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"La Storia": Morante narratrice senza anagrafe

26 Settembre 2024

Dovendo collocare La Storia nell’opera complessiva di Elsa Morante, saltano all’occhio forse a prima vista le differenze. Quattro romanzi (Menzogna e sortilegio, 1948; L’isola di Arturo, 1957; La Storia, 1974; Aracoeli, 1982) tutti composti in uno stile diverso, ma soprattutto derivati da tipologie narrative difformi: in successione, il romanzo familiare, il romanzo di formazione, il romanzo storico (come vuole Giovanna Rosa), infine stemperati in Aracoeli, opera dallo statuto meno forte se non fosse rafforzato dall’archetipo del viaggio-pellegrinaggio. Eppure il lettore che li abbia letti non penserebbe mai che l’autrice di questi quattro romanzi non sia la stessa. E non solo per l’anti-intellettualismo e l’estraneità alle avanguardie e alle ideologie, tratti che dislocano sempre queste opere rispetto agli imperativi del loro tempo. Ma soprattutto per l’equivoco di ognuno di essi, che giudichiamo ottocentesco in ritardo ed è scritto nel Novecento, e che può sembrare realistico ed è sempre fiabesco, poiché come diceva Moravia (lo ricorda Cesare Garboli) «la Morante saprebbe raccontarci la storia di Moby Dick facendoci chiaramente capire nello stesso tempo che si tratta di un cetaceo qualsiasi». Ci pare che Useppe sia il Moby Dick della Storia, fanciullo divino e bambino piccolo-borghese, essere primitivo e nostro contemporaneo, venuto dalla mitologia ma di carne e ossa. Insomma personaggio, anche perché nei romanzi di Morante i personaggi fanno sempre aggio sulle trame. E infatti il plot della Storia è un incastonamento di episodi e di incontri, spesso digressivi e magari felicemente inutili, senza il ricorso alle risorse e alle tecniche del romanzo moderno, non fosse per lo splendido flashback che, dopo l’apparizione del tedesco stupratore sulla strada della maestrina disadattata, narra come antefatto la storia di una famiglia, conclusa dalla morte su una spiaggia dell’ebrea Nora Almagià partita senza mappa e senza bussola per Gerusalemme.  

Le differenze, dicevamo. Se gli altri tre romanzi sono narrati più o meno coerentemente da una prima persona identificabile, la narratrice senza anagrafe della Storia qualche volta dice io ma non si sa chi sia e come possa entrare nelle menti pensanti di bambini e animali. Ma davvero questo narratore onnisciente ha un saldo controllo di quello che sa e che dice? o piuttosto è solo un modo per essere sempre in intima confidenza con tutti i personaggi, più o meno come l’Elisa di Menzogna e sortilegio è familiare ai suoi? E poi: non solo La Storia, ma almeno anche Menzogna e sortilegio è un feuilleton popolato e melodrammatico, certo quest’ultimo vocato più all’erotico mentre l’altro è più vocato all’avventuroso. Insomma, vorremmo seguire qui più la traccia delle somiglianze che quella delle discordanze. D’altra parte le discordanze possono coesistere, poiché conveniamo con il giudizio di Pasolini che coglie nella Storia tre libri diversi e di diversa riuscita: le bellissime prime 150 pagine (l’antefatto calabrese, lo stupro di Ida); il libro di mezzo per lui più debole e manieristico (l’infanzia di Useppe e la giovinezza di Nino); l’ultima parte, il «Libro delle morti», per lui buona ma non pari alla prima (la guerra è finita ma tutti muoiono adesso). In effetti le due parti che più partecipano del romanzo popolare sono le ultime due. Della seconda parte, Pasolini dice malissimo: gli sembra interminabile e manierista, e che la vita non vi venga rappresentata, ma celebrata; di un personaggio, «un certo Giovannino», gli sembra che Morante ci imponga soltanto il racconto della morte, «una lunga e circonstanziata descrizione […] che non riusciamo a capire se sia bella o brutta, tanto poco ci importa di quel personaggio». (È bella: un pezzo di bravura che frammischia la sofferenza del corpo e le allucinazioni del morente). Al lettore sembra piuttosto squilibrato non tanto il romanzo di Morante quanto l’articolo pur penetrante di Pasolini. Più equilibrato, al solito, è Calvino, che pure dichiara la sua distanza dalla poetica della scrittrice. (Si possono leggere le centinaia di articoli della polemica sul romanzo nel recente ponderoso volume di Angela Borghesi su L’anno della Storia 1974-1975, Quodlibet). Per lui La Storia non è meramente un romanzo di successo ma un romanzo popolare, nella scia e con la dignità dei grandi ottocenteschi. Come la letteratura popolare, è costruito sul procedimento della commozione, che oggi è malvisto, sulla cui riproposizione dovrebbe scommettersi.

Questo è infatti il progetto di Morante, che trova nell’Ottocento il genere romanzesco buono allo scopo. Sempre spiazzata però, la nostra autrice, nonostante l’enorme successo, tanto da proporre un romanzo storico senza avere la forza di imporne la moda, come alla fine del decennio riuscirà invece a Umberto Eco. Con i manzonismi che ne derivano: alcuni più spiccioli, come l’assalto alla camionetta con il carico di farina, che rinvia all’episodio dell’assalto ai forni nei Promessi sposi, o il discorso di Daniele Segre nella bettola al Testaccio, che rinvia a quello di Renzo all’Osteria della Luna Piena; altri di valore costitutivo, come l’opposizione di storia e finzione e quella di potenti e genti meccaniche, però non risolte in una sintesi narrativa ma scisse in una cornice annalistica e in una fabulazione fluviale. Questo aggiornamento novecentesco del romanzo con effetto di storia rappresenta (sempre manzonianamente) umili e non emarginati, come invece la critica ha invece spesso sostenuto. Perché le vittime del potere siamo tutti. Questa la filosofia della storia che soggiace alla narrazione, che alla fine ci giunge dalla voce di un personaggio: il fascismo eterno, la sopraffazione degli indifesi da parte di chi detiene il potere e la violenza, la Storia («diecimila anni») è sempre stato questo. E poiché parliamo di Davide Segre, unico borghese del romanzo, diremo anche della sua esperienza volontaria in fabbrica (che Morante preleva da Simone Weil): vi si impiega perché motivato da un’urgenza morale di essere «nell’occhio del ciclone, ossia proprio nel cuore lacerato dell’esistenza», ma si tratta della demistificazione dell’andata al popolo, poiché in verità dentro la fabbrica troverà che non si comunica. Essa invece dà alimento a un incubo postumano: «Sognava di avere, al posto delle dita, dei grossi bulloni avvitati troppo stretti sul dado; e che intorno a lui, dentro al capannone, non c’erano più né uomini né macchine; ma solo degli anfibi, mezzi-uomini e mezzi-macchine: con carrelli, dalla vita in giù, al posto delle gambe, trapani o pulegge per braccia, e così via». 

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Tornando al conto delle somiglianze, si può ricordare come Garboli giudichi il personaggio di Manuele una degradazione programmatica dei figli di Ida Ramundo. In questo «Aracoeli è il rovescio intenzionale e inferocito della Storia». Lo schema garboliano, come è noto, prevede che nella sua seconda fase artistica Morante cesserà di identificarsi negli adolescenti divini e avrà una drammatica coscienza di sé come donna. Il tema dell’androgino si evolverà nel tema madre/figlio. Il parallelismo tra La Storia e Aracoeli deriva per Garboli dal fatto che sono due Annunciazioni (vuol dire semplicemente due romanzi sulla maternità). Quindi a riprova che il gioco degli accoppiamenti lega soprattutto i due ultimi romanzi, lo stesso Garboli scrive che il personaggio secondario di Davide Segre, ebreo, intellettuale, morto di overdose, anticipa «le derisorie rovine di Aracoeli». Aggiunge però che Menzogna e sortilegio e La Storia sono «due romanzi gemelli, quasi la stessa pianta in due stagioni diverse». E infatti a noi pare che Aracoeli degradi piuttosto l’Isola, e che come romanzo popolare La Storia conversi invece più strettamente con Menzogna e sortilegio.

Se i romanzi di Morante tra loro dialogano si deve soprattutto alla circolazione dei temi più che delle forme, ed è su questo piano che essi sembrano configurare quasi un sistema coeso. Tra i temi, uno soprattutto. Tutti i romanzi di Morante sono, a ben vedere, racconti della Cacciata dall’eden. Si ricordi il paradiso isolano di Arturo: animali reali e fantastici, robinsonismo, mancanza di regole, libertà dal lavoro, letture e vagabondaggi. In Menzogna e sortilegio il paese originario del Butterato sembra essere il prototipo di El Almendral di Aracoeli, il primo posto su «quel monticello sassoso», il secondo parimenti «una sassaia desertica», però luoghi di un legame fusionale precocemente interrotto. Su tutti Totetaco (Montesacro nella parlata infantile), sempre in Aracoeli, che riporta l’ubicazione dell’eden nella topografia romana. Infatti il solito Garboli notava che «prima o poi, si finisce sempre, nei romanzi della Morante, per ritrovarsi dalle parti del ponte Sublicio», vicino ai luoghi da lei abitati da ragazza. Due i luoghi edenici della Storia: lo stanzone di Pietralata, dove sta la tribù endogamica dei Mille sfollati dai quartieri bombardati; e la «tenda d’alberi» in riva al Tevere. Da entrambi, il bambino viene infine cacciato. Se i luoghi edenici sono due, anche in altri luoghi riesce a stabilirsi un’armonia tra i personaggi. Useppe e Nino sembrano entrambi diversamente felici a Davide, e infatti varie sequenze narrative consegnano al lettore la felicità (in famiglia) di Useppe Nino e Ida, oppure quella (in coppia) di Useppe e la cagna Bella.

Useppe è un Adamo. A un certo punto l’infante, finora segregato a casa come per un «bando dalla creazione» (d’altronde non è battezzato né circonciso), è messo di fronte all’incanto naturale: «Era la prima volta in vita sua che vedeva un prato; e ogni stelo d’erba gli appariva illuminato dal di dentro, quasi contenesse un filo di luce verde». Durante questa prima conoscenza del mondo, Useppe (come nel racconto genesiaco) dà il nome alle cose e a se stesso. D’altra parte, contro l’esperienza comune che abbiamo dei bambini, impara prima a parlare che a camminare. 

Al paradiso, come sapremo poi dalla lettura di Aracoeli, l’uomo desidera tornare. L’attrazione di Ida verso la matria ebraica la porta dapprima a fare la spesa nelle botteghe del Ghetto, dove suscita confidenza per i «suoi occhi semiti». Poi, lei gravida, sente «il solito richiamo», «un richiamo di dolcezza». Ancora, dopo la nascita del secondo figlio e il rastrellamento del 16 ottobre 1943, il Ghetto prende addirittura sembianza di un presepe accogliente: «Ma più di tutto le dava riposo l’idea di andarsene con il figlio dentro il Ghetto, a dormire in uno di quegli appartamenti vuoti. Di nuovo, come in passato, le sue paure contraddittorie rincorrevano alla fine una cometa misteriosa, che la invitava in direzione dei Giudii: promettendole, laggiù in fondo, una stalla materna, calda di respiri animali e di grandi occhi non giudicanti, solo pietosi. Perfino questi poveri Giudii di tutta Roma, caricati sui camion dai tedeschi, stanotte la salutavano come dei Beati che, all’insaputa loro e degli stessi tedeschi, si avviavano, per una splendida turlupinatura, verso un regno orientale dove tutti sono bambini, senza coscienza né memoria…». Certo, non mancherà di accorgersi che è «un atroce paradiso di là da ogni recapito». Più esattamente, direbbe il lettore, è l’agnizione dell’origine. Così si spiega il fascino (che è una tensione verso la morte) delle voci del treno dei deportati pronto a partire per il lager: «tutto questo misero vocio dei carri la adescava con una dolcezza struggente, per una memoria continua che non le tornava dai tempi, ma da un altro canale: di là stesso dove la ninnavano le canzoncine calabresi di suo padre, o la poesia anonima della notte avanti, o i bacetti che le bisbigliavano carina carina. Era un punto di riposo che la tirava in basso, nella tana promiscua di un’unica famiglia sterminata». L’altro canale è l’inconscio, regolato dalla logica simmetrica, ma un inconscio collettivo, da cui pesca anche canti popolari ebraici.

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Nell’episodio, Ida sembra dimenticarsi del figlioletto che pure le sta in braccio, finché non la raggiunge il battito del suo cuore impaurito. Negli occhi di Useppe di fronte al treno c’è «uno stupore che non domandava nessuna spiegazione», come sapesse che nel male assoluto non c’è nessuna ragione. Facile connettere questo episodio con l’altro di Aracoeli in cui finalmente Manuele, incontrato il fantasma della madre, ne apprende, al suo perché?, che non c’è niente da capire. Ancora Useppe, di fronte alla sua malattia, sul confine tra inconsapevolezza e coscienza, ovvero tra infanzia-animalità e adultità-umanità, chiede: «A’ mà… pecché?».

La tensione verso l’utero ebraico porta infine davvero Ida a un pellegrinaggio involontario (e pericoloso) fino al quartiere proibito: «Si alzò irresoluta, e solo giunta a metà di ponte Garibaldi fu consapevole d’essere incamminata al Ghetto. Riconosceva il richiamo che la tentava laggiù e che stavolta le perveniva come una nenia bassa e sonnolenta, però tale da inghiottire tutti i suoni esterni. I suoi ritmi irresistibili somigliavano a quelli con cui le madri ninnano le creature, o le tribù si chiamano a raccolta per la notte. Nessuno li ha insegnati, stanno già scritti nel seme di tutti i vivi soggetti a morire». La visita al Ghetto deserto sortirà la pagina potente dell’allucinazione uditiva in cui Ida immagina che il quartiere sia nuovamente popolato.

Analogamente una «memoria matta» conduce la coppia di bambino e cane al paradiso. È «un grande viaggio» oltre «i loro confini soliti», in un regno fiabesco («cammina cammina»). Al termine del viaggio è la «tenda d’alberi», anch’essa luogo di bando. Comunque il paradiso infantile, il luogo nostalgico della socialità, della felicità irrevocabile, resta lo «stanzone dei Mille». La radura nel bosco è invece un luogo fiabesco, teatro delle allucinazioni di Useppe, spazio già oltre la morte. Infatti il luogo più pregno di sacralità è, attiguo alla tenda d’alberi, quello che gli appare in sogno: il «grande lago circolare», luogo della festa e dell’epifania, témenos. Panteismo? In questo senso si muove il giudizio di Davide sulle poesiole improvvisate dal bambino in sua presenza. D’altra parte più avanti Useppe, memore di queste parole, dice al ragazzino evaso Scimò: «Qua ci sta Dio».

Per Giorgio Agamben, negli anni sessanta Morante convertirebbe una visione edenica in una visione sacrificale. A noi sembra che il paradiso resti. Sia nella Storia che in Aracoeli c’è uno spazio segregato (nel primo caso) o inarrivabile (nel secondo), cui è negato l’accesso se non alle creature innocenti che del paradiso sono il relitto e la prova di esistenza (i ragazzini Useppe e Scimò, la madre umana Ida e la madre canina Bella). E comunque lo schema sacrificale è monco, poiché, se ci sono le vittime, nel romanzo non ci sono i carnefici. I soldati nazisti di guardia al treno dei deportati alla Tiburtina non si vedono. Gunther, il soldato tedesco, violentatore di Ida, ha sì la matrice a Dachau, ma «per lui, quel villaggetto materno in Baviera significava l’unico punto chiaro e domestico nel ballo imbrogliato della sorte». Un altro paradiso atroce. È innocente il soldato stupratore ma ragazzino: «E in quel momento, gli occhi del soldato […] s’erano empiti d’una innocenza quasi terribile per la loro antichità senza data: contemporanea del Paradiso terrestre!». Dopo lo stupro, il soldato si dà da fare a riparare una presa elettrica, quasi per farsi perdonare, ma anche per un altro motivo: «gli era pretesto a indugiare un altro poco in questa cameretta che oggi (sia pure a dispetto) lo aveva accolto ancora come una stanza umana». Di fronte a Gunther, non possiamo che concordare con Goffredo Fofi, per il quale se è vero che «chi ammazza un altro ammazza sempre un bambino», come dice Davide (il filosofo del romanzo), chi ammazza è anch'egli un bambino.

Ancora, ci fosse lo spazio, seguiremmo sul conto delle somiglianze i temi della maternità (o femminilità) sempre in qualche modo animale (oltre La Storia, vd. Aracoeli); dell’infanzia come territorio ancora indistinto dall’animale, in cui alla Kerényi il fanciullo (divino) mostra «familiarità con il mondo primordiale» (vd. L’isola di Arturo); dell’orfanità che Mario Barenghi ha visto nella stessa figura di Ida per sempre inchiodata alla privazione dei genitori (vd. tutti i romanzi di Morante); del figlio illegittimo (vd. Francesco di Menzogna e sortilegio ma anche Manuele di Aracoeli); del lutto senza elaborazione (in Aracoeli, Eugenio si trasferisce a San Lorenzo per vegliare la moglie sepolta al Verano, nella Storia Ida al contrario non deporrà mai i suoi fiori sulla tomba del figlio allo stesso cimitero); della vita come catena di separazioni (a cominciare dal parto, vd. Aracoeli e qui la scena dell’obitorio: «All’atto di riconoscerlo, la sensazione immediata di Ida fu una feroce lacerazione della vagina, come se di nuovo glielo strappassero di là»). Ma è qui, al rimpianto originario, che ci fermiamo: la nostalgia del paradiso è un modo di mancata accettazione della morte, per cui i morti sono sempre esseri di fuga. Se Ida «in un’altra luce falsa da eclisse inseguiva senza speranza il suo fuggitivo», Manuele insegue la «staffetta incantadora» della madre fino alla «sierra della ninna e della gloria». I morti, nell’uno e nell’altro romanzo della seconda stagione morantiana, sono abitanti di un interregno dove smaniano per la voglia di vivere. Se è questo il destino di ognuno, la maternità è una colpa: il cadavere di Nino sembra rimproverare a Ida di averlo fatto nascere. Ma alla fine lo stesso Nino, alitante presenza inammissibile (ovvero, per Morante, «assenza impossibile») tra le pareti della casa, non protesta più di essere stato messo al mondo, ma leva verso la madre la stessa gridata preghiera di Manuele (che avrebbe voluto essere mangiato dalla madre, come le gatte mangerebbero i figli deformi): «aiútami, mà». Affinché Ida desideri che abbia riposo, che muoia del tutto, che finisca la sua semi-morte.

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Graziella Bernabò | Elsa Morante: come leggere “La Storia”

In occasione dei 50 anni dalla prima pubblicazione del romanzo La Storia di Elsa Morante nel 1974, Biblioteche di Roma e doppiozero propongono dal 24 settembre al 17 dicembre 2024 una nuova rassegna Alfabeto Morante, Lezioni in biblioteca dedicata a una delle autrici più significative del Novecento.

Venerdì 27 settembre ore 10.30
Bibliopoint G. Di Vittorio, c/o I.I.S.S. I.T.C. Di Vittorio – I.T.I. Lattanzio

Il romanzo “La Storia” nell’opera di Morante
con Massimo Schilirò

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