Ursula Meier. Sister

23 Maggio 2012

Al secondo lungometraggio, Ursula Meier conferma la sua abilità nel costruire le sue narrazioni su spazi conflittuali, sulle frontiere che i personaggi attraversano o da cui sono attraversati, sulle linee di fuga concesse o negate. Se nel primo Home (2008) era la direttrice orizzontale di un’autostrada a investire ed esasperare i conflitti latenti in una famiglia che abita ai suoi margini, in Sister la tensione segue la verticalità di una funivia, che segna la distanza tra un fondovalle misero e brullo e le luccicanti piste da sci del Vallese svizzero. Il casermone popolare, che si erge penosamente sotto quelle cime maestose, è la casa dove il dodicenne Simon e la sorella Louise vivono senza genitori o altro sostegno alla loro precaria esistenza. Lei, che perde lavori con la stessa facilità con cui recupera partner poco raccomandabili, sembra incapace di assumersi qualsiasi responsabilità nei confronti del fratello: la sua è una deriva inconcludente, di fughe e ritorni impulsivi, che le lasciano rappresa sul volto una smorfia in cui convivono cinismo e umiliazione. Simon, invece, punta in alto, a quel paradiso artificiale del turismo in cui ogni giorno s’infiltra come in un terreno di caccia, per strappare qualche brandello di benessere da rivendere a buon prezzo: arraffa tutto quello che gli capita a tiro, sci, giacche, zaini, guanti, che la gente lascia fuori dai rifugi, ritenendo forse inconcepibile una minaccia alla proprietà privata fra quelle altitudini di spensierata opulenza – è proprio la presenza incongrua di Simon a far intuire in questa consuetudine il sintomo di un pensiero classista.

 

 

L’attrezzatura tecnica da montagna suscita spesso un peculiare feticismo, investito non tanto sulla qualità estetica, quanto sul carattere di protesi dell’abbigliamento, come protezione e supporto in un ambiente ostile. Certo, Simon non sa nemmeno sciare e la sua competenza in materia deriva solo dall’esigenza di soddisfare le commesse degli occasionali ricettatori. Ma mentre si aggira, goffamente imbacuccato nella sua refurtiva, quel cumulo di vesti e accessori diventa anche per lui un diaframma che nasconde la sua identità di ladruncolo e gli consente di mimetizzarsi nel mondo degli eletti, al punto da illuderlo di potersi abbandonare ai desideri che in esso proietta. E proprio quando tenta di fare impressione su una turista inglese, in cui intravede un’irraggiungibile figura materna, Simon rivela tutta la sua sofferta oscillazione tra un’innocenza infantile che gli è ormai preclusa e l’ingenua tensione verso il mondo adulto, di cui riesce ad assimilare soltanto la fredda logica dello scambio economico: una soglia che viene resa con intensità sottile dall’interpretazione di Kacey Mottet Klein, che si è visto già in Home e attorno al quale la regista ha cucito il film.

 

 

Assorbito dalla sua tecnica di sopravvivenza, Simon si perde sempre più nel fascino degli oggetti, nella promessa di felicità che traspare dai colori vivaci degli sci e delle banconote, mentre i suoi saccheggi diventano sempre più indiscriminati, i prezzi a cui smercia la refurtiva fin troppo bassi. Si intuisce come in quell’accumulo compulsivo sia in gioco un bisogno ben più profondo, che non riguarda i pacchi di pasta e carta igienica con cui giustifica i suoi furti quando è scoperto, ma un ‘oggetto’, tanto vicino quanto impossibile da conquistare. La maschera adulta, che Simon si costruisce caparbiamente, rivela infatti la sua fragile artificiosità quando si specchia nel vuoto di affetto e volontà rappresentato da Louise: una voragine che inutilmente tenta di colmare con soldi e regali, fino alla scena raggelante in cui arriva a offrirle duecento franchi solo per dormire abbracciato a lei. I rapporti di potere tra i due sembrano rovesciarsi di continuo e la lotta ancora complice giocosa, con cui all’inizio si contendono un panino al salmone, è solo il preludio di un reciproco divorarsi, in cui i corpi si avvinghiano per lasciare gli animi sempre più distanti.

 

 

Su questo terreno arido, retto da istinti primari e relazioni reificate, è difficile non sentire l’impronta dei fratelli Dardenne: la regista di sicuro ne conserva l’asciuttezza, ma non l’impatto delle immagini né l’intenzione strutturale che i belgi sanno calare nell’umile trama dei loro racconti morali e che, specie nell’ultimo Il ragazzo con la bicicletta (2011), assume i tratti illuministici della fiaba. Anche le peripezie di Simon si tingono di accenti fiabeschi, dalla salita al castello tra le nuvole agli orchi e alle fate che si profilano nei volti dei suoi abitanti, ma ciò che viene negato è il compimento morale della fiaba, la sua spinta utopica. Fin dal suo doppio titolo, Sister o L’enfant d’en haut è un film scisso, che cela al suo cuore una lacerazione e una rivelazione capace di ribaltare ruoli e prospettive, nonché le attese e lo stomaco dello spettatore. Poche parole che sfuggono quasi per caso e imprimono un lancinante giro di vite, in cui il film trova tutta la sua forza e sa gestirla con sobrietà. Ma la sconvolgente semplicità della costruzione narrativa segna anche un limite, oltre il quale la cupezza della storia non può che infittirsi, lasciando i personaggi a disperdersi nelle loro desolate traiettorie. Se la deriva claustrofobica di Home finiva ingabbiata nella linearità del film a tesi, Sister è un congegno concepito per scardinarsi e, quindi, aprirsi con più libertà e generosità, anche se forse con meno fascino. La tensione si è spostata dagli interni di una famiglia disfunzionale all’esteriorità e alle disparità vertiginose che dominano il sociale, mettendo in questione le stesse funzioni nella famiglia: di essa non restano che frammenti disgregati, in cerca di un’identità.

 

 

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