Farla finita con il finire

14 Ottobre 2022

A scuola abbiamo imparato ad apprezzare la fulminante chiusura di Sono una creatura di Giuseppe Ungaretti (da Il porto sepolto del 1916): “la morte si sconta vivendo”. Senza alcuna pretesa di fornirne un commento, quella sentenza può funzionare come apripista per una riflessione metafisica sul tema di Kum 2023, il “fine vita”. Lo può fare perché individua tra la vita e la morte il giusto rapporto, che non è di contrarietà – e come potrebbe? Vita e morte se fossero contrari dovrebbero avere un genere comune – né di semplice opposizione – se fosse tale, vita e morte non si incontrerebbero mai e gli argomenti un po’ sofistici di un Epicuro taciterebbero la nostra angoscia. Perché temerla, chiedeva Epicuro, dal momento che io non ci sarò al suo appuntamento? La fine della vita, come anche il suo inizio,  è uno di quegli eventi capitali della “mia” esistenza a cui “io” non sono invitato. Sappiamo però che le rassicurazioni epicuree non ci persuadono e il morire, proprio a causa del suo carattere di orizzonte mai attinto, ci trattiene nel suo laccio. La sua imminenza è anche la sua immanenza pervasiva.  L’ungarettiano “scontare” rimanda piuttosto ad un rapporto economico: la morte, come un immenso debito, è scontata dalla vita che vive, un po' alla volta, giorno dopo giorno, senza che mai i conti siano effettivamente pareggiati. A dispetto delle tenebre nelle quali siamo soliti avvolgerla, la morte risplende allora come una sorta di moneta d’oro che si vorrebbe scontare con la moneta corrente, in vile metallo, della nostra esistenza su questa terra. Ogni giorno si muore un po’, relativamente, senza mai avvicinarsi però all’assoluto della morte ultima, che sarà uno spettacolo riservato soltanto all’altro che mi sopravviverà. Si muore solo per gli altri, diceva Whitehead, e, in ultima analisi a morire sono solo gli altri.

Vi è dunque nella vita una economia della morte – Jacques Derrida, proprio negli ultimi anni della sua esistenza lo aveva magistralmente spiegato – che è una economia del limite, un modo con cui ciò che sta fuori da una serie la genera e la orienta.  Per i teologi oikonomia  indicava il modo in cui il fuoriserie per antonomasia, il Dio trascendente, orientava l’infinita serie delle creature che la sua bontà  aveva generato. Se la serie in questione è più modestamente la nostra vita, a svolgere il ruolo di limite generatore è la morte, la cui trascendenza rispetto alla vita è altrettanto indiscutibile. I matematici hanno formalizzato la questione con la nozione di “passaggio al limite”. Posta una serie successiva di numeri frazionari che a partire da 1/2 aumentassero della loro metà (1/2 , 1/4, 1/8, 1/16…1/n) il numero 1 sarebbe il limite della somma di questa successione di numeri. Come “la morte si sconta vivendo” così anche 1 è, per così dire,  “scontato” dalla serie infinita dei numeri frazionari. In entrambi i casi resterà sempre una differenza infinitesimale che resterà non saldata. Sempre fuori serie,  il limite costituisce il valore cui tende indefinitamente la serie e ne garantisce la continuità. Non è una analogia quella che qui si propone ma un vero e proprio isomorfismo: morire, infatti, è un autentico “passaggio al limite”. Tra la vita e la morte non c’è, si diceva, un genere comune, non ci sono differenze di grado: c’è un salto che ci consegna nelle mani di un altro con il quale nessuna relazione è possibile.

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Fotografia di Gregory Crewdson. 

Lo sa bene Il magistrato Ivan Illich del celebre racconto tolstoiano. Il problema che lo attanaglia in quanto moribondo è un problema genuinamente metafisico: è, anzi, il problema stesso della metafisica. Metafisica significa procedere al limite, andando oltre l’esperienza. Agitandosi sul suo guanciale bollente di moribondo, Ivan si ripete fino allo sfinimento una domanda: “non può essere, non può essere, ma intanto è. Come sta il fatto? Come si spiega?”. Ivan, come tutti i mortali, sa che morirà, ma dal momento che è lui stesso in prima persona ad essere in ballo, non riesce a crederlo, non riesce ad esserne persuaso. Una ben strana miscredenza che mette a soqquadro le solide certezze dei nostri logici per i quali va da sé che “credere” e “sapere” debbano avere le stesse condizioni di asseribilità pur non avendo le stesse condizioni di verità: io posso insomma credere il falso, ad esempio che nei vaccini ci sia un chip per controllarmi, ma quello che so (magari falsamente) non posso anche non crederlo. Ebbene, il morire, quando investe la prima persona e cessa di essere un’astrazione valida per tutti i mortali, fa eccezione al buon senso dei nostri logici: Ivan sa che morirà, ma non può crederlo. Non è la pavidità la ragione di tale reticenza. È un crampo logico che gli impone questa paradossale miscredenza.

Basta un pizzico di Parmenide per escludere infatti il fine-vita dal regno delle cose che sono o meglio dalle cose che possono concepibilmente essere in base al principio di non contraddizione. Se si segue la “via” (odos) della “persuasione” (peitho), quella che è illuminata dalla luce di “verità” (aletheia), non si può infatti dire altro “che è e che non è possibile che non sia”. “Giustizia” (Dike) vuole che all’ essere non sia permesso “né nascere né morire”. Giustizia vuole che l’essere sia tenuto fermo, tutt’insieme, uno e continuo. E se non basta l’autorità del primo tra i filosofi antichi si può ricorrere a quella del primo tra i filosofi moderni, Cartesio. Anche nel suo universo soggettivo, retto dal cogito, non è possibile morire. Certo tutte le cose pensate da me che penso sono contingenti, quindi sono “mortali”, non possono che oscillare tra l’essere e il non essere. Per questo vanno metodicamente escluse dal regno delle cose che sono veracemente. Ma l’atto del pensare quello che penso (e che probabilmente è falso), ebbene quello è incrollabilmente certo: è la tartaruga che regge l’universo tutto. Non posso nemmeno supporre che questo pensiero smetta anche solo per un attimo di pensare. La sua insonnia è senza rimedio. Detto in altri termini: “io” in quanto oggetto empirico, in quanto realtà contingente, “io” con questo corpo qui, segnato da malattia e vecchiaia, non solo posso ma devo morire, ma “io” in quanto puro atto del pensare non posso mai uscire di scena: è pragmaticamente impossibile come se volessi tirarmi su per il codino.  Ciò che per quell’io macilento è giusto e conforme a natura  è invece radicalmente ingiusto per quell’io “trascendentale” che, come scrive Vladimir Jankélévitch, nella sua magistrale ricognizione sul morire, è “prigioniero di un indistruttibile a priori di pienezza e vitalità”. Sul letto di morte, Ivan non ha certo pensieri filosoficamente così raffinati, ma di fatto quando si pone la domanda delle domande – la stessa, sia detto con franco realismo, che ci porremo prima o poi tutti noi – quando si chiede, tormentato, “non può essere, non può essere, ma intanto è. Come sta il fatto? Come si spiega?”,  sta facendo esperienza del fatto che del limite cui tendiamo non c’è concetto ma che piuttosto è il concetto ad infrangersi sul limite. Pensare la morte alla prima persona è pensare più di quanto possiamo pensare. Pensare la morte è una specie di “suicidio del pensiero”: il grande filosofo Bradley considerava il “suicidio del pensiero” un passo necessario ogni qualvolta si faccia metafisica e si passi dal piano del relativo e dell’apparenza a quello dell’Assoluto.

Il “suicidio del pensiero” è un venir meno del “possibile”, una categoria  nella quale confidiamo ogni volta che speriamo. Scontare la morte vivendo vuol dire anche deporre la possibilità e consegnarsi nudi ad una potenza impersonale che non può non attuarsi (“non può essere, ma intanto è”). Il fine-vita mette in gioco un impossibile che scombina tutta la nostra logica compresa quella che discetta sui “modi” della proposizione (possibilità, realtà, necessità). Ancora una volta, se stiamo al nostro “sano intelletto”,  dovremmo dire che possibile reale e necessario si implicano l’un l’altro, secondo una consecuzione che non può conoscere eccezione. Se una cosa è necessaria deve essere reale e se è reale deve essere anche possibile. Ma Ivan fa i conti con qualcosa, che denomina sinistramente “Lui”, che è, ahimé, necessario e reale senza essere logicamente possibile (il filosofo obietterà a questo punto che si sta parlando di una possibilità “reale” e non “logica”, e che dunque non ha alcun senso dire che morire non è possibile, ma come si può concepire una reale possibilità che non sia anche una logica possibilità?) . Goethe aveva preceduto Tolstoj in questa strada quando della morte aveva detto che essa è una impossibilità che si trasforma in realtà. E lo fa in un attimo, in un istante che non ha sede nel tempo cronologico, un atopos (senza luogo) che non sta da nessuna parte nella serie perché della serie è il limite inattingibile.

Resta allora solo la disperazione? È così che “la morte si sconta vivendo”? Ivan, proprio alla fine, quando la speranza è completamente consumata e l’impossibile ha guadagnato la ribalta, è però come costretto a porsi un’altra domanda, che suona quasi come una risposta alla precedente. La prima era una domanda di pertinenza della logica, questa concerne invece l’etica: ho vissuto, si chiede Ivan, come “dovevo”?  Fare ciò che si deve fare, ecco come si dovrebbe scontare la morte vivendo.  E di fronte all’ovvia riserva che quel condizionale implica – Ho veramente vissuto come avrei dovuto? – Ivan, in punto di morte, fa una scoperta eccezionale: c’è sempre tempo per fare quello che si deve fare, proprio perché il fine-vita è ancora, sia pure per un infinitesimo, sempre una vita che vive. Molte dei nostri dubbi sulla liceità delle pratiche per una buona morte possono trovare qui una soluzione. Se il fine-vita è ancora vita che vive, allora farla finita con il finire, operare coscientemente il passaggio al limite, liberando se stesso e gli altri della propria presenza, è ciò che si deve fare quando il possibile si esaurisce. “E all’improvviso – racconta Tolstoj -  ciò che lo tormentava e che non tornava – tutto all’improvviso cominciò a tornare, da un lato, da due, da dieci, da tutti i lati. Ho pietà di loro. Bisogna non farli soffrire. Liberarli e liberare me stesso da queste sofferenze (…) ‘E la morte dov’è?’ Cercò la sua solita paura della morte e non la trovò” (traduzione di M.Landolfi).

 

Rocco Ronchi sarà ospite a Kum! domani, sabato 15 ottobre, alle ore 16. Qui il programma completo del festival diretto da Massimo Recalcati che si tiene ad Ancona a partire da oggi, venerdì 14 ottobre, sino a domenica 16 ottobre. 

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