La velocità di lotta

8 Maggio 2013

Una recensione parla di un romanzo in terza persona, come farebbe un analista o un pubblico ministero. Supplisce all’impossibilità dell’accesso immediato al proprio oggetto con un’indagine che si spera scrupolosa, e da cui dipende la sua (teorica) obiettività. Una prefazione d’autore, al contrario, parla di un romanzo in prima persona, come farebbe un paziente o un imputato. Paga col sospetto di auto-indulgenza (la “soggettività”) il prezzo di un accesso privilegiato a ciò che del libro il libro stesso non rivela: il processo di ideazione e scrittura, le influenze, le allusioni.

 

 

 

Entrambe queste strade mi sono precluse, nel parlare de La velocità di lotta di Andrea Scarabelli, in uscita per Agenzia X. Per restare nella metafora, mi troverò a impersonare il testimone della difesa, o il vicino di casa che in un film di Woody Allen origliava le sedute nello studio dell’analista nel suo palazzo e finiva per innamorarsi di una paziente. Io questo rischio non lo corro, dato che del paziente sono già amico fraterno.

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Ho conosciuto Andrea Scarabelli nel 2008, quando il suo primo libro era appena uscito e il mio stava per farlo. Abbiamo passato insieme quell’estate e le seguenti a scrivere cose – cose che sono diventate altre cose e cose che non sono diventate niente e cose che sono diventate, ad esempio, La velocità di lotta. Abbiamo progettato una fuga all’estero che non si è mai realmente concretizzata. Ci siamo letti e rincuorati e criticati ed editati reciprocamente. Tutto questo, forse, fa di me la persona che più avrebbe da dire sul suo nuovo romanzo, di cui ho seguito ogni passo di gestazione e scrittura; ma anche quella che ha più difficoltà a farlo, costretta a questa impossibile equidistanza fra la terza persona e la prima.
Eppure proprio questa posizione è particolarmente interessante – la possibilità di parlare di un processo di scrittura senza che sia il proprio, di raccontare da dentro un libro altrui. Da un certo punto di vista, è questa, forse, la recensione in seconda persona che avrei voluto fare. Anche se – grammatica per grammatica – più che la seconda persona ciò che la caratterizza è il punto di domanda.



 

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Ad esempio: dove comincia, realmente, un romanzo? Da lettore de La velocità di lotta potrei indicare la prima scena. Un bar molto frequentato si avvia alla chiusura notturna, in una Milano piovosissima e paralizzata. C’è un ragazzo – ma no, è un ragazzo-uomo, un trentenne cui la precarietà vieta di chiamarsi uomo ma che, in misura crescente, si sente lontano da tutto ciò che farebbe di lui un ragazzo, da quella leggerezza sfiancante, senza centro – e in fondo questa difficoltà semantica riassume, in parte, il tema del libro – chiamiamolo Diego. Diego si ripara in strada sotto un balcone, evita le chiacchiere stralunate di uno sconosciuto, e vede una ragazzina scappata di casa (sì, a quindici anni Carlotta ragazzina lo è di certo) i cui capelli variopinti stingono sotto la pioggia. Poche ore e Carlotta dormirà sul suo divano; pochi giorni e inizierà Diego al furto con destrezza; poche settimane e sarà, con la regia di lui, al centro di uno scandalo mediatico di proporzioni nazionali.

 

Però de La velocità di lotta non sono solo un lettore, e quindi nella mia mente il libro inizia altrove, dall’immagine da cui è scaturito: una ragazzina (ancora senza nome) che fa boxe al tramonto, sospesa a decine di metri di altezza a picco su piazza Sempione, a Milano. Di fronte a lei, luccicanti per il crepuscolo e per i proiettori scenici e per l’inquinamento luminoso più invadente d’Italia, si presentano in infilata l’arco napoleonico e il castello sforzesco e il Duomo; più sotto, nella spianata, la folla radunata per un evento sportivo-pubblicitario ignora che lei è la stessa ragazzina di cui i giornali stanno cominciando a parlare (e a dire il vero, al concepimento di questa immagine, lo ignorava anche l’autore, forse intuendolo in parte). E lei lotta da sola: al contempo innalzata e fragile, autonoma e appesa, contro un nemico che potrebbe essere l’aria o una città intera o – secondo il rivelatorio nome inglese di questa pratica, shadowboxing – la sua stessa ombra, un’immagine di sé.

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Di cosa parla La velocità di lotta, quindi, al di là dell’immagine di partenza? Simile all’impossibilità di identificare l’inizio del libro è quella di circoscriverne i temi. Siamo abituati, con una semplificazione in parte scolastica, in parte connaturata al nostro ordine mentale, a collegare a ogni romanzo un elenco più o meno generico di “cose di cui parla”. Nel caso del romanzo di Scarabelli, questo includerebbe la crisi economica e l’asfissia rabbiosa dell’adolescenza in provincia; la perdita dell’illusione di essere unici, legata all’ingresso nella vita d’ufficio dopo il parco giochi dell’università, e la sua successiva riscoperta, allo stesso tempo per caso e per necessità.

 

Eppure questa semplificazione tradisce e anzi ribalta il processo di scrittura: in cui il più delle volte il tema non è il punto di partenza ma di arrivo, qualcosa che ti appare come una scoperta mentre credevi di scrivere di tutt’altro. Hai delle “questioni” che ti appassionano, degli “argomenti” di cui vorresti parlare: ma quando provi a farlo con un romanzo ti trovi tutt’al più a muovere burattini su un fondale di cartapesta. E preso dalla frustrazione, o per ingannare il tempo fra una stesura e l’altra, ti scopri a inseguire e a coccolare un’immagine che ti ha colpito (come la ragazzina che fa boxe). Ti chiedi cosa significhi, ne ipotizzi le premesse e le conseguenze – finché a un certo punto ti rendi conto che quei fantasmi trovati per caso mettono in scena gli stessi temi che le tue marionette aggiravano vanamente senza riuscire a toccarli.

 

È questo, credo, che si intende fuori di metafora quando si dice che un personaggio “prende vita” nella scrittura: perché una storia affronti un argomento in modo non didascalico deve essere nata da un’esigenza diversa, e arrivata in quel punto quasi da sé, senza che chi la guidava avesse già in mente il tragitto. Un romanzo è qualcosa che ti scopri a scrivere mentre stavi scrivendo altro. (Sto esagerando, certo: ma non del tutto.)

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Mi sembra di vedere una traccia di questo processo ne La velocità di lotta. La trama, all’inizio, è personale, intima: due persone incompatibili, in momenti diversi della loro vita (di cui sono, per ragioni dissimili, infelici) si incontrano e scoprono l’uno nell’altra qualcosa da imparare. La narrazione alterna le voci dei due, con una variazione stilistica notevole, mostrando come gradualmente Diego e Carlotta lasciano cadere le maschere, raccontano di sé – sfruttando appieno, fra l’altro, la possibilità di raccontare la stessa cosa da punti di vista non del tutto sovrapponibili. E il libro (come il suo “tema”) pare all’inizio confinarsi a questo: una storia intima di precarietà e di fuga dalla medesima, con un sottotraccia di lolitismo quasi mai affrontato esplicitamente ma suggerito al lettore tramite indizi tanto lampanti quanto in fondo travisabili. (E io leggevo le scene via via che nascevano e chiedevo ad Andrea, “ma alla fine scopano, vero?”, e non sapevo quale risposta mi stessi augurando.)

 

Ma questi temi pian piano si allargano, insieme all’orizzonte mentale dei protagonisti – inizialmente tanto schiacciati dai propri problemi da non essere in grado di vederne il legame con un contesto più ampio. La storia familiare di Carlotta è solidale a quella economica del nostro Paese; il fallimento amoroso e professionale di Diego scaturisce da certe storture del sistema mediatico e pubblicitario italiano. Un recensore ascriverebbe questa progressiva espansione di orizzonti al progetto narrativo dell’autore, per una sorta di rispondenza del romanzo ai suoi personaggi: il personale che, pagina dopo pagina, diventa politico. Ma nello scrivere tutto questo, me ne rendo conto, sto mescolando la mia esperienza di lettore a ciò che ho visto della nascita del libro, del suo progresso. E quindi, forse riduttivamente, io vi vedo anche la progressiva meraviglia di un inseguitore di immagini che pian piano, quasi senza volerlo, scopre la natura di ciò che stava inseguendo.

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I romanzi, come le storie d’amore, acquistano una necessità retrospettiva che mette in dubbio il libero gioco di potenzialità dell’inizio. La prima pagina (il primo appuntamento) ti dà la sensazione che ognuna delle strade che ti si aprono di fronte sia egualmente percorribile; ma alla lunga questa sensazione si rivela illusoria, per quanto forse inevitabile. Alla fine di una relazione ci diciamo “se solo avessi saputo”, e questo ci sconforta; alla fine di un romanzo, che secondo Borges è la lenta preparazione di uno stupore, ci diciamo con sbalordimento che non potevamo sapere. Eppure in qualche modo era tutto già lì: e in questa contraddizione sta, in fondo, quello stupore.
A chi vede un romanzo crescere dall’interno questo stupore è precluso, o perlomeno ne conosce una versione diluita nelle possibilità. Le direzioni ipotizzate e abbandonate, le scene escluse dalla versione definitiva continuano a esistere; ciò che distingue il romanzo compiuto dalle sue versioni scartate non è una differenza di tipo ma di grado.

 

E quindi, dal lettore che non sono, chiuderei questa recensione de La velocità di lotta con un’osservazione proprio sulla necessità stringente della trama, sulla sua implacabilità. Da quel primo incontro fra Diego e Lotta gli eventi si snodano attraverso un ufficio reso ottuso dal bagliore dei neon e un centro sociale illuminato dai composti lisergici, gli schermi di una tv privata e le mura di un carcere minorile, con una velocità, la velocità di Lotta, che potrebbe essere tanto quella di un decollo quanto quella di uno schianto. Fino all’ultimo non è chiaro quale sarà, anche se dopo, certo, è evidente che non poteva andare altrimenti.

 

Ma dal punto da cui osservo questo libro – privilegiato e parziale allo stesso tempo – poteva andare altrimenti eccome; e quella velocità mi appare come una strana allucinazione prospettica, una proprietà inspiegabilmente emersa da anni di scrittura. E quindi, come chi a posteriori si meraviglia di una sequenza di coincidenze che l’hanno portato dove è adesso, non posso evitare di ripensare a quell’immagine di partenza, meravigliandomi – stavolta sì – di tutto ciò che ne è scaturito e di come, in qualche modo, vi fosse implicito. C’è una ragazzina che fa a pugni con l’aria, sospesa nel vuoto a parecchi metri d’altezza. Certo, non è chiaro dove andrà: ma si intuisce che non appena arrivata farà un gran casino.

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