Gianluca e Massimiliano De Serio. Sette opere di misericordia

25 Gennaio 2012

Anche per chi non rammenta (o non ha mai appreso) i precetti della dottrina cattolica, le Sette opere di misericordia del titolo potranno almeno evocare la celebre tela di Caravaggio: una scena di strada napoletana, corpi affastellati e scolpiti da squarci di luce che ne sbalzano crudamente alcuni dettagli (il seno di una giovane, i piedi di un cadavere, una schiena nuda e inarcata), mentre un gruppo sacro, composto da una Madonna con bambino e due angeli, irrompe precipitosamente dall’alto.

Michelangelo Merisi ha spesso ricercato le figurazioni del divino in corpi umili e derelitti, immergendoli in un teatro contrastato di luci e ombre; i fratelli De Serio sembrano raccogliere questa ispirazione, facendo del loro primo lungometraggio di finzione un dramma di corpi e di luce, che sposta la scena da quell’affollato crocicchio a una periferia rarefatta e raggelata.

È la periferia torinese in cui vivono i due autori, tratteggiata da frammenti di spazi qualunque (corridoi di un ospedale o di un ipermercato, lotti spogli invasi da rottami o da una baraccopoli), evocata da un tappeto rumoristico sommesso e opprimente: un lavoro di prosciugamento e astrazione che fa di questi luoghi una frontiera antropologica, in cui presenze diversamente marginali si sfiorano e si urtano, si scambiano sguardi da cui traspare la ferocia di una vita nuda, ridotta all’osso e disperatamente aggrappata alla propria sopravvivenza.

 

 

In questo terreno esposto e senza ripari si disegna la traiettoria che congiungerà in un impatto violento e rivelatore due corpi-limite, incarnazioni di una miseria cieca e apparentemente senza sbocchi: il corpo inquieto e clandestino della giovane immigrata moldava Luminiţa, marginale anche nella stessa baraccopoli in cui è ostaggio dei propri ‘benefattori’, e il corpo fragile e medicalizzato del vecchio Antonio, sospeso tra la vita e la morte sull’orlo del buco che gli consente di respirare dalla gola.

Il piano della ragazza per liberarsi dalla propria condizione prevede di assumere l’identità di una morta barattandola con la vita del neonato che rapisce ai propri carcerieri. Alla ricerca di un luogo d’appoggio per concludere lo scambio, Luminiţa incappa in Antonio, lo pedina dall’ospedale fino alla sua abitazione, dove lo aggredisce e lo sequestra. Ma i traffici loschi in cui entrambi sono coinvolti porranno uno stallo all’operazione criminale, aprendo uno spazio di tensione ben più profondo, in cui ha luogo un’esperienza di umanità tanto estrema quanto le condizioni in cui essa avviene sembrerebbero negarne la possibilità.

 

 

La lotta tormentata tra la luce e le tenebre è un tema figurativo e morale che dallo stile pittorico di Caravaggio si trasmette sottilmente alla trama simbolica del film (molto più che alla sua fotografia, che persegue piuttosto un algido biancore). Dalla frase posta ad epigrafe (“O la luce è qui nata o, fatta prigioniera, ha qui libero regno”) al nome stesso della protagonista, dalla torcia che rischiara il suo volto nella prima inquadratura alla sfera fluorescente usata per placare il pianto del bambino, l’idea di una luce imprigionata nelle tenebre, e che proprio nel contrasto con le tenebre può rivelare la propria potenza, sembra rimandare alla situazione stessa dei personaggi, come se uno spiraglio di redenzione potesse palesarsi soltanto contro l’opacità di un mondo dominato dallo sfruttamento e dalla sopraffazione.

Ma questo chiaroscuro metaforico non si traduce in alcuna semplificazione manichea: siamo piuttosto immersi in una “zona grigia” del contemporaneo, in cui le rigide ripartizioni morali si fanno indiscernibili e sono interrogate nella loro consistenza. Ogni possibilità di simpatia sembra essere respinta dai volti duri e scabri dei personaggi, ogni tentativo di dare un nome a impulsi o ragioni ammutolisce di fronte all’evidenza del loro confronto animale. Ma forse è in questa relazione primitiva e carnale che va ricercata l’inscrizione di una condizione etica originaria, forse è proprio da qui che il nostro tempo potrebbe cominciare a riscrivere le proprie categorie.

 

 

Prendendo un soggetto potenzialmente a rischio, che in altre mani avrebbe fornito una ghiotta occasione per condire di stereotipi pietistici e umanitari un’accattivante trama noir, gli autori operano uno studiato dirottamento, rifiutando recisamente didascalie e spiegazioni, scardinando la potenziale suspense della narrazione e perforandola di ellissi e sospensioni.

Proprio nel momento in cui, con la scomparsa del bambino, l’azione sembrerebbe pronta a divincolarsi e fare un balzo, decidono invece di arrestarne il corso, concentrando tutta l’intensità del loro sguardo sulla rappresentazione, al contempo sacra e profana, che prende vita nell’impeccabile squallore scenografico dell’appartamento di Antonio. In questa atmosfera esitante e ovattata una trama di gesti elementari quanto misteriosi intesse così l’incontro impossibile tra due esistenze. Il film si avvolge in questo silenzio enigmatico, che potrà facilmente irritare alcuni, rischiando di apparire come un ermetismo sterile e compiaciuto; ma i De Serio sembrano decisi a correre questo rischio come presupposto indispensabile per la propria indagine, il cui oggetto ultimo non è un quadro sociologico, ma un sentimento, quello della misericordia, appunto.

Lo scaturire della pietas viene così individuato in un originario nesso corporeo, nel prendersi cura dell’altro facendosi carico del suo corpo manchevole e sofferente. In questa scena domestica sconvolta dalla violenza, i corpi che erano avvinghiati in una morsa cieca si abbandonano, si denudano, si aprono a un incontro vitale: affamati e bisognosi, essi reclamano un contatto attraverso gesti essenziali (il pianto del bambino, Antonio che si fa imboccare) e così facendo si espongono, si affacciano dall’oscurità della propria solitudine a ricercare una reciprocità, a tastare nell’altro quel pertugio in cui è andata a celarsi la sua umanità.

 

 

Quello dei De Serio non è un film facile: ruvido e sfuggente, non fa nulla per accoglierci, piuttosto ci coinvolge nel tormento del proprio rigore. E certamente non è esente da difetti.

La scelta di scandire le azioni con dei cartelli che richiamano le sette opere di misericordia corporale può apparire a volte pretestuosa e inefficace: quella che gli autori definiscono “ironia drammaturgica”, che sottolinea lo scarto tra la didascalia morale e le azioni spietate dei personaggi (e che gradualmente si dilegua per trovare una corrispondenza sempre più evocativa), rischia di presentarsi con la perentoria ingenuità di un teorema. In generale, la volontà di controllo della materia sembra a tratti cedere sotto il peso delle proprie ambizioni, ma manifesta la potenza di un occhio limpido e penetrante, che indaga implacabile il mistero racchiuso nei corpi e si abbandona al vuoto sfocato che li separa.

In un’intelaiatura fin troppo rigida si aprono allora squarci di un’intensità travolgente, come i volti contratti e annichiliti dei protagonisti trovano faticosamente la via per rendersi uno sguardo di apertura e inclusione. Così lo sguardo in macchina, che ci porge il volto ferito del giovane amico di Luminiţa, sembra suscitare l’irruzione di una luce avvolgente e abbacinante.

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