Jensenmania: un mito della Silicon Valley

16 Luglio 2024

Mi sono accorto sul serio per la prima volta di Jensen Huang due anni e mezzo fa, mentre stavo scrivendo il mio libro Il dominio del XXI secolo, in cui ha un ruolo centrale l’azienda taiwanese di fabbricazione di semiconduttori, TSMC. La ragione sta in un appassionante video del 2017 di circa tre ore in cui il leggendario fondatore di TSMC, Morris Chang (nato nel 1931), modera un dibattito sul futuro della sua industria e dell’informatica circondato dai leader di grandi aziende: Qualcomm, ARM, ADI, Broadcom, ASML, Apple, NVIDIA. Il dibattito è tecnico, perché tutti si sono sforzati al massimo per l’occasione, il trentennale di TSMC, e tutti vogliono celebrare la leggenda vivente che è Morris Chang, il quale conduce la conversazione con la stessa disinvoltura di Pippo Baudo negli anni d’oro dei suoi Sanremo. All’analisi delle prospettive del mondo digitale si uniscono gli aneddoti. I titani dell’industria sono tutti eleganti, in giacca e cravatta, con un’eccezione: appunto, Jensen Huang, co-fondatore e amministratore delegato di NVIDIA, che indossa un giubbotto in pelle nero da motociclista. 

Tutti in posa per i 30 anni di TSMC, tutti in giacca e cravatta, e Jensen Huang col giubbotto in pelle.

Chi guarda il video per la prima volta, senza conoscere il soggetto, non può che essere disorientato: com’è possibile che un tizio vestito in quel modo abbia un eloquio così chiaro e preciso, mentre scorre le sue slide sul futuro dell’informatica, mentre spiega – nel 2017, non un anno fa – come e quanto stia crescendo e crescerà il mercato legato al deep learning, mentre parla dell’importanza dei suoi prodotti per i recenti premi Nobel in chimica e fisica? Allo stesso tempo, Jensen Huang diverte il pubblico raccontando di come ha conosciuto Morris Chang e di come è cominciata la loro partnership. Difficile non essere impressionati da quella performance. Come quasi tutti gli adolescenti degli anni ’90, pure io sapevo dell’esistenza di un’azienda chiamata NVIDIA, le cui schede grafiche erano importanti per i videogiochi, ma non avevo mai prestato davvero attenzione all’uomo col giubbotto in pelle. Non avevo ancora capito che, per farla breve, noi tutti viviamo nel suo mondo.  

Il momento in cui invece ho deciso che avrei scritto un libro sulla storia di Jensen Huang è stato poco più tardi, il 6 dicembre 2022, quando ho guardato la cerimonia della fabbrica di TSMC in Arizona conclusa da Joe Biden. Vari aspetti di commercio, politica e tecnologia si intrecciavano in quell’evento ma mi interessava capire soprattutto una cosa: nella cerimonia a cui avrebbe partecipato il presidente degli Stati Uniti, Jensen Huang avrebbe indossato il giubbotto in pelle oppure si sarebbe messo in giacca e cravatta? Ovviamente, è andato sul palco in Arizona col giubbotto in pelle e ha pronunciato il suo discorso, dicendo subito che, per reverenza nei confronti di Morris Chang, ormai novantunenne, avrebbe letto un testo scritto. Nel suo breve testo, l’uomo col giubbotto in pelle fornisce tra l’altro una delle migliori definizioni della struttura organizzativa di TSMC, incentrata sulla capacità di generare continua fiducia nei clienti e nei fornitori. Ma questo filone ci porterebbe troppo in là, nell’esplorare la relazione tra NVIDIA, TSMC e le altre aziende da cui dipendono le nostre vite e nella spiegazione delle loro attività, del loro primato, dei loro rischi. Parliamo invece del look di Jensen Huang, e cioè del suo giubbotto in pelle.   

Jensen (Jen-Hsun) Huang, nato nel 1963 a Taiwan ed emigrato negli Stati Uniti a meno di dieci anni, co-fondatore e amministratore delegato di NVIDIA dal 1993, indossa quasi sempre un giubbotto in pelle da motociclista. Ciò significa, tra l’altro, che sta tranquillo all’aperto col suo giubbotto in pelle nei mercatini del Sud Est Asiatico, mentre attorno a lui la gente con una leggerissima t-shirt di lino sta annaspando. A volte, però, posa il giubbotto in pelle e lui stesso distribuisce borracce d’acqua per assicurarsi che tutti siano idratati. 

Anche per il fatto che vado a correre tutti i giorni, ho ascoltato alcune centinaia di ore di discorsi di Jensen Huang negli ultimi due anni, ma non posso dirimere con certezza la questione dell’origine del giubbotto in pelle: qualche volta l’amministratore delegato di NVIDIA dice che gliene ha comprato uno la sua adorata moglie conosciuta in Oregon, Lori, e gli stava bene, altre volte dice di averlo preso lui per la prima volta, e poi ci sono altre varianti secondarie.  

Quello che conta, nella storia delle immagini che leghiamo alla tecnologia, è che l’uomo che da più di trent’anni guida l’azienda al vertice dei processi attuali, e riconosciuta come indispensabile per ciò che ora chiamiamo “intelligenza artificiale”, indossa quasi sempre un giubbotto in pelle. Che senso ha e quale ruolo riveste nella Jensenmania, ovvero nell’attenzione crescente per questo personaggio esplosa in corrispondenza all’esplosione della valutazione della sua azienda, che il 18 giugno 2024 ha perfino superato brevemente Apple e Microsoft, issandosi al vertice mondiale della capitalizzazione?  

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Jensen e Lori Huang nella loro alma mater, Oregon State University. 

Una prima chiave di lettura è che Jensen Huang vuole essere Steve Jobs, l’uomo della tecnologia contemporanea riconoscibile subito per il suo look. 

Il dolcevita scuro (indossato in genere da Jobs con jeans e sneakers) ha le sue radici nei rapporti tra Stati Uniti e Giappone tra anni ’70 e anni ’90, una delle relazioni più importanti per comprendere molti temi cruciali nel nostro tempo, dall’industria dei semiconduttori alla crisi della manifattura statunitense, passando per Donald Trump e per le mosse e contromosse di politiche industriali e sanzioni tra Pechino e Washington. Jobs era un grande amante di Sony e dello stile Sony, e nel suo incontro all’inizio degli anni ’80 con Akio Morita (co-fondatore dell’azienda e protagonista della “guerra culturale” nipponica verso gli Stati Uniti) nota le uniformi realizzate per i dipendenti Sony da uno stilista Issey Miyake, vincitore tra l’altro del Compasso d’Oro nel 2014 per la sua collezione realizzata per Artemide. 

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Issey Miyake e Akio Morita. 

Così scocca una scintilla tra Jobs e Miyake. I dolcevita accompagnano Jobs nelle sue performance alle conferenze per gli sviluppatori e per le presentazioni dei vari prodotti (chiamate “Stevenote”, da Steve e keynote). E soprattutto, i dolcevita (anni prima di essere indossati dalla truffatrice Elizabeth Holmes, ma per rispetto verso Miyake dimentichiamo questo dettaglio) raccontano il corpo di Jobs che cambia, con gli effetti della malattia. Nella nostra esperienza dell’oggetto-telefonino, nell’era degli smartphone sempre più fatta di immagini, di video, di colori, risiede così un’immagine tragica: quella di Steve Jobs che deperisce sempre di più nel suo dolcevita, e infine muore. La macchina di Apple, tuttavia, la supply chain rappresentata da manager come Tim Cook e Jeff Williams, gli sopravvive, e diviene anzi sempre più efficiente. Nel suo percorso, tuttavia, non c’è più un volto iconico. Tim Cook può essere perfino ospite del podcast di Dua Lipa, tra un incontro e l’altro coi capi del Partito Comunista Cinese, ma non diverrà mai un’icona pop. E nessuno sa chi sia Jeff Williams, ospite d’onore al trentennale di TSMC e al cinquantennale di Foxconn, anche se senza Foxconn non esiste lo smartphone di Dua Lipa. La macchina è senza volto e ricordiamo solo il dolcevita di Steve Jobs. 

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Tim Cook ospite del podcast di Dua Lipa. 

Jensen Huang crede in effetti di essere Steve Jobs. È da molto tempo convinto di avere in mano un super-prodotto che determina un’epoca del commercio e della tecnologia e che quindi può rendere la sua azienda centrale come lo è stata Apple. Il suo giubbotto in pelle, in questo senso, echeggia il dolcevita di Jobs. Ma il giubbotto in pelle non deve adattarsi più di tanto ai cambiamenti del suo corpo. Sono passati più di trent’anni dalla nascita di NVIDIA e in questo secolo Jensen Huang e il giubbotto in pelle sono divenuti una cosa sola, eppure lui non è molto cambiato. Il suo peso talvolta oscilla un po’, anche per i suoi allenamenti, e i capelli sono divenuti bianchi. Al contrario dei dignitari del Partito Comunista Cinese e di molti altri sessantenni, Jensen Huang non si tinge i capelli. Gli anni passano ma non più di tanto. L’aspetto rimane giovanile, non c’è nessuna tragedia da comunicare, il giubbotto in pelle non può essere abbandonato. 

Veniamo ora alla seconda chiave di lettura del senso del look di Jensen Huang. L’ascesa di NVIDIA significa anche che, con lui, il profilo della potenza tecnologica degli Stati Uniti ha assunto un certo aspetto, quello di una persona che è nata a Taiwan e che sa esprimersi in cinese, e che è un esempio plastico dell’egemonia statunitense nell’attrazione dei talenti. 

Si sottovaluta la potenza di questo messaggio verso una comunità cruciale per il successo degli Stati Uniti, quella asiatica americana, anche perché si sottovaluta il ruolo da protagonista dei ricercatori, degli operai e degli imprenditori dell’Asia orientale, che oltre a essere il centro manifatturiero del pianeta è anche il luogo da cui proviene la maggior parte dei talenti che ha di recente alimentato lo sviluppo della frontiera informatica degli Stati Uniti. Da Singapore a Taipei, da Shenzhen a Hanoi, enormi masse di giovani studenti vedono un leader della tecnologia che assomiglia a loro e si preparano ad acclamarlo. È quindi importante, seppur doloroso, ricordare che, mentre noi magari stiamo parlando di Charles Michel che litiga con Ursula von der Leyen, oppure dell’ultima dichiarazione del Generale Vannacci, c’è una vastissima parte del mondo, il centro del mondo industrializzato e il maggiore bacino di talenti del pianeta, che sta pensando ossessivamente a Jensen Huang (oppure a Lisa Su, l’amministratrice delegata di AMD, che tra l’altro è sua cugina). Ci sono altri fattori nella competizione mondiale, ma basterebbe questo per capire l’essenziale.  

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Jensen Huang circondato dai fan a Taipei. 

Nella Jensenmania, un mito della Silicon Valley viene messo da parte: quello del dropout. C’è tutta una mitologia della controcultura tecnologica statunitense per cui non completare gli studi per fare una startup è una medaglia, con numerosi e variegati esempi: dallo stesso Jobs a Bill Gates, ovviamente, da Mark Zuckerberg a Sam Altman. Un animatore delle guerre culturali degli Stati Uniti, Peter Thiel, anche se si è laureato a Stanford, finanzia da molti anni le iniziative affinché gli studenti brillanti abbandonino l’università per creare aziende. 

Jensen Huang è la più potente negazione di questa narrazione: dopo la precoce laurea in ingegneria in Oregon, segnata dalla frase “vuoi venire a vedere i miei compiti?” per rimorchiare, mentre lavorava e cresceva i figli avuti con Lori, la collega di ingegneria che è effettivamente andata a vedere i suoi compiti, ha continuato a studiare per prendere un master a Stanford, mentre lavorava nelle aziende di ingegneria elettronica, prima di fondare la sua azienda. Le figure chiave dell’ascesa di NVIDIA hanno tutte solidissime credenziali accademiche e la competenza tecnica dello stesso Jensen Huang è innegabile: è lui che vuole avere costanti confronti, pubblici e privati, coi principali scienziati e ricercatori delle discipline rilevanti per il futuro dell’azienda. 

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Jensen Huang discute con Ilya Sutskever, uno dei principali ricercatori di deep learning ed ex chief scientist di OpenAI. Huang indossa il giubbotto in pelle, mentre Sutskever ha la t-shirt della pecora nera, il design reso celebre dalla Principessa Diana. ​​​​​​

Il modello avanzato da Jensen Huang ha una matrice confuciana che si innesta nelle opportunità degli Stati Uniti: avere successo vuol dire avere i voti migliori, prendere quel pezzo di carta, far venire i genitori alla cerimonia di laurea, così si inorgogliscono e si commuovono. Quando Jensen Huang ha pronunciato il suo discorso alla Steve Jobs, il commencement address della National Taiwan University nel 2023, c’erano proprio i suoi genitori presenti, e lui ha salutato in cinese gli anziani signori Huang, mentre parlava di quel professore dell’università che l’aveva ringraziato per aver migliorato le possibilità tecniche del suo laboratorio. L’eco di questo modello, fondato sullo studio, è presente anche in alcuni tratti della pseudo-ideologia della “mamma tigre”, per riprendere un controverso pamphlet di Amy Chua di qualche anno fa, ma soprattutto riconosce l’importanza del successo accademico per gli studenti delle comunità asiatiche americane. 

Allo stesso tempo, il look di Jensen Huang impone una correzione ai mondi che in lui si incrociano. La “rivincita dei nerd” è ormai avvenuta, perché sono loro i padroni dell’era informatica e perché verso di loro arriva il capitale. Il nerd, tuttavia, non se ne può stare lì coi suoi occhialoni, a essere preso in giro mentre si rinchiude in casa a programmare.  

Il messaggio di Jensen Huang è che così non si sopravvive. Il nerd asiatico non può limitarsi a studiare, perché non basta. Nella mitologia che ha plasmato la sua immagine, il nerd deve pulire i bagni per affrontare le difficoltà del mondo, deve diventare un campione di ping-pong se non può giocare a basket, deve lavorare nei fast food e mettersi a cucinare per i suoi dipendenti. Deve fortificarsi, allenandosi e sollevando pesi, così può far risaltare il tatuaggio della sua azienda. 

Deve competere e stare sull’orlo della sconfitta e dell’umiliazione, facendo scelte coraggiose ma anche brutali. E deve fare tutto questo divertendosi, comportandosi da cazzone, stando in mezzo a una comunità che si diverte, che gioca. Deve stare sul palco. In questo processo il nerd, senza perdere la sua competenza tecnica, diviene un manager spietato e un venditore forsennato. Così a tutti i suoi interlocutori, ai giocatori, sviluppatori, programmatori, ingeneri che gli assomigliano, il giubbotto in pelle di Jensen Huang sussurra: “Tu non sei uno sfigato, sei un figo”.

In copertina, Jensen Huang qualche anno fa si toglie il giubbotto in pelle a Shanghai per flettere il bicipite e mostrare il tatuaggio di NVIDIA.

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