Zombie

8 Febbraio 2012

Battaglia in corso contro l’ecomostro di Via Procaccini a Milano.

La bellezza è anche una questione di resistenza.

 

Luna Park

 

In Land of the dead di Romero c’è una curiosa autoblindo ammazza-zombies. È dotata di uno speciale sistema per lanciare fuochi d’artificio. Servono a paralizzare i morti viventi che, unico caso registrato all’interno del genere cinematografico, si arrestano per contemplare stupiti e ammirati come bambini. Allora si possono fracassare i loro crani con irrisoria facilità. La sequenza è toccante. Uno zombie-Spartaco nero cerca disperatamente di svegliare i suoi fratelli dall’incantesimo e assiste con orrore tutto umano al massacro. Ad un certo punto afferra per i capelli una zombie donna che viene fatta immediatamente a pezzi. In mano allo zombie Spartaco resta solo una povera testa staccata dal corpo. Lo Zombie rivoluzionario getta un’occhiata a quel povero resto e vede che gli occhi della donna ancora si dirigono, nonostante tutto, verso l’arabesco di fuoco disegnato nel cielo. I fuochi d’artificio sono irresistibili per gli zombies, a riprova del legame – direi, quasi, della consanguineità – che tali decreature hanno con i luna park, con le fiere popolari e con ogni genere di grossolano effetto speciale. Come non ricordare il gran ballo degli zombies che nel film Carnival of Souls (Herk Harvey 1962) ha luogo nel fatiscente padiglione delle feste di un luna park abbandonato? Il luna park era stato creato nel 1893 dalla comunità dei Mormoni di Salt Lake City, nello Utah, per contendere il primato tra i parchi giochi al ben più noto Dreamland di Coney Island, sorto dieci anni prima.

 

Fuochi d’artificio

 

Non è difficile immaginare di che cosa dovessero essere metafora quei fuochi per Romero, ormai diventato (siamo nel 2005) un regista di culto universalmente letto in chiave politica. Erano segno dell’alienazione ideologica che rende le masse passive e dominabili: la tv come droga di massa ecc. Ma non è come metafora che quei fuochi mi interessano. Io li assumo come un fatto e come un problema. Perché, mi chiedo, i fuochi d’artificio affascinano gli esseri più miserabili che la mente umana sia mai riuscita a concepire? Non c’è ultimo più ultimo dello zombie – del morto vivente cannibale. Volete toccare il fondo dell’abiezione? Andate da loro. Rappresentano indubbiamente il culmine di ogni degrado. I fuochi di artificio arrestano, però, la marcia inesorabile dei morti viventi. Li costringono ad alzare lo sguardo e a contemplare il cielo (se hanno ancora occhi per vedere, ma pare lo facciano anche quelli che al posto degli occhi hanno orbite vuote…). Una dimensione verticale si apre nell’infinito deserto della Terra che i morti viventi percorrono in tutte le direzioni senza andare, per altro, in alcun luogo.

 

 

Teologia zombie

 

Dunque, non è poi così vero che per loro non ci sia altro che lo scorrere sul piano orizzontale infinito del fuori. Il loro cervello da rettile si mostra stranamente sensibile anche all’apparizione, alla pura forma dell’apparizione. Tali sono, infatti, i fuochi d’artificio: nient’altro che l’apparire portato alla sua estrema potenza, concentrato in qualche breve istante e subito restituito alla notte. C’è uno splendore a cui perfino gli zombies sono sensibili, al quale corrispondono con uno sguardo incantato ed estasiato. Nella sequenza del film di Romero, alcuni sembrano addirittura sorridere, a dispetto della distruzione che li circonda e a cui sono votati. Quello splendore è perfino più forte della loro fame compulsiva. È il dio degli zombies quello che vedono prima di cadere fatti a pezzi dalle bombe dei soldati? Non lo so, ma la sequenza merita una riflessione non occasionale e, soprattutto, non ironica. Forse, per capire il nostro tempo, bisognerebbe cominciare a scrivere non solo una fenomenologia zombie (che spieghi chi siamo veramente noi) ma anche una teologia zombie (che ci dica cosa può arrestare la nostra vocazione alla distruzione della Terra). Ed essa sarebbe, come la più sublime teologia, una teologia della bellezza, una teologia della verità come bellezza.

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