Speciale

La storia della mia generazione

4 Giugno 2012

Nel 2008 Andrea Malabaila mi contatta. Dice di voler aprire una casa editrice. Allora era ancora tutto in fieri. Malabaila stava ancora scegliendo il nome.

“Ma penso che alla fine la chiamerò Las Vegas”.

Io ricordo di essere sbiancato. Ricordo di aver pensato “Ma perché proprio Las Vegas?”. Las Vegas mi ricordava slot machines, casinò, Cadillac, plastica, tette siliconate, fiches. Perché voler evocare questa dimensione nella mente dei lettori, quando in fondo un libro vuole portare un po’ di sapere, silenzio, meditazioni, monotonia, monocromia, pace, apertura agli altri?

“Beh”, ricordo che mi ha risposto Malabaila, “Ma perché per me è una scommessa. Aprire questa casa editrice è più o meno come scommettere al casinò”.

Certo, a ripensarci adesso, questa è proprio una frase tipica delle persone della mia età. È una scommessa. Un tentativo. Una questione provvisoria. Malabaila ha ragionato come uno della mia età – non posso dire della mia generazione, perché la mia generazione non esiste, non è mai esistita e se andiamo avanti così verrà presto cancellata definitivamente, ma posso dire almeno della mia “età”. Ha ragionato come uno della sua età e difatti non lo ha cagato nessuno. Ha dovuto battere strade alternative, i canali dell’intelligencija culturale forse non sanno nemmeno che esiste. E tuttavia a me appare del tutto evidente che a oggi Las Vegas Edizioni sia la casa editrice più significativa in Italia.

 

Io ho pubblicato per Las Vegas perché per me scrivere è scrivere, è una cosa sacra ed è anche l’ultima delle cose. A me non importa mandare i miei figli in giro con la marca migliore sul culo. Sono i miei figli, li ho fatti bene, e devono cavarsela da soli – li ho fatti perché se la cavino da soli, anzi, li ho cresciuti, programmati così. Una cosa è riuscire a dimostrare educazione e classe in un club con la tessera, una cosa è dimostrarli all’osteria. Se ci riesci, e se riesci a non essere ridicolo e a non metterti in una posizione di superiorità, ecco, è lì che stai dimostrando classe.

Le cose che scrivo parlano sempre di “persone della mia età” che non lavorano, hanno contratti di lavoro che farebbero vomitare una capra, dormono, bevono, hanno crisi d’identità… Sono storie evidentemente interconnesse alla mia storia personale. Io parlo di me stesso non tanto perché sono affetto dalla sindrome di Silvio Pellico o perché sono così vanitoso che mi specchierei pensando di essere bello anche quando sono coperto di pece dalla testa ai piedi o perché non ho altro di cui parlare (se fosse così non avrei quattro romanzi spy stories e moltissimi racconti horror nei cassetti della mia stanza – e ora che ci penso anche un romanzo d’avventura, e un altro horror, che s’intitola Polvere). Queste sono solo quelle giustificazioni da aspiranti scrittori perennemente abbonati al muro del pianto. Malignità, corte vedute. Lo faccio invece, e più sensatamente, perché voglio che ci sia parità tra i miei personaggi e me stesso. Io non sono il dio superiore del mondo che creo. Anche perché, se fossi il dio superiore del mio mondo e dei miei personaggi, diventerei anche il dio superiore dei lettori che verrebbero a farmi visita e sarebbero almeno per un po’ ospiti del mio mondo. E io questo non lo voglio. Io voglio parità. Sono una persona fin troppo solitaria nella vita di tutti i giorni, per stare da solo, su un alto piedistallo, anche quando scrivo. E riguardo a questo spesso mi dico: “Se scrivo storie di buoni a nulla, con quale coraggio posso pubblicarle per case editrici grandi e importanti? Andare in giro. Fare interviste. Guadagnarci anche seimila, diecimila, cinquantamila euro. Con quale coraggio? Quale sarebbe il messaggio? Io parlo dei buoni a nulla, ma sono il contrario esatto del buono a nulla?”. Sarà un fatto normale, ma artisticamente non riesco ancora ad accettarlo. Mi sembra un’ipocrisia che farebbe passare le mie opere nella dimensione della serie B della serie B. No, no e no. Questa riflessione, tra l’altro, mi è maturata leggendo una quarta di copertina di un romanzo di Paolo Nori. Credo Bassotuba non c’è. Nella quarta c’è scritto “Io sono uno che non ce la faccio”. E va benissimo. Il problema è che se pubblichi per Einaudi, quella frase diventa un po’ stridente – ti fa sorridere, è ironica, è doppia. Io non voglio doppio. Io voglio io.

Così, più o meno pensando a queste cose, ho pubblicato per Las Vegas. Io pensavo a Landolfi e a Il fu Mattia Pascal. A Zeno Cosini. Stupidamente seguitavo a pensare nella mia dimensione di scrittore, di intellettuale, di pensatore, di persona che quantomeno si sforza di essere queste cose, probabilmente senza esserne all’altezza, anzi sicuramente, ma che quantomeno si sforza di essere meglio di quello che è. Invece avevo lì Malabaila, semplicemente se stesso. E se cercavo un gesto significativo lo aveva già fatto lui per tutti e due. Proprio aprendo una casa editrice che si chiama Las Vegas.

 

Sono stato due anni negli Stati Uniti. Sono anche stato un paio di volte a Las Vegas. Per me ha avuto il sapore di un pellegrinaggio. Mi ha spesso accompagnato un’immagine un po’ comica. Io e Umberto Eco che corriamo su una Cadillac nella strip di Las Vegas. “Si regga, professore! Adesso faccio un’accelerata fino al Cesar Palace”, ed eccoci sgommare per Las Vegas come in un film di Indiana Jones – con Umberto Eco nella parte di Sean Connery. Insomma, mentre visitavo mall su mall, piscine dopo piscine, alberghi e anche un paio di spaventosi motel, mi ripetevo che un uomo di cultura non deve visitare Notre Dame o sedere a leggere un libro nella Biblioteca Palatina di Parma. No, è a Las Vegas che deve andare. Los Angeles. Detroit. È lì che bisogna andare.

 

Quando sono rientrato in Italia avevo occhi nuovi e ho cominciato a notare con stupore un po’ di Las Vegas qua e là dappertutto. Un sacco di sale giochi dove prima non c’erano. Slot machines. A Salice al posto del B&B, un locale dove facevano piano bar e dove ho ricordi così belli che l’ho fatto diventare uno dei posti in cui si svolge la scena forse più importante del mio primo romanzo, adesso c’è un locale che si chiama Las Vegas. Sono tornato e c’era Las Vegas. Ci sono i Compro Oro. Quindi che cosa è successo? È successo che Malabaila ha compiuto un gesto restando dentro la sua età (d’accordo, non generazione, età). È stato un gesto orrendo e non l’ha cagato nessuno, ma è stato un gesto compiuto dentro la sua età, e adesso questo gesto è stato replicato ovunque. Las Vegas è la casa editrice. Las Vegas è il locale al posto del B&B. Las Vegas è le sale giochi ad ogni angolo di strada. È una situazione orribile. Però è la conseguenza naturale per chi vive in questa realtà. Una realtà dove c’è poco lavoro, dove c’è poca possibilità di realizzare le proprie aspirazioni. Una realtà che è stata dominata dalla non-etica della promessa e che è stata in gran parte un’illusione ottica. Solo che il riflettore adesso non funziona più come prima, l’immagine dell’illusione sta sbiadendo e piano piano sta venendo fuori la stanza nuda in cui le immagini erano proiettate.

 

La nostra non è una generazione e di questo ci si accorge se si prova a raccontarla. Io ci ho provato – sta per uscire una raccolta proprio sull’argomento dei bamboccioni. La cosa che subito mi è sembrata evidente è questa: se uno non ha un lavoro o ha un lavoro di merda, come fa a fare le cose? Come fa a prendersi un tè nel deserto o a fare l’impiegato di banca? Come paga l’affitto per vivere da solo? Insomma mi sono presto reso conto che, per raccontare la storia di chi riesce a fare tutto questo, è necessario raccontare… che cosa? È necessario raccontare la storia dei suoi parenti. Genitori, zie, vecchie cugine. Gente che gli passa dei soldi, gente senza la quale non potrebbe esistere come personaggio credibile nemmeno in una storia di finzione. Cazzo, figuriamoci nella realtà! Perciò tu parti per raccontare la storia del tuo eroe (d’accordo, è la storia di una persona forse un po’ mediocre, di una vittima, ma tu ci vedi del valore) e poi ti ritrovi a parlare del padre e della madre dell’eroe. Della zia dell’eroe. Della nipote ricca dell’eroe. Del coetaneo che ha trovato lavoro, ma grazie a una raccomandazione decisiva di un parente e allora va raccontata anche un po’ di storia di quest’ultimo. Ma quelli le loro rappresentazioni le hanno già avute, sono già stati protagonisti di un’altra letteratura, di un altro periodo, che cazzo ci fanno anche qui, in questa storia? Perché non se ne vanno? Cosa vogliono? Cosa cazzo vogliono?

Non c’è scampo. La storia della mia generazione è la storia di come gli appartenenti a un’altra generazione rendono possibile la sua esistenza.

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