenza è legata alle modalità del transito e, per esempio, alla mancanza quasi sempre di una riflessione con i destinatari, capace di trasformare il trasferimento di modelli da altri mondi in strumenti peculiari, con alta intimità e capacità di cura.
Uno dei modelli estranei che è stato proposto al management del sociale e della cultura è quello del ‘Compito primario espanso’. Compito primario è quell’obiettivo al cui fine è stata preordinata la creazione dell’organizzazione e che deve essere conseguito, nelle diverse fasi di vita dell’organizzazione e secondo modalità e obiettivi da contrattare con differenti referenti, sia dell’ambiente esterno che dell’ambiente interno dell’organizzazione stessa, se si vuole evitare il rischio della messa in crisi e della soppressione/estinzione dell’organizzazione medesima.
Le circostanze di complessità e difficoltà contemporanee anche delle organizzazioni del sociale e della cultura hanno poi suggerito una espansione del Compito primario indicando tre sotto-compiti in esso compresi. Detto in altre parole i nostri colleghi del terzo settore, similmente a quanto succede ai colleghi delle altre organizzazioni, si confrontano quotidianamente – e non si possono sottrarre a tutto questo – con una porzione del proprio Compito primario proposto e definito dall’autorità di riferimento; anche per loro questa parte del Compito primario deve essere portata avanti con una forte riduzione dei tempi di verifica e con prospettive di pianificazione sostituite da pressanti richieste di flessibilità.
Nel portare avanti questa parte centrale del loro Compito primario verifico quotidianamente come questi colleghi vivano spesso situazioni di “abbandono” da parte dei loro organi istituzionali e di supervisione (Fondazioni, Consigli di Amministrazione, ecc…). In preda a tali ansie – sempre similmente a quanto accade nelle altre organizzazioni – i nostri colleghi del terzo settore cercano “riparo” presso altri colleghi della loro organizzazione, di solito specialisti, senza responsabilità dirette di gestione: è una richiesta di aiuto necessaria per portare aventi il conseguimento del Compito indicato dal vertice di autorità, richiesta di aiuto che spesso cade nel vuoto, inibendo così il dare una risposta di senso ad una domanda implicita nella terza porzione del Compito primario, quella tesa all’ascolto del Sé e al connettere il lavorare quotidiano con una propria autorealizzazione.
Provate a immaginare i colleghi con responsabilità direttiva nel sociale e nella cultura, con il loro immaginario culturale e politico, con le loro origini di storie, con le mille beghe quotidiane, con le burocrazie e i poteri politici più o meno locali e l’affanno mai sopito del found raising, a essere obbligati a confrontarsi con le schermaglie sopra indicate, contenute nelle tre porzioni del Compito primario e potrete trovare una comprensione, anche se non esaustiva, di quello che viene definito lo “stato di disagio dei Servizi”.
Ci si potrebbe avventurare in analisi psicoanalitiche, sconfinamento che non raccomando a nessuno, data una sorta di resistenza di ceto alle analisi dinamiche testimoniata dai nostri colleghi del terzo settore. Prevale infatti ancora una certa visione del mondo che se accomuna impegno, tensione al conseguimento di risultati, sacrificalità fino talvolta all’abnegazione, rifiuta spesso tentativi di autoriflessione del Sé; in altre parole si avverte spesso il bisogno di poter proiettare fuori – occorre convenire che spesso è un meccanismo di difesa legittimo – su altri il carico di ansie quotidiane che operare nel terzo settore, nel nostro Paese, in questi anni, inevitabilmente genera.
Finalino; si vive spesso, sintetizzando, dentro una sorta di sindrome: sacrificalità, profondo orientamento al ”dovere”, interpretazione messianica del ruolo; ansie diffuse di natura diversa; lontananza, se non rifiuto, da tentativi di comprensioni di natura profonda con massicci meccanismi di difesa proiettivi verso l’esterno. Dentro tali vertici può risonare come attesa la battuta dell’altro ieri di un collega che ho visitato in una Onlus a Milano e che, trovatolo solo, alla mia domanda un po’ stupita, mi ha risposto: “sai oggi a Milano c’è lo sciopero dei mezzi di trasporto e sono qui da solo”.
1 Curi U., L’apparire del bello, Bollati Boringhieri, Torino, 2013, pag. 43