Pensare l’Asia 

21 Ottobre 2024

Nel 1998, il diplomatico di Singapore Kishore Mahbubani pubblica un libro con un titolo provocatorio: Can Asians Think? Gli asiatici possono pensare? Il libro si inserisce nel dibattito sui cosiddetti “valori asiatici”, di cui è alfiere il fondatore della Singapore contemporanea, Lee Kuan Yew, ma si intreccia anche col pessimismo nella regione a seguito della crisi finanziaria asiatica del 1997 e con i contrasti più ampi attorno al cosiddetto “scontro delle civiltà” (il libro di Samuel Huntington è del 1996).  

Anche se è invecchiato, Can Asians Think? è ancora un testo emblematico del dibattito intellettuale post-coloniale sull’ascesa dell’Asia nel contesto globale, anche grazie a quel titolo geniale, che allude ovviamente alle percezioni eurocentriche e coloniali della superiorità intellettuale occidentale. Mahbubani invita i lettori a riflettere sul pregiudizio occidentale che ha spesso considerato l’Asia un soggetto passivo nella storia, così cercando di posizionare il pensiero asiatico e le leadership asiatiche nell’assetto globale, anche attraverso il confronto tra i modelli politici occidentali e orientali. 

Le esperienze asiatiche, nella prospettiva di Mahbubani, emergono come sintesi tra tradizione e modernità, sfidando l’idea che solo i modelli occidentali siano validi o abbiano una pretesa di universalità. Mahbubani sfida l’idea di un inevitabile “scontro di civiltà” tra Oriente e Occidente, anche se va ricordato che nello stesso schema di Huntington l’Asia è teatro di molteplici civiltà: ortodossa, sinica, giapponese, islamica, buddista, indù. Il diplomatico singaporiano sostiene che il vero pericolo non è la differenza culturale, ma l’incapacità di studiare, comprendere e rispettare le differenze. Per questo, il pensiero asiatico va riconosciuto nella sua statura e nel suo rilievo, all’interno di un discorso pubblico globale, come modello di sviluppo dotato di una sua specifica dignità. 

Negli ultimi 25 anni, Mahbubani ha scritto una serie di libri che hanno più o meno sempre questa prospettiva, con uno stile graffiante e sempre provocatorio. In sintesi: gli occidentali non hanno molto da insegnarci, non ci conoscono abbastanza e non riconoscono l’enorme progresso che abbiamo fatto in termini di benessere e che continueremo a fare, nonostante i loro pregiudizi. Bisogna pertanto ribaltare la prospettiva, dice Mahbubani: è giunto il momento in cui voi mettiate da parte la vostra arroganza e cominciate a imparare da noi. 

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Tutto ciò presuppone, come si vede, che ci sia un “noi”. La presenza di un “noi” dell’Asia, la definizione dell’Asia come entità geografica e culturale, o addirittura col problematico termine “civiltà asiatica”, è tutt’altro che semplice. Lo ricorda Simone Pieranni proprio all’inizio del suo ultimo libro, 2100. Come sarà l’Asia. Come saremo noi (Mondadori) che deriva dalla lunga esperienza dell’autore, che ha vissuto in Cina dal 2006 al 2014, è stato responsabile della redazione esteri del “Manifesto”, e, oltre a scrivere libri, lavora per Chora Media, con cui racconta l’Asia anche attraverso la forma contemporanea del podcast. Ma esiste, l’Asia? Certo, è il continente più vasto e popoloso del pianeta, ma dal punto di vista storico è un coacervo di straordinarie diversità etniche, linguistiche e religiose che sono state ridotte e semplificate proprio dallo sguardo occidentale, durante l’epoca coloniale che ancora segna una parte importante dello stesso immaginario orientale. L’Asia del XX secolo, come sappiamo, ha vissuto una storia post-coloniale con un notevole risveglio economico, politico e culturale. Dopo la Seconda Guerra Mondiale, l’ascesa di potenze economiche come il Giappone e in seguito la Cina e l’India ha ormai accompagnato i cambiamenti degli equilibri globali. Il crudo fatto della demografia consegna all’Asia un ruolo centrale, che l’economia, la tecnologia e la politica hanno confermato progressivamente. Fino al nostro presente. 

Ma, ancora, esiste un “noi” asiatico? Pieranni, attraverso un viaggio che tocca diversi attori della Regione, da Singapore alla Cina, dal Giappone al Pakistan, dalla Corea del Sud alla Malesia, dall’India al Vietnam, fornisce alcune chiavi di lettura per inquadrare questa domanda.   

Una parte interessante del libro è dedicata agli stili di vita, dal cibo alla realtà sociale e giovanile. Pieranni ci porta dentro una realtà che, a prima vista, potrebbe sembrare familiare agli occhi occidentali, ma che nasconde peculiarità uniche. La società asiatica, pur essendo profondamente influenzata dalle tradizioni e dalla cultura locale, è sempre più permeata da elementi di modernità e innovazione tecnologica. Ad esempio, a Singapore, una delle città più avanzate al mondo, il contesto urbano sembra trasformarsi sotto gli occhi dei residenti, in spazi dove il passato remoto e un futuro avveniristico convivono a pochi metri di distanza. In altre aree dell'Asia, come in Cina e in Giappone, il progresso tecnologico convive con aspetti più tradizionali della vita quotidiana. Mentre le megalopoli cinesi introducono innovazioni come il riconoscimento facciale, le città più piccole e le aree rurali mantengono abitudini di vita legate alle tradizioni locali. Questo contrasto tra modernità e tradizione crea un panorama sociale variegato, e Pieranni sottolinea come la diversità degli stili di vita asiatici sia un riflesso di una società in rapida trasformazione. La globalizzazione continua a uniformare i gusti e i consumi delle giovani generazioni, ma le tensioni tra innovazione e conservazione continuano a giocare un ruolo significativo nella vita quotidiana. Un altro aspetto del cambiamento nello stile di vita è proprio l’evoluzione delle preferenze giovanili. Da un lato, come è comprensibile, i giovani in Asia sono sempre più simili ai loro coetanei occidentali, soprattutto nelle grandi città, manifestando anche una distanza dalla sacralità della famiglia proprio dello stereotipo dei “valori asiatici”. Allo stesso tempo alcune tendenze sociali, come quelle della Corea del Sud, non rispondono necessariamente a mode occidentali. Anticipano e amplificano, più che seguire. 

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Uno degli elementi chiave trattati nel libro è l’invecchiamento rapido della popolazione in molte parti dell’Asia. Se la demografia ha segnato l’ascesa asiatica, l’invecchiamento della popolazione caratterizzerà le sfide di questo secolo, se guardiamo al 2100. Esiste pertanto un “noi” asiatico che affronta questa sfida comune, che coinvolge anche molti Paesi occidentali (più gli europei degli Stati Uniti). Un “noi” di vecchi, che parla a noi, vecchi nel vecchio continente. 

La Cina, nonostante la sua centralità economica, affronterà un rallentamento demografico che potrebbe ostacolare la sua crescita futura. Le autorità cinesi cercano di colmare le lacune nel sistema di assistenza sociale, in gran parte attraverso l’adozione di tecnologie avanzate per prendersi cura degli anziani, a fronte di problemi già presenti come il deficit di operatori sanitari. Giappone e Corea del Sud, Paesi di industrializzazione meno recente, debbono a loro volta affrontare l’invecchiamento della popolazione. 

Tra le vicende ricordate da Pieranni in questo contesto, c’è la carenza di eredi nelle famiglie proprietarie di aziende nipponiche, per cui il Giappone ha sviluppato la strategia del mukoyoshi, ovvero l’adozione del genero come erede. Questo sistema consente alle famiglie, soprattutto quelle che gestiscono grandi imprese, di mantenere la conduzione famigliare trasferendo il controllo dell’azienda ai mariti delle figlie. La strategia ha dimostrato di essere efficace, tanto che molte aziende giapponesi gestite dai generi hanno registrato performance migliori rispetto alle altre. 

La Corea del Sud vive una crisi demografica acuta: secondo alcune stime, nel 2100 la popolazione sudcoreana potrebbe addirittura dimezzarsi. Questo non è solo un problema di politiche demografiche fallite, ma riflette una trasformazione più profonda nei valori sociali e culturali del Paese, con un accento sempre maggiore sulla carriera e l’indipendenza personale piuttosto che sulla famiglia. In parallelo, i governi asiatici stanno anche esplorando politiche migratorie più aperte per colmare i vuoti demografici, seppure attraverso resistenze molto significative. 

Se esiste un “noi” asiatico, possiamo senz’altro rintracciarlo nell’integrazione economica della regione: l’Asia orientale è l’hub manifatturiero del pianeta e non vi sono ragioni affinché questo ruolo, in termini quantitativi, possa essere scalzato da altre regioni. Dopo l’ascesa della Cina al ruolo di “superpotenza manifatturiera” (per utilizzare la calzante espressione dell’economista Richard Baldwin), il contrasto con gli Stati Uniti sulle filiere tecnologiche globali sta portando a una certa ricollocazione produttiva di alcune aziende, ma in cui si riafferma e non si supera la centralità asiatica. A vincere sono i Paesi del Sud-Est asiatico. Questo fattore sottovalutato del recente passato, del presente e del futuro comincia ad acquistare una certa attenzione pubblica, o addirittura “pop”. In un video-tweet che ha rapidamente superato il milione di visualizzazioni, l’imprenditore Molson Hart ha sostenuto che il prossimo motore della produzione sarà l’aggregazione di Paesi come Vietnam, Indonesia, Malaysia, Bangladesh e Thailandia, con Singapore come hub finanziario. Secondo Hart, tra i motivi che supporteranno questo passaggio ci saranno la capacità dei governi di fornire infrastrutture, l’alta densità della popolazione che facilita la concentrazione delle supply chain e una forza lavoro ben istruita, già in grado di fare il salto da operai a ingegneri e dirigenti, come sta avvenendo in Vietnam. Questa visione rappresenta un “bignami” delle prime evidenze degli studi economici e industriali. Il cuore dell’Asia, il suo “noi”, resta rappresentato dalla sua capacità produttiva e dalla sua forza industriale. L'Asia non è solo il motore manifatturiero del mondo, ma ha anche perfezionato l’arte dell’assemblaggio e dell’integrazione produttiva, in una rete intricata di fornitori e clienti in tutto il continente​. Rimane un esempio emblematico, da questo punto di vista, la catena produttiva dell’iPhone: se per ragioni politiche e di diversificazione, ci sono stati alcuni spostamenti parziali fuori dalla Cina, si resta all’interno di una rete – vietnamita, in parte indiana – strettamente integrata. 

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Senz’altro il Vietnam, Paese che in questo secolo ha sperimentato una crescita straordinaria, fornisce un utile esempio di questa dinamica. Come ricorda Pieranni, dopo la crisi finanziaria del 2008, Samsung ha cominciato a produrre telefoni cellulari nella provincia settentrionale di Bac Ninh, e la capacità vietnamita ha poi attratto l’attenzione di giganti statunitensi, come Microsoft, che vedono nel Paese un punto di accesso strategico per il mercato asiatico. 

Tra le aziende presenti nel contesto vietnamita c’è anche la cinese Hikvision, leader mondiale nelle tecnologie di sorveglianza. La vicenda di quest’azienda collega 2100 ad altri libri di Pieranni, in particolare Red Mirror, e mostra l’estensione in molti Paesi dell’Asia dei sistemi di monitoraggio della popolazione e di controllo dell’ordine pubblico attraverso la tecnologia. Il “noi” asiatico esiste quindi anche attraverso queste infrastrutture, all’interno delle città. Questo sviluppo si intreccia anche con la questione del nazionalismo tecnologico in diversi Paesi asiatici: la volontà, da parte di attori che hanno un’importanza crescente, di sviluppare i propri campioni nazionali, sia nell’hardware che nel software, per partecipare in primo piano alla corsa tecnologica. Dalle auto elettriche vietnamite alle società energetiche o di materie prime della Malesia e dell’Indonesia, per giungere ai grandi conglomerati indiani. Per lo sguardo occidentale, e perfino per le aziende dominanti statunitensi, sarà sempre più importante capire fino a che punto gli asiatici “pensano” di diventare produttori, e non solo consumatori. 

Alla fine di luglio, un grande evento dell’Asia è passato quasi inosservato in questa parte del mondo: il funerale del segretario generale del Partito Comunista del Vietnam, Nguyen Phu Trong, il quale ha influenzato a lungo la politica vietnamita durante l’impressionante ascesa economica degli ultimi anni. Importanti figure della politica asiatica hanno partecipato al funerale, unendosi al lunghissimo lutto vietnamita. Tra di essi, come inviato personale di Xi Jinping, c’era Wang Huning, l’intellettuale di gran lunga più influente nella politica mondiale, professore alla Fudan e viaggiatore à la Tocqueville nella democrazia americana più di 30 anni fa, mutatosi in consigliere di Jiang Zemin, Hu Jintao e ora del presidente e segretario generale del Partito Comunista Cinese. Sotto lo sguardo di un enorme busto di Ho Chi Minh, Wang Huning ha poi incontrato in una sfarzosa cerimonia comunista il successore del leader vietnamita, To Lam, il quale pochi giorni fa ha poi svolto un tour negli Stati Uniti, incontrando Joe Biden e i rappresentanti delle principali aziende tecnologiche degli Stati Uniti. Oltre i palazzi del Partito Comunista del Vietnam, dove si discute animatamente del giudizio di Wang Huning sulle credenziali marxiste di Nguyen Phu Trong, si muove una società sempre più dinamica; come cento fiori spuntano le fabbriche con cui Pechino e Washington combattono la loro guerra commerciale e tecnologica in un territorio dove gli stessi giganti hanno combattuto altre guerre, e hanno ricevuto entrambi un po’ di schiaffi. 

Difficile, quindi, pensare che gli asiatici non pensino. E nel mondo da qui al 2100, il loro pensiero ci condizionerà e sorprenderà sempre di più. 

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