La risorgenza dei festival / Kilowatt Festival: tradizione/innovazione

Latini, Rezza, Mastrella: infliggersi lo spettacolo (Francesca Saturnino)

 

Tempi di festival e di ripartenza; la “macchina dello spettacolo”, soprattutto quello finanziato, sta lentamente ingranando, nonostante molti programmi delle rassegne siano slittati o ridotti, e ci siano migliaia di lavoratori dello spettacolo, già drammaticamente invisibili, che ora sono definitivamente diventati dei fantasmi. 

Ha fatto bene allora la direzione di Kilowatt, il festival di Sansepolcro giunto alla diciottesima edizione, a ritagliare, assieme al padrino di questa diciottesima edizione Roberto Latini, alcuni giorni di incontri pubblici e trasversali con artisti, critici, curatori, pubblico che, a partire dal tema La tradizione dell’innovazione, hanno aperto diverse questioni. La parte più viva del primo giorno è stata il terzetto Rezza, Mastrella, Latini con Luca Ricci a moderare: un incontro tanto raro per la sua nitidezza di pensiero, quanto necessario per i temi toccati. Alla domanda su quanto, in un lavoro, l’innovazione si misuri in “capacità di trasgredire”, Rezza non ha dubbi: «Se uno trasgredisce facendolo apposta, non trasgredisce niente. Quando andiamo in scena, facciamo dei riti sciamanici. Se falliamo uno spettacolo, non andiamo in scena». Mastrella studia sempre le regole «perché è interessante capovolgerle». Per Rezza, è la velocità che riesce a neutralizzare il controllo reazionario della mente: «Questo lo sperimentiamo durante le prove aperte. La velocità disinnesca il pensiero: scrivendo, mi precludo quello che arriverà “facendo”. Io devo infliggermi lo spettacolo. Non posso prevedere già da prima come sarà l’effetto di quello che faccio. Questa è una trasmissione genuina: non c’è un’idea pregressa. Come fa un attore a sapere dove va, a “trasgredire”, se lo sa già, prima di farlo?». Per Flavia Mastrella, altro ingrediente funzionale alla creazione è la stanchezza che produce genuinità: più sei stanco più sei te stesso. Latini, felicemente acceso e stimolato tra due fuochi così forti, sposa in pieno queste considerazioni: «Trovo una meravigliosa l’idea di “infliggersi lo spettacolo”, solo chi ha pratica di palcoscenico può capire di cosa stiamo parlando. C’è una bellezza profonda in questa immagine. Anche io mi preferisco quando non mi difendo». 

 

Roberto Latini e Antonio Rezza, ph. Luca Del Pia.


Ci si sposta sul tema della “comprensione” del lavoro scenico. Affonda, esilarante, Rezza: «Io ho tutti i libri di Artaud, ma non ne ho letto mai nessuno: se leggo le prime dieci pagine, mi emoziono così tanto che non mi serve andare avanti per cercare di capire. Mi fido di Artaud! (Ride). L’intelletto è il mio peggior nemico. Noi abbiamo il corpo. Se si ammala il corpo, allora abbiamo dei problemi. Dell’arte, dobbiamo curare la cattiveria. Il teatro non deve far star bene: io detesto questo tipo di arte controllata. È un inganno, per chi vede, e chi vede lo sa». I fallimenti, i rifiuti, le sconfitte sono necessari. Alla scuola di Teatro di Perla Peragallo, Roberto Latini ha imparato a lasciare andare le cose, accettare le perdite e la perdita. Racconta un aneddoto del 1996: «Avevo fatto uno spettacolo, uno dei primi, e volevo farlo vedere a Leo de Berardinis. Così partii con la mia compagnia di belle speranze, da Roma a Bologna: sveglia alle sei di mattina, cinque ore di viaggio in macchina. Arriviamo, allestiamo, lo spettacolo inizia in ritardo. Leo, che era venuto a vederlo, già non era molto contento. Alla fine ci incontriamo. Arrivo tardi anche lì: lui mi aspettava da tempo. Inizia a dirmi una quantità di cose su tutto quello che aveva visto e che non andava bene… indimenticabile». Emozionato. Sorride. Si tace. 

Flavia Mastrella invece racconta come il loro lavoro nasca sempre da una improvvisazione: si lavora sull’attimo. C’è un’energia che passa, attraverso lo stupore. Anche per Rezza, lo spettacolo si regge sull’energia: «Amo tutto ciò che non capisco. Beckett, Grotowski. Vedo i film di Lynch e, più non li capisco, più li vedo. Non possiamo accettare che l’arte si muova su una comprensione reciproca, ci deve essere una gerarchia tra chi fa e chi vede: una gerarchia fatta in buona fede. Chi fa rispetta chi vede, perché se chi fa prevede chi vede allora è un imbroglio. Ci si muove sul filo del discorso che t’impicca ogni sera: ogni sera, nei teatri, nei cinema, migliaia di persone vengono impiccate al filo del discorso, della comprensione. Io vorrei sentire al tg “ieri sera migliaia di persone sono rimaste impiccate,” ma non succede mai». Ride e sorridiamo tutti. «Voglio avere il diritto di non capire, a costo di sembrare deficiente. Non mi si può togliere l’arbitrio di smarrirmi: se vedo un film di Lynch, lo vedo dieci volte e vedo dieci cose diverse. Voglio capire ogni volta una cosa, per poter tornare a rivederlo e capire quello che non ho capito. Si può lasciare a chi vede questa libertà, o no? Questo è compito dell’arte e smascherare chi non lo fa è compito della critica». 

 

Davanti a una platea sempre più appassionata, Rezza riprende, seppur da una diversa prospettiva, una riflessione/provocazione – purtroppo non assolutamente colta nella sua natura poietica e politica – che Lucia Calamaro condivise su questa testata, qualche mese fa (la puoi leggere qui). «Si può lanciare un appello? Un appello all’arte, al teatro, cinema, musica: di non occuparsi di quello che è successo negli ultimi mesi, di non parlare della pandemia. Non si possono finanziare opere pagate dallo stesso Stato che non ha riconosciuto le istanze dell’arte. Io mi sento un individuo individualista che non è stato considerato da chicchessia non per disprezzo, ma per calcolo. Sarebbe come scendere a patti, prestare il fianco all’ennesimo abuso, accettando idee auto reggenti. Noi non siamo giornalisti». Per Mastrella, è importante prescrivere la condizione del cambiamento, ma non l’estetica, perché altrimenti «stiamo al gioco». Rezza apre, infine, l’ennesima questione fondamentale sui lavoratori dello spettacolo: «Se oggi andiamo a fare un’intervista ai metalmeccanici e chiediamo loro chi è un artista, quelli rispondono: uno che si diverte. Se permetti a me dà un po’ fastidio, perché mi faccio un gran culo…». 

Al padrino Latini l’onere di chiudere questa gustosa chiacchierata: «Come spettatore, non c’è niente che mi annoia di più dell’essere intrattenuto, soprattutto a teatro. La questione è che, nel momento in cui accade il Teatro, succede oltre ogni tua possibilità: di fronte, insieme agli spettatori, che devono potersi fidare dello spettacolo. Il sistema attuale ha prodotto degli spettacoli che non rispondono a questo criterio di onestà. Il pubblico non va sedotto, o attirato al teatro». Chiude, poi, sardonico: «Insomma, mi sento di dire che Artaud si fida di Antonio Rezza…». 

Ecco, se proprio si deve ricominciare – eventualità non scontata, né così automatica – forse è il caso di farlo da qui. 

 

Lettura di Roberto Latini, ph. Luca del Pia.


Viaggio al termine della notte (Enrico Piergiacomi) 

 

Benché il focus esplicito dell’incontro La tradizione dell’innovazione sia una riflessione intorno a Roberto Latini, esso è in realtà un dialogo a più voci sul teatro: arte protesa a rinnovare le forme, i linguaggi e il nostro pigro universo cognitivo. Latini è un tramite illustre per mostrare come l’arte teatrale sia da sempre un atto per ravvivare quello che abbiamo ricevuto dal passato e per costruire inediti immaginari. Il teatro è dunque per tradizione un movimento inesauribile di innovazione, tanto che si arriva quasi a una coincidentia oppositorum. Se innovare è stato già da Tespi in poi un atto consueto, un teatro che non innova semplicemente non è teatro e perde la sua tradizionale funzione trasformatrice.

Il titolo dell’incontro pubblico qualifica anche l’intenzione generale di Kilowatt Festival, che quest’anno trae ispirazione dal romanzo Viaggio al termine della notte di Céline, a sua volta suggestionato dal canto popolare della Beresina (Beresinalied). Entrambi i testi descrivono un percorso notturno tra la morte, la guerra, il dolore, il buio e il freddo, che è però affrontato con coraggio nella speranza di trovare alla fine la luce del sole e il riposo. Ora, anche il percorso di Kilowatt Festival e dell’incontro La tradizione dell’innovazione mira a una faticosa “catabasi” nel teatro, che si aspetta ci porti a qualche scoperta luminosa su noi stessi.

A partire dunque da queste premesse teoriche ampie, possiamo riconoscere tre linee di lavoro e programmatiche scelte di campo teatrali che valgono sia a definire il lavoro di Latini, sia il programma stesso di Kilowatt Festival. Esse sono state peraltro esaminate da alcuni interventi dell’incontro pubblico.

Il primo tema centrale è il rapporto con i classici, o meglio – come sottolinea Clarissa Veronico nel discorso L'irrimediabilità del senso del dopo – lo sforzo di vivere in un’epoca post-classica. La classicità è sì trascorsa, perché i valori eroici e le risposte di senso che i classici davano non sono più efficaci, ma resta lo stesso imprescindibile. Non si può infatti fare a meno di riferirsi ad accadimenti teatrali condensati nei miti antichi o moderni, perché essi sono introiettati nella nostra memoria antropologica. Occorre dunque innovare questa tradizione per non farsene dominare.

 

Post-classico è in tal senso AMLETO + Die FortinbrasmaSchine di Latini, dove l’Hamlet di Shakespeare – già disintegrato in frammenti dalla Die Hamletmaschine di Müller – viene ulteriormente frantumato in atomi poetici ancora più rarefatti, in una sequenza di visioni inquietanti e belle che racchiudono l’essenza degli eroi shakespeariani. Ma lo sono anche gli spettacoli che riscrivono due tragedie di Euripide ospitati a Kilowatt Festival: Le baccanti de Levidelfool ed Eracle, l’invisibile del Teatro dei Borgia. I lavori condividono una poetica della “classicità dimessa”. Gli eroi mitici esistono e continuano a vivere, solo che hanno perso la loro solennità e la loro materia tragica si è fatta contemporanea. Dioniso è oggi un funambolo che barcolla sopra un filo sospeso nel nulla, mentre Eracle è un ex insegnante disoccupato che cade in miseria per un errore e che, come nel mito euripideo, viene spinto da un raptus di follia a uccidere la sua famiglia.

 

“Eracle, l’invisibile”, Teatro dei Borgia, ph. Luca Del Pia.


La seconda scelta di campo programmatica è quella dell’«etica dell’incompiutezza». Su questo tema, si è concentrata la maggior parte degli interventi di La tradizione dell’innovazione. Ne ha parlato Antonio Audino, che registra il senso etico del teatro che fa dell’incompiutezza la sua cifra poetica. L’arte di Latini agisce a livello anche politico perché abbandona volutamente la forma dello spettacolo chiuso, ossia rassicurante, comprensibile e didascalico, che lascia performer e pubblico in un’inerte zona di comfort. L’artista seleziona infatti gesti performativi che mettono lo spettatore a disagio, in una posizione cognitiva scomoda perché quasi nulla è trasparente o leggibile, che lo mettono di fronte a ipotesi/squarci diversi sulla realtà, sull’identità, su altri temi complessi di teoria e azione. L’estetica è dunque veicolo di un’etica che spinge a non accontentarsi di ciò che è noto e definitivo. Segue l’intervento di Claudio Longhi, che esplora il nesso moralità-incompiutezza guardandolo stavolta a livello di sistema.

 

Egli nota che i nostri tempi sono paradossali: c’è un’enorme necessità di teatro, ma anche poca domanda di teatro, in altri termini una dissociazione tra società e arte. Per ridurre l’abisso che separa questi due mondi non-comunicanti, ci si deve dunque liberare dal peso sedimentato da anni di spettacoli troppo sbilanciati sulla forma chiusa, che hanno allontanato i pubblici dalla dimensione poetica della scena. Ora, la poetica di Latini giova alla restaurazione del dialogo tra arte e società, teatro e comunità. Infine, ha insistito sulla dimensione morale dell’estetica teatrale anche l’intervento di Andrea Porcheddu (Roberto Latini e l’etica dei comici). Il testo è ora pubblicato su Gli Stati Generali ed evidenzia come Latini, insieme ad altri «poeti della scena», riesca a continuare la sua attività artistico-civile, nonostante i ripetuti «fallimenti di sistema» a cui lo obbliga l’istituzione teatrale italiana.

 

Quotidiana.com, ph. Luca Del Pia.


Data la preponderanza degli interventi su questo tema, non sembra un caso constatare che l’etica è il concetto chiave di altre proposte di Kilowatt Festival. Si può menzionare, a tal riguardo, almeno Tabù. Ho fatto colazione con il latte alle ginocchia: il nuovo lavoro dei Quotidiana.com che è un autentico scavo nel linguaggio e nei divieti morali che dovrebbero in teoria difendere gli esseri umani dalla devianza mentale o dalla perversione, ma che nella pratica proiettano in comportamenti più osceni e dannosi rispetto a quelli coperti. Il lavoro del duo artistico parte da un messaggio inviato da un anonimo ricattatore, che minaccia di mandare a tutti i loro contatti un video che li riprende mentre si masturbano guardando un film porno, a meno di non ricevere un pagamento immediato in Bitcoin. Ciò tradisce che esiste un forte tabù linguistico/sociale sulla masturbazione, che in fondo è una pratica che in sé non ha niente di scandaloso o cattivo, diversamente da altre. I Quotidiana.com insistono soprattutto sul fatto che nessuno trova da ridire sullo stile di vita frenetico, produttivistico dei nostri tempi, che obbliga a qualcosa di più terribile dell’atto di masturbarsi sotto lo sguardo di altri: il divieto del riposo e del fallimento, o la negazione della libertà di rallentare e sbagliare.

 

Terzo tema programmatico è infine quello della “ferita”. Come notano la già citata Clarissa Veronica ed Elena di Gioia con il suo intervento Sentiero tragico di indizi, questo concetto costituisce il portato chiave del teatro contemporaneo, dunque della proposta di Latini e di altri artisti odierni. L’arte teatrale è un parlare “dopo” la frattura, il trauma, la perdita di qualcosa, con il relativo tentativo di evocare una visione poetica che ricostruisce le origini della ferita, la rimargina, o almeno ne attenua il bruciore. Tra i lavori di Kilowatt Festival che si avvicinano a questa prospettiva, è senz’altro da citare Stretching One’s Arms Again di Lucrezia Gabrieli, esempio di “nuova danza” che usa il gioco cromatico come supporto al movimento coreografico e quale veicolo di significazione. Il giustapporsi di scene danzate su uno sfondo di colori luminosi sotto le note allegre della Serenade in D, K.250 “Haffner” di Mozart, con altre sotto una luce buia e le melodie cupe di Iona Brown, suggerisce come dietro i momenti di gioia più intensi si nascondano sempre il dolore e l’orrore, in altri termini la ferita che è funga da oggetto primo anche nella poetica di Latini.

A conclusione di questo viaggio al termine della tradizione dell’innovazione, lo spettatore di Kilowatt Festival esce così più consapevole sui miti, sui problemi etici, sui traumi del nostro tempo. L’omaggio a Roberto Latini si mostra poi essere il punto di avvio per riflettere insieme se c’è una luce oltre il buio, una comunità oltre la disgregazione sociale e civile. 

 

“T.I.N.A.” di Giselda Ranieri, ph. Ilaria Scarpa, Luca Telleschi.


Una nota sul bisogno dei festival (Massimo Marino)

 

I festival quest’estate si fanno, si sono fatti, si dovevano fare. Per marcare un territorio. Per lanciare il segnale che il teatro, l’arte, non si sono arresi al distanziamento sociale. Che vogliono recuperare spazio all’incontro, alla socialità e alla società. Al contatto profondo. Kilowatt ha una storia particolare (come ogni festival). Nato sull’idea di coinvolgere gli spettatori, renderli attivi, innescando durante tutto l’anno incontri di visione di spettacoli, di video di spettacoli, di discussione, per arrivare a selezionare spettacoli per il festival. I “visionari” (cos’ vengono chiamati questi spettatori attivi) marcano la necessità di quello che si chiama teatro di innovazione di non tagliare i ponti con il pubblico, in fondo la vecchia questione protonovecentesca dei linguaggi artistici che corrono più delle convenzioni medie rappresentative e percettive, più del midcult (lasciamo agli appassionati del genere le discussioni protezionistiche sulla ricerca del pubblico e sull’educazione del pubblico).

 

Sulla scorta di questi temi, il festival quest’anno si è dedicato nel focus su Roberto Latini allo slogan conciliatorio La tradizione dell’innovazione, contraddicendo con questo titolo, ormai assurto da una pubblicità che sentiamo tutte le sere in tv (come il linguaggio si consuma!), il ben più fosco, céliniano, Viaggio al termine della notte, dove quel termine non sappiamo se indichi l’alba o il precipizio più oscuro, la caduta definitiva nel vuoto (io propendo per il secondo senso).

Quello che avete letto, degli incontri, degli spettacoli, disegna una bella geografia del festival (anche se parziale: la rassegna si è sviluppata per altri giorni). 

Quello che è da apprezzare (e questa è una caratteristica di molti festival), oltre all’ampia monografia di riflessione su este Roberto Latini, è il dare spazio a progetti inziali, incompleti, che cercano il confronto col pubblico per precisarsi. Così era la prima prova di Soffiavento di Paolo Mazzarelli, per ora ancora un brogliaccio di intenzioni su un attore che recita il Macbeth e si perde, finendo per mettere in scena sé stesso, una parte di sé, i propri meandri oscuri, un lavoro ancor drammaturgicamente debolissimo e recitato in modo poco convincente (e convinto). Ma, ripeto, siamo in prova, e spesso si sceglie di lanciarsi senza rete, per verificarsi. 

 

Il teatro di parola anche qui come a Santarcangelo torna forte, anche se la variazione iperrealistica di Eracle l’invisibile del Teatro dei Borgia finiva per inanellare stereotipi di attualità, con un ritmo ancora lento e compiaciuto, in una storia da cronaca sociologica, un professore accusato di molestie che a poco a poco perde tutto, vita sociale, famiglia, stipendio, e impazzisce (con Christian di Domenico). La firma di Fabrizio Sinisi alla drammaturgia non ne onorava lo stile particolarissimo, unico nel teatro italiano: la sua lingua sulfurea, ritmica, furente, in genere in versi, sembrava addomesticata (probabilmente da un lavoro “di sala” con regista e attore) nelle grigie maglie di un eloquio eccessivamente prosastico e prosaico. E ancora dominavano l’iperrealismo e l’eccessivo rispecchiamento cronachistico, non stemperato dall’uso dei burattini e da qualche trovata di distanziamento, nell’ancora troppo lungo Un chant d’amour di Teatro Rebis, sulle vicende di Macerata 2018, l’omicidio di Pamela Mastropietro e il delirante attentato razzista di Luca Traini.

Altro momento molto presente la danza (ne ha già parlato Piergiacomi), con qualche bella invenzione, come le dislocazioni, i meccanicismi di Giselda Ranieri in T.I.N.A. (There Is No Alternative), forse però un po’ scontati. In un surreale gioco di slittamenti di senso (non ancora perfettamente a punto drammaturgicamente) portava invece Andrea Cosentino con Rimbambimenti, programmaticamente tra fisica quantistica e morbo di Alzheimer, con gli atomi delle parole sottoposti a deformazioni stocastiche dal rimbombo dell’ambiente e con gli slanci del pianoforte entusiastico di Fabrizio De Rossi. Insomma, un bel laboratorio. 

 

L’ultima fotografia, Roberto Latini in AMLETO + Die FortinbrasmaSchine, è di Luca del Pia

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