Fanny & Alexander

2 Giugno 2011

Di norma, di uno spettacolo si legge un programma di sala. E di una mostra un catalogo. Del lavoro degli ultimi quattro anni del gruppo teatrale di Ravenna “Fanny & Alexander” (al secolo Chiara Lagani, dramaturg e attrice, e Luigi de Angelis regista: meno di 75 anni in due ma sulle scene da 18…) ci viene invece proposto un Atlante. Anzitutto perché non di un semplice spettacolo si tratta, bensì d’un “viaggio teatrale” in dieci tappe. Da Dorothy. Sconcerto per Oz, all’inizio del 2007, a West, andato in scena alla Cavallerizza di Torino lo scorso giugno e ancora in tournée nei prossimi mesi. Ma on the road da sempre è la vita dei teatranti. Il vero “viaggio” è quello all’interno del testo di F&A, nonché il nostro nel loro continente di immagini ed enigmi.

 

Il “testo” è Il mago di Oz: la fiaba pubblicata nel 1900 da L. Frank Baum e soprattutto il film diretto nel 1939 da Victor Fleming (con la sedicenne Judy Garland nei panni di Dorothy): un territorio attraversato a tutti i livelli e in tutte le direzioni, con un grado di “perversione” ermeneutica che può ricordare quello di Giorgio Manganelli in Pinocchio o di Vladimir Nabokov nell’Evgenij Onegin (e infatti il “viaggio” precedente di F&A s’era addentrato nell’“Antiterra” di Ada o ardore,proprio di Nabokov). In questo modo gli spettatori sono costretti a essere complici dello spettacolo: farsi parte attiva, cioè, del suo senso. Che è quanto accade pure con le fiabe. Specie quando le rileggiamo da adulti, accorgendoci che l’innocua parabola d’un tempo ci rivela – a distanza – una parte profonda di noi stessi. Intervistata dal collettivo Altre Velocità (nel loro volume Un colpo, appena uscito da Longo: pp. 64, € 15,00) dice Chiara Lagani: il mito è uno “specchio in cui si scorge all’improvviso il proprio volto”, in un processo che “riattiva l’archetipo, lo svela e lo fa rinascere”. In tempi di sempre più uggiosa estetica del documento e del “fatto vero”, è questo – dicono F&A – un ben più profondo “realismo psichico”. Che, anziché imporre a tutti la stessa realtà (cioè lo stesso stereotipo), a ciascuno evoca la propria realtà.

 

 

Ma così si comportano altresì – spiegava il grande Aby Warburg – le immagini del passato, le quali sopravvivono come pathosformel: combinazioni di stimoli sensoriali e psichici che si riattivano a distanza. Ecco perché l’Atlante di O/Z – come quello a suo tempo composto da Warburg con Mnemosyne (con in più un gusto destrutturante e combinatorio che rinvia a S/Z di Roland Barthes) – è una serie di 37 tavole: più immagini sovrapposte e una parola-titolo che evocano le “immagini attive” del film di partenza (per esempio il Ciclone – che trascina Dorothy dal suo Kansas in bianco e nero al mondo a colori di Oz – richiama opere visive di Hans Bellmer e Louise Bourgeois, ma anche l’acconciatura “a vortice” di Kim Novak in Vertigo di Hitchcock). Dopo di che 37 complici illustri (teatranti, artisti, critici e studiosi: da Stefano Bartezzaghi a Marco Belpoliti e Goffredo Fofi, da Stefano Chiodi a Elio Grazioli e Antonella Sbrilli, da Fabrizio Arcuri a Ermanna Montanari e Teatrino Clandestino) intervengono a commentarle. Ogni tavola è un test: per loro come per noi, a distanza.

 

L’effetto è quello di un continuo s / paesamento. Atterrati nel mondo del sogno (rispetto al libro, il film fa coincidere i magici aiutanti della ragazza – l’Uomo di Latta, il Leone Fifone, lo Spaventapasseri – con le figure “reali” della sua vita diurna: e del resto l’anno del libro è lo stesso dell’Interpretazione dei sogni di Freud…), dice Dorothy al suo cagnolino: “Toto, ho l’impressione che noi non siamo più nel Kansas”. Eppure il sogno non fa altro che svelarci la nostra vita, la fiaba il nostro presente. Infatti solo adesso si capisce perché ai due capi del “viaggio” – e nelle due copertine del suo “atlante” – ci siano figure così distanti come il piccolo Hitler che F&A hanno ricalcato su Him di Maurizio Cattelan e la Dorothy cinquantenne e stressatissima di West (impersonati, in due formidabili prove d’attore, da Marco Cavalcoli e da una Francesca Mazza perciò insignita del Premio Ubu). Mentre il primo “dirige” un’orchestra immaginaria che “esegue” l’intero film, la seconda viene “diretta” da ordini sempre più pressanti. L’Occidente è un Mago che dovrebbe salvarci, ma si rivela un Mistificatore che ci urla ordini. Spiega però Massimo Recalcati – in quella che è forse la tavola-chiave – che il totalitarismo di oggi non è più quello scenografico (e “teatrale”) del ’39. Come il nostro presente esso è microscopico, reticolare, onninvasivo: “il nuovo leader, il leader senza pulpito, è solo davanti allo specchio. Il suo cinismo è una forma estrema di narcisismo”. Il Mago che dobbiamo smascherare, l’Hitler che dobbiamo riconoscere puerile e risibile, è quello chiuso dentro di noi. Alla Strega Cattiva dell’Ovest, che ci intima “Arrenditi Dorothy!”, dobbiamo fare di tutto per non arrenderci. È tempo di partire per un altro viaggio.

 

 

Fanny & Alexander, O/Z. Atlante di un viaggio teatrale, edizione bilingue italiana e inglese, Ubulibri, pp. 191, € 27.00.

Articolo apparso su ttl del 26 marzo 2011.

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