Il premio nobel raccontato dalla traduttrice / L'arte sottile di Ishiguro

6 Ottobre 2017

Ho incontrato la scrittura di Ishiguro nel breve anno per me mirabile che trascorsi presso la casa editrice Einaudi. Mi era stato affidato il compito di individuare un traduttore per il suo The Remains of the Day. Lessi quel romanzo meraviglioso e insolito alla scrivania di via Biancamano, con il pensiero di accoppiare una voce italiana a quella lingua. Il primo nome che mi venne in mente fu quello di Floriana Bossi, traduttrice di spericolata eleganza. La chiamai, ma arrivavo tardi, purtroppo. Floriana Bossi declinò cortesemente l’offerta, dopo aver letto il testo, dicendosi troppo stanca per l’impresa. La traduzione fu affidata a Mariantonietta Saracino e a me spettò l’incombenza leggera di rivedere un lavoro eccellente. 

Il successo del romanzo e del film di Ivory con la sua messe di Oscar riportò in libreria i due precedenti romanzi di Ishiguro, quelli, per così dire, giapponesi, Un pallido orizzonte di colline e Un artista del mondo fluttuante, tradotti, come il successivo Gli Inconsolabili, da Gaspare Bona.

 

Poi, nel 2000, la casa editrice propose a me di lavorare al romanzo Quando eravamo orfani; più tardi fu la volta dei Notturni e infine, appena due anni fa, de Il gigante sepolto. Nel 2005 era uscito, nella traduzione di Paola Novarese, un altro gioiello: Non lasciarmi.

A me sembra importante, in questo momento, ricordare la polifonia di voci che sulla lingua di Ishiguro si sono avvicendate in questi anni.

Ora vengo a quello che è stato per me accogliere la sfida.

 

Ebbene, come ho avuto modo di dire qualche anno fa, nel mio ascolto della sua scrittura, Ishiguro usa parole nude, con le quali costruisce frasi di un’eleganza fredda e sofisticata. Dentro quelle parole si annida il piacere di un segreto travolgente e minuscolo; Ishiguro è uno scrittore che lascia in sospeso i sentimenti dei suoi personaggi e, sfruttando espedienti grammaticali e sintattici, rimanda il compiersi della vicenda. A me che, traducendo, seguo il dettato della sua scrittura, Ishiguro appare come un narratore riluttante, e uno scrittore impeccabile. Difficile dunque, impervio per il livello altissimo di purezza della sua lingua che può agganciare al perno di un pronome personale la svolta di un’intera storia, come accade nel decimo capitolo di Un pallido orizzonte di colline.

 

Il processo che Ishiguro compie di smantellamento dall’interno di personaggi e generi popolari della letteratura inglese impone al traduttore un lavoro delicato e asettico per restituire lo sgretolarsi lieve di un cliché (sia esso quello del maggiordomo, come in Quel che resta del giorno,  del detective, come in Quando eravamo orfani, o del cavaliere in armi nel Gigante sepolto) e il costruirsi di formidabili situazioni narrative inedite.

I dialoghi di Ishiguro contengono il realismo stralunato di conversazioni gentili tra parlanti che non si capiscono, pur dicendosi cose ragionevoli e in una lingua senza intoppi.  È la quieta sperimentazione di una scrittura che, senza abbassare mai lo sguardo, descrive l’enigma della vita, l’imbarazzo dell’amore, l’inestinguibile dolore della memoria come dell’oblio.

Che gioia, questo Nobel, per la comunità dei lettori.

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