L’efficacia semiotica / Paolo Fabbri: sulle immagini giuste

È uscito presso l’editore Mimesis L’efficacia semiotica, una raccolta di venti lunghe interviste a Paolo Fabbri, studioso dei linguaggi e dei segni del contemporaneo. “Leggendole una di seguito all’altra – scrive nell’introduzione di Gianfranco Marrone, curatore del volume – emerge molto chiaramente, a strutturare un materiale in apparenza variegato, il disegno di un preciso orizzonte di ricerca – quello della semiotica come teoria critica dei linguaggi e della significazione –, con alcuni punti fermi della teoria (lo strutturalismo, la testualità, il racconto, l’enunciazione, le passioni, la semiosfera), ben precise discipline di riferimento (antropologia, linguistica, teoria della comunicazione, storia dell’arte, critica letteraria), molte questioni fondamentali (la costruzione dell’empiria, la centralità della traduzione, l’esigenza della comparazione…), un certo numero di riprese tematiche (le strategie, i conflitti, il terrorismo, le arti, i media vecchi e nuovi, la poesia, l’immagine, la politica, le tecnologie, la moda, il camouflage, il segreto, la profezia, gli zombie), alcuni autori di riferimento (Saussure, Hjelmslev, Lévi-Strauss, Jakobson, Barthes, Greimas, Foucault, Deleuze, Benveniste, Lotman, Goodman, Thom), molti compagni di strada (Calvino, Lyotard, Baudrillard, Stengers, Latour, Jullien, Marin, Coquet, Calabrese), un certo numero di ossessioni (il futuro della semiotica, il confronto con Eco)”.

 

 

Pubblichiamo qui di seguito alcuni estratti di una conversazione con Riccardo Finocchi e Antonio Perri sulle immagini fotografiche.

 

Paolo, secondo te è corretto dire che la fotografia digitale, in quanto manipolabile fino a un grado di precisione tale che la realtà non è più propriamente ‘riproducibile’ ma ‘producibile’, sta modificando (o forse ha modificato già) il nostro rapporto con le immagini? ovvero che la fruizione e le attese di un ricettore non possono essere più le stesse dal momento in cui l’immagine è diventata elettronicamente modificabile?

Se rimaniamo all’interno del genere fotografia è fuor di dubbio: le immagini così generate non sono rappresentazioni di referenti ma presentazioni di elaborati. Nell’ambito della pittura un processo simile, la produzione di un ‘altro’ reale, iniziò a verificarsi a partire dal Rinascimento, quando la pittura raggiunse un altissimo grado di mimetismo grazie alla strategia prospettica e alla creazione di spazi illusionistici, ad esempio con il trompe-l’œil. Quando fu possibile operare con diversi tipi di forme proiettive e geometriche, si riuscì anche a rappresentare un centauro, raffigurando con precisione i dettagli dell’articolazione del corpo equino con il torso umano. Eppure non incontriamo spesso centauri se non appunto in rappresentazione, da Botticelli a De Chirico. Il proprio della pittura non è di aver rappresentato il ‘reale’ com’è e dov’è, ma di aver presentato come verosimili i prodotti della più libera immaginazione.

L’invenzione tecnica della fotografia ha alterato radicalmente questa problematica, e non soltanto nella nostra cultura. Sarebbe auspicabile un confronto sistematico con altri regimi della visione, per esempio con le culture islamiche, in cui la fotografia ha permesso di aggirare il divieto della riproduzione, ad esempio, della figura umana. Il teologo e politico Abd el-Kader ha riconosciuto la riproduzione fotografica come differente dalla pittura – acheiropoietica? – e quindi non soggetta al divieto. O ancora, per riferirci ad altri sistemi culturali, in Cina l’arrivo della fotografia è stato sconvolgente: prima esisteva una teoria e pratica della rappresentazione tutt’altro che realistica, anzi dominata dalle figure del neutro e dell’allusione. Tornando a noi, ricordo che intorno al Louvre operavano moltissimi pittori che riproducevano le grandi opere del museo: tutti costoro, con l’arrivo della fotografia, smisero di dipingere; hanno continuato solo pittori che dipingevano altro e altrimenti. Comunque, in casi come questi, e restando nell’ambito artistico, l’arrivo della fotografia è stato dirimente. Quanto alle scienze, la fotografia a riproduzione meccanica ha incoraggiato dapprima un’epistemologia oggettivistica, mentre oggi le nanotecniche dell’immagine hanno ridefinito la nozione stessa di oggettività.

La fotografia meccanica ri-produceva il reale, sia pure in certi gradi e a specifiche condizioni che ci sono note e quasi naturalizzate: le difficoltà legate al bianco e nero o al colore, l’iscrizione della luce sul supporto dei sali argentati, i problemi relativi all’inquadratura, le questioni della distanza, i ‘veli’ che si potevano sovrapporre o sull’obbiettivo o addirittura sul referente, il supporto di stampa etc. Tuttavia il medium fotografico esibiva la proprietà, come dice esemplarmente Barthes (la citazione è esemplare: molti altri hanno detto lo stesso), di “conservare” il ça a été, l’inesorabile, fatidica presenza di quanto è accaduto. È chiaro che il cambiamento della tecnologia ha prodotto una trasformazione complessa, giungendo a poter farci vedere quel che non c’è (al livello della percezione usuale) e quello che c’è più e meglio di quanto esso sia. In altre parole, l’iperrealismo della fotografia è più interessante della sua dimensione fantastica: può rendere più vero quello che era solo, potremmo dire, banalmente vero. Questo, però, era già avvenuto prima del digitale (con i filtri, ad esempio). Chiaramente, nel confronto tra le due tecniche (quella analogica e la digitale), ciò che cambia non è tanto la qualità fotografica – anche se si può immaginare che un occhio esercitato veda la differenza, come al cinema l’immagine su celluloide e quella digitale –, quanto le differenze sul piano della significazione. Oggi, infatti, col passaggio dalla paleo- alla neo- fotografia è diventato possibile creare dei veri mondi trompe-l’œil in cui però non si tratta più di ingannare l’occhio, ma di moltiplicare il significato – dall’uso euristico nelle scienze alla convergenza con le arti, fino al più smaccato tecnokitsch. In effetti, il comportamento della materia a scala degli atomi o di remote galassie si è aperto allo sguardo esteso dai microscopi elettronici e telescopi giganti, per non parlare dell’immaginario – del dizionario di immagini – medico e biologico. Il trattamento elettronico dell’immagine attraverso falsi colori, accentuazione di contrasti, distorsioni calcolate genera un flusso ininterrotto di immagini che permettono di sperimentare meglio dei dati concreti. La facilità della loro trasposizione ne ha facilitato il passaggio nei media e incoraggiato strampalate pretese artistiche: il tecnokitsch, per l’appunto.

Eppure la fotografia digitale è in grado di compiere operazioni artistiche rilevanti, come ristipulare i nostri contratti di veridizione. Un esempio: nel 2007 a Venezia la Fondazione Giorgio Cini organizzò un convegno internazionale dal titolo Ereditare il passato, a cui ho partecipato insieme a Carlo Ginzburg, Bruno Latour e altri, in concomitanza con la mostra Il Miracolo di Cana, l’originalità della ri-produzione. Adam Lowe, su incarico della Fondazione, aveva scanneriz­zato pixel per pixel le Nozze di Cana del Veronese, al Louvre. Com’è noto, il dipinto del Veronese era stato tagliato in diverse parti, poi per volontà di Napoleone, arrotolato e spedito al Musée du Louvre dov’è attualmente collocato davanti alla Gioconda. Per mesi Lowe ha scannerizzato la tela fino a ottenere una simulazione talmente sofisticata che originale e copia non sono distinguibili a un occhio non esercitato (qui del resto si apre un altro problema: cosa significa vedere un’opera a occhio nudo piuttosto che con occhiali o microscopio, tecniche che ne cambiano radicalmente la percezione?).

Quando la riproduzione-simulazione fu presentata ai veneziani nel chiostro di San Giorgio, nel luogo da cui era stata staccata, gli spettatori sbalordirono davanti a un oggetto che era sì simulato, ma più o diversamente vero dell’autentico. Infatti, la grandissima tela in origine era murata, tenuta dalla calce, mentre oggi al Louvre è tenuta in tensione da una cornice dorata, larga più di un metro, che mantiene il dipinto all’altezza, diciamo, del corpo di una persona. Ricollocato nella posizione originale, nel chiostro di San Giorgio, la Cena è senza cornice e a un’altezza superiore ai due metri da terra. Inoltre al Louvre c’è una luce zenitale, mentre nella posizione originale l’illuminazione era stata progettata da Palladio affinché giungesse dai lati, destra e a sinistra della tela. Ovvio allora porsi la domanda: quale delle due opere è la più originale? l’originale falsificato dal contesto museale o il fac-simile ‘verificato’ dal contesto originale? Rammentiamo che la ‘resa’ di Lowe risolve un annoso problema politico-culturale. Dall’asporto napoleonico, il governo italiano ha continuato a domandare la restituzione dell’opera, senza farsi troppe illusioni; nel frattempo sono stati fatti diversi tentativi sostitutivi, attraverso proiezioni, mostre di copie e così via. Ora, con questo accuratissimo simulacro, si colma questa mancanza che ha per certi versi ossessionato la vita culturale veneziana. È possibile ammirare un oggetto contestualizzato che, per certi aspetti, è altrettanto vero di quello esposto al Louvre. Al livello, beninteso, dei suoi effetti di senso.

Questo esempio per certi versi è paradossale, ma sappiamo che ogni teoria deve in qualche modo sfidare la realtà e non limitarsi a riprodurla; quindi l’esempio deve rispondere alle nostre istanze, e alle domande che le motivano, nel nostro caso lo spostamento delle istanze veridittive provocate dalle nuove tec­nologie. La risposta è che nel Louvre abbiamo un vero falso Veronese mentre a Venezia, nel chio­stro di San Giorgio, abbiamo un falso vero Veronese. Il primo ‘autentico’, il secondo ‘veridico’? Agli spettatori l’ardua sentenza.

 

Paolo Veronese, Le nozze di Cana.


È corretto chiedersi se sussista ancora un valore testimoniale delle immagini? Detto diversamente, cosa accade a ciò che potevamo ritenere essere un concetto indissolubile dell’immagine fotografica, ovvero che è testimone di un qualcosa di vero-reale-accaduto? cosa rimane, per tornare a Barthes, dell’‘è-stato’?

Quello che ‘è stato’ è decisamente l’aspetto meno interessante. Dovremmo trasferire alla fotografia la proposta artistica di Nelson Goodman, il quale si preoccupava non del che cosa ma del quando. In altre parole, non ci si deve porre la domanda se sia possibile un ‘è stato’ inequivocabile, ma occorre interrogarsi quando si può stabilire – in condizioni singolari di ricostruzione – il riconoscimento di un funzionamento corretto della fotografia. Si deve insomma lavorare sull’affidabilità, non sulla verità. Naturalmente, questa posizione è anti-antirelativista, ma è tutt’altro che pigra. Semmai è pigro dire “quella cosa lì somiglia a quell’altra cosa lì”, a “quella cosa lì che c’era” – perché le falsificazioni, le invenzioni, gli errori, i cambiamenti di prospettiva sono moneta corrente dell’immagine. Quel che ci interessa davvero è la correttezza della testimonianza, che esige un complicato lavoro costruttivo.

Prendiamo un esempio recente, a vocazione scientifica stavolta, e relativamente noto. Si è molto discusso su problemi di neuroestetica: in particolare Semir Zeki ha cercato di stabilire (con successo di pubblica opinione) la localizzazione – tra le varie zone del cervello – di una ‘centrale’ dell’odio. Si dà il caso che Zeki abbia scoperto, come Ovidio e i Romantici, che tali localizzazioni coincidono con quelle in cui l’apparato sperimentale colloca l’amore, l’amor platonico nell’accezione anglosassone del termine. Interroghiamoci sul dispositivo sperimentale della scoperta. Zeki ha utilizzato la fotografia: ha chiesto a un certo numero di persone (qualunque) di portare foto di persone odiate; dopodiché ha messo in opera le apparecchiature necessarie a realizzare un brain imaging dei soggetti e, infine, predisposto il rilevamento dell’attività cerebrale, ha mostrato a ciascuno di loro la fotografia della persona odiata. Non è il caso di porsi il problema della localizzazione cerebrale: se il cervello sia modulare o fatto di gradienti, e ammettiamo senza esitare che la foto delle meningi sia corretta. Credo però che, prima di accettare supinamente i risultati di queste condizioni dette sperimentali, vada analizzato il protocollo, il quale non è un’evidenza obbiettiva che testimonia di per sé, ma una costruzione, un far sì che l’oggetto diventi un testimone. In questo caso, si dovranno anzitutto osservare le attività necessarie per affermare che l’oggetto – nel caso la fotografia – testimoni in maniera affidabile che il soggetto analizzato, guardando proprio quella fotografia, riconosca in essa una persona odiata. Inoltre bisognerà accertare che in quel momento preciso, il soggetto odia quella persona come la odia di solito; infine occorrerà stabilire che odia proprio la persona, non la sua foto (un rompicapo semiotico: c’è differenza tra mostrare una statua di Cesare e dire “quello è Cesare”: tutti saranno d’accordo che la statua è di Cesare, ma tutti sapranno anche che quello non è Cesare). Ammettiamo che tutti i soggetti provino lo stesso sentimento definito dalla parola inglese ‘hate’. Senza infierire su Zeki, bisognerebbe anche sapere com’è questa fotografia: per esempio il suo formato, se è in bianco e nero o a colori, se è una figura intera o un dettaglio, se il volto è di profilo o frontale, se c’è uno sfondo che la contestualizza o se ha un fondo grigio, da fototessera. Insomma, per riuscire a far sì che quell’immagine testimoni qualcosa, è necessario costruire un protocollo sperimentale appropriato e affidabile. Dunque il problema è semmai stabilire che la persona nella fotografia utilizzata sperimentalmente è una persona abitualmente odiata al momento della rilevazione sperimentale: ma come si fa testimoniare l’immagine? La risposta al ‘che cosa’ è, ancora una volta, ‘quando’, e il problema della verità si sposta al problema dell’affidabilità del protocollo, che è lungi dall’averci persuaso.

La testimonianza va presa sul serio, come fa il decalogo biblico: non dire falsa testimonianza – anche se non ha lo stesso peso di altri comandamenti. Vanno quindi scrupolosamente costruite le condizioni di affidabilità della testimonianza – ossia, bisogna identificare il come e il quando. Di recente è uscito su E/C un articolo a firma mia e di Tiziana Migliore dedicato a una celeberrima immagine del ’77: uno sparatore solitario che punta l’arma in strada nel corso di una manifestazione. Nella pubblicazione sulla stampa la foto era stata scontornata dal contesto di ripresa. Nell’articolo di E/C, invece, si è lavorato su un corpus di immagini, costituito dalla serie delle fotografie nelle quali si vedeva uno sparatore niente affatto solitario, anzi membro di un gruppo di fuoco; a sua volta il gruppo di fuoco era parte di una folla che ripiegava dinanzi all’avanzata della polizia, invisibile perché non inquadrata. Inoltre si è potuto appurare che lo sparatore aveva sparato e un poliziotto era morto, ma che a colpire quest’ultimo era stato un altro sparatore – ben visibile in una diversa fotografia. Anche in questo caso ci interessa l’operazione di scontornamento del reperto fotografico, non il problema referenziale. In un articolo uscito a suo tempo su L’Espresso infatti Umberto Eco aveva scritto, in relazione a quell’immagine, qualcosa come: “siamo davanti al Far West, a uno sparatore solitario, a Clint Eastwood, siamo fuori dalla tradizione iconografica della sinistra, la quale può essere vittima, ma non assassina”. L’analisi della fotografia non aveva l’intento di smentire Eco – nella tradizione della sinistra europea c’è tutta un’iconologia più o meno spuria di anarchici che sparano. L’uomo con l’arma in pugno è una figura fondamentale di un immaginario anarchico, ben più che gli sceriffi del West o l’ispettore Callaghan. L’intento del nostro articolo non era neppure stabilire quale sparatore ha sparato e ucciso; valutazione necessaria perché si faccia giustizia. Ci interessava l’effetto prodotto da quella fotografia in quanto ritagliata dal suo contesto, isolata rispetto alla sua relazione al corpus delle altre fotografie scattate. Inserita in un altro insieme testuale, la foto avrebbe detto un’altra cosa e, con quello che le si è fatto dire, ha ottenuto un’efficacia performativa specifica. La fotografia dello sparatore in sé soltanto non pone problemi di verità: se ponesse problemi di referenza sarebbe una fotografia ‘falsificata’ da montaggi o altre forme di manipolazione. È un’immagine efficace al punto di diventare un’icona degli anni di piombo, quelli da scontornare dalla nostra vita politica. Trae la sua forza oltre che il suo significato non dalla verità, ma dall’appropriatezza, dalla giustezza. “Il n' y a pas d’image juste, mais juste une image”, diceva Godard – giusto un’immagine, dunque, non un’immagine giusta. Chiediamoci allora: bisogna cercare l’immagine giusta o soltanto l’immagine? Juste l’image, in definitiva, vuol dire un’immagine irrilevante; ma l’immagine giusta, quella sì che conta. E l’immagine giusta va costruita e riconosciuta come appropriata, e può così diventare efficace o inefficace. Come sostiene Nelson Goodman, alle immagini non va applicata la dicotomia true/false ma right/wrong, cioè ‘giusta’ o ‘sbagliata’: ci sono immagini giuste e immagini sbagliate, appropriate o inappropriate. Se siano vere o false, questo riguarda un altro regime discorsivo, quello denotativo – ridotto e peculiare quanto al suo funzionamento – su cui i logici hanno ragione di sbizzarrirsi; senza pretendere però che sia quello il solo regime di senso nel vasto mondo dell’icona. Nella versione abituale della semiotica viene prima l’atto locutorio, poi l’illocutorio e il perlocutorio: prima la verità referenziale, poi le altre forze. Le cose non stanno così: la forza dell’immagine sta nell’essere ‘appropriata’ alle circostanze e nell’appropriarsi dei suoi effetti. Esiste anche la forza della veridizione, naturalmente, talvolta, ma non sempre, pregnante ed efficace. Anche la foto dello sparatore era questione di appropriatezza e inappropriatezza, e averle manipolate e descritte in una certa maniera ha reso le immagini politicamente salienti ed efficaci: minaccia di guerra civile, isolare degli estremisti, e così via.

 

Nella contemporaneità stiamo indubbiamente assistendo a una progressiva virtualizzazione del mondo, cioè un’espropriazione del reale-vero-naturale che viene sempre più affiancato e/o definito da simulacri-virtualità-immaterialità e via dicendo. In questo processo come si colloca e come si integra la digitalizzazione (e manipolazione) dell’immagine? Ovvero: è costituente? È conseguente? È un diverso problema?

Non esageriamo nel definire il nostro come un periodo di dematerializzazione. Nel traffico siamo sommersi ancora dalle lamiere. Certo, si tratta di nuove forme di vita che integrano le innovazioni socio-tecniche e nuove strategie per fare il collettivo. Ed è altrettanto certo che per il carattere immersivo dei media siamo entrati nell’era degli spettri – per Derrida viviamo “tra i fantasmi” degli uomini e delle cose. Va ricordato comunque che la cultura europea, forse più di altre, ha nutrito una salda fede nel carattere irreale del mondo materiale e in quello realistico del mondo spirituale. Nel mondo medioevale le entità materiali erano illusorie e prive di valore: mentre Dio, puro spirito, godeva del massimo di realtà. Un periodo a forte inclinazione naturalistica è stato l’Illuminismo, quando il cielo veniva davvero pensato come qualcosa da studiare (persino Galileo sosteneva che bisogna cercare il modo come si veda il cielo, e non il modo come vada il cielo). Oggi “andare al cielo”, invece, può significare inviare nello spazio siderale una navicella (il Pioneer) con una placca metallica sulla quale sono incise, insieme a diagrammi numerici, immagini “analogiche” di uomini e donne, nella speranza che altri inimmaginabili esseri viventi le riconoscano per decifrarle. Singolare è che l’autore delle immagini, un divulgatore come C. Sagan, abbia pensato che quel testo visivo fosse direttamente leggibile e referenzialmente decodificabile, ingenuità confutata da un saggio tanto ironico quanto noto di Ernst Gombrich. Si ricordi che le figure disegnate sulla placca appaiono piatte, e ci vuole una forte dose di convenzionalità, troppo umana e culturalmente situata, per credere che alcune si trovino davanti e altre dietro le prime. Nello stesso spazio visuale è raffigurata la navicella stessa: il Pioneer, che appare due volte: è disegnato prima come un oggetto piccolo, immerso in un diagramma dei pianeti del sistema solare rispetto al quale è in proporzione infinitamente più grande; poi figura anche dietro alle due figure umane presenti – uomo e donna nudi e dai tratti piuttosto caucasici – proporzionato rispetto alla loro taglia. Insomma l’immagine sulla placca è altamente convenzionale: non solo per un l’ipotetico osservatore extragalattico, ma, probabilmente, anche per un lettore medio umano e a noi contemporaneo.

Così, ammesso e non del tutto concesso che ci aggiriamo in un mondo di spettri, il punto per il semiologo, aduso ai simulacri, è un altro: è poi vero che c’è un (solo) mondo reale/naturale (anche se complesso a piacere) e tantissimi altri mondi possibili? E se fossero reali tutti i mondi possibili che siamo capaci di inventare, cioè di attualizzare, poi di realizzare? Una fotografia manipolata, la quale fa apparire una cosa che non esiste, oppure la pittura che mostra un centauro non sono forse reali? E se il mondo cosiddetto reale fosse soltanto uno tra i tanti mondi reali, diversamente percepito? Inoltre, come abbiamo già visto con Le nozze di Cana, il simulacro può sembrare anche più reale del reale: iperreale. Insomma, una scelta semiotica coerente ci chiederebbe di asserire che la teoria dei mondi possibili, in quanto presuppone l’esistenza di un mondo reale da una parte e di mondi possibili dall’altra, è inadeguata. La scienza per esempio attualizza nelle invisibili grandezze teoricamente zavorrate di cui postula la realizzazione (neutrini o particelle di dio). Dovremmo allora rovesciare l’ipotesi, e ritenere che tutti i mondi immaginabili abitati dalla nostra vita sono mondi reali. Ancora un esempio: noi vediamo il sole che gira intorno alla terra ma non il contrario – anche se nel mondo, per qualcuno, ciò è ancora possibile e reale. D’altro canto noi crediamo anche che sia la terra a girare attorno al sole, dacché crediamo a teorie scientifiche che dimostrano che le cose stanno così. Senza porci il problema di come si presenterebbe il problema per un abitante della Luna, diremmo dunque che i nostri cosiddetti mondi reali sono infiltrati di possibilità, e i cosiddetti mondi possibili sono tali solo perché riferiti a un mondo reale presunto. Di qui siamo a dire che tutti i mondi sono reali, quindi la fotografia contemporanea opera con l’onnirealtà del mondo…

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