Arte senza artisti / Le forme naturali di Bruno Munari

1 Maggio 2018

Arte come mestiere, pubblicato nel 1966, è uno dei libri più famosi di Bruno Munari. Raccoglie riflessioni e scritti che Munari aveva composto negli anni precedenti e si può considerare un primo compendio delle sue idee estetiche e metodologiche, a cui seguiranno testi ormai diventati dei “classici” del design grafico e industriale, come Design e comunicazione visiva (1968) e Da cosa nasce cosa (1981). È anche l’unico suo libro teorico che sia stato tradotto in inglese, con il titolo Design as Art (1971). 

 

Nonostante il prologo e l’epilogo siano dedicati rispettivamente a “Le macchine inutili” e a “Le macchine della mia infanzia” – ovvero all’immaginario tecnologico che ha contraddistinto molte delle opere di Munari – se sfogliate Arte come mestiere vi trovate ad un certo punto un capitolo dedicato al bambù, descritto come “un profilato vegetale, un tubo verde con ogni tanto una chiusura interna […] La natura ce lo offre gratis, già verniciato”. In un altro capitolo intitolato “Cresce e scoppia”, Munari discute poi della struttura di crescita di un albero, paragonandolo a un’esplosione al rallentatore. Qualche anno più tardi pubblicherà anche un libretto intitolato Disegnare un albero (1978) dove discute le leggi di crescita di questa particolare forma naturale. 

 

Questi brevi testi sono tutti contenuti nella sezione dedicata al “Design di ricerca”. Il capitolo di apertura si intitola “Iris”, dove Munari considera la composizione geometrica di una sezione orizzontale di un fiore, l’iris o giaggiolo. Munari fa qui una considerazione generale e spiega perché in una sezione dedicata al design industriale ci siano così tanti riferimenti, paradossalmente, al mondo naturale:

 

C’è un modo di “copiare” la natura e c’è un modo di capire la natura. Copiare la natura può essere una forma di abilità manuale e può anche non aiutare a capire per il solo fatto che ci mostra le cose come normalmente si vedono. Studiare le strutture naturali, osservare l’evoluzione delle forme può invece dare a tutti le possibilità di capire sempre più il mondo in cui viviamo. (Arte come mestiere, 178)

 

Se c’è un elemento osservativo e formale che attraversa tutta l’opera di Munari, e che ha una importanza fondamentale per la sua poetica e per il suo progetto artistico, è proprio il suo interesse per la natura e per le forme naturali. C’è ovviamente in queste considerazioni una ascendenza leonardesca, visto che uno dei principi del metodo di Leonardo era proprio una profonda osservazione delle forme naturali. Questa disposizione ha anche a che fare con le sue esperienze infantili (proprio come la fascinazione per le macchine), e con i quindici anni passati a Badia Polesine, sulle rive del fiume Po, in aperta campagna, dove il mondo naturale si offriva a una esplorazione manuale e sensoriale continua (Elisa Poli e Emilio Tremolada hanno prodotto un video, Bruno da Badia, dove raccolgono le parole spese da Munari sui suoi anni veneti come radice di molte sue invenzioni future.

 

In generale, la natura permette a Munari di trovare un linguaggio formale che da una parte dà un ancoraggio oggettivo alla realtà materiale, dall’altra gli fornisce una serie di categorie strutturali e processi trasformativi da applicare alla sua opera. La natura inoltre fornisce a Munari un modo di connettere la ricerca artistica d’avanguardia con la pratica pedagogica di base, una questione che ha profonde valenze critiche, teoriche e in senso lato “politiche”. In questa attenzione per le forme naturali è infatti implicita una idea democratica dell’arte: la natura è disponibile all’osservazione di tutti, senza vincoli di ceto economico o cultura generale; si tratta semplicemente di imparare a guardare con attenzione gli elementi rilevanti, le strutture proprie, e il comportamento materiale e di sviluppo di ogni forma naturale.

 

Ovviamente, la natura è sempre stata oggetto di rappresentazione nell’arte mondiale. In quanto strumento mimetico, l’arte si è necessariamente misurata con la rappresentazione della natura. Ma al di là di complicate discussioni storico-genealogiche e di comparazioni inter-culturali, potremo dire che, in generale, questa propensione per la resa della realtà esterna, umana o naturale, è diventata un po’ meno scontata con l’arte moderna occidentale, soprattutto nel momento in cui questa arte è diventata astratta o concettuale. Che rapporto ci può essere infatti fra l’arte astratta e la natura?

 

Se da una parte l’arte astratta ha sancito una fuga completa dal principio mimetico, di rappresentazione “fotografica” della realtà esterna, dall’altra ci sono stati artisti nel contesto dell’astrattismo internazionale che hanno cercato di riconnettere il loro lavoro al mondo naturale. Come reazione all’euforia tecnologica di inizio secolo (pensiamo al futurismo), molti artisti hanno sentito l’esigenza di ritornare, al meno dal punto di vista teorico, alla natura. Ma come? Sintetizzando molto, diremo o attraverso una forma di implicito o esplicito platonismo: le leggi geometriche agiscono nella natura formandola, e possiamo usare le stesse leggi per creare arte (è il caso di Wassily Kandinsky o Kazimir Malevich, ad esempio); o attraverso l’adozione di un linguaggio cosiddetto “biomorfico”, di imitazione formale della natura (e a riguardo i nomi più emblematici sono Constantin Brancusi e Hans Arp). Il termine venne coniato da Alfred H. Barr, fondatore del MoMA, nel catalogo di una celebre mostra da lui curata, Cubism and Abstract Art.

 

Munari era sempre molto attento alla scena internazionale, e gli piaceva prendere a prestito idee, provando a sperimentare diverse formule espressive, anche molto eterogenee fra di loro, partendo dalle sollecitazioni estetiche che gli venivano dal futurismo, dal surrealismo, o dall’arte concreta. Tra gli anni ’30 e ’40, svilupperà un certo interesse per forme organiche o biomorfiche, con quadri che cercano di recuperare ed espandere questo tipo di formalizzazione. In realtà, questa ricerca verrà abbandonata abbastanza presto, soprattutto quando l’interesse di Munari per il naturale da formale diventerà più sistematicamente strutturale, legandosi al suo lavoro di designer.

 

Good design

 

Imitare la natura è infatti una strategia fondamentale per i designer:

 

Il designer cerca di costruire l’oggetto con la stessa naturalezza con la quale in natura si formano le cose, non inserisce nella progettazione il suo gusto personale ma cerca di essere oggettivo, aiuta l’oggetto a formarsi con i suoi propri mezzi (Arte come mestiere, 27).

 

In Arte come mestiere, Munari discute ad esempio uno dei principi cardine del design industriale e dell’architettura moderna, un principio che viene fatto risalire di solito alla scuola tedesca di design e architettura degli anni ‘20 e ‘30, il Bauhaus: “la forma segue la funzione”. Pur conoscendo benissimo i principi del Bauhaus, Munari non cita Walter Gropius, lo storico fondatore dell’istituto tedesco, ma il biologo francese Jean-Baptiste Lamarck, che aveva appunto discusso del rapporto fra forma e funzione in natura tra fine ‘700 e inizio ’800. La natura obbedisce allo stesso principio: la forma dipende dalla funzione dell’elemento naturale in questione. Allo stesso modo, il designer deve pensare prima alla funzione dell’oggetto da ideare e poi alla sua forma che deve essere conseguente e coerente rispetto all’uso che di questo oggetto si farà.

 

La natura è flessibile, si adatta alle circostanze e ai materiali, e riesce a produrre una varietà infinita di forme, partendo da pochi elementi semplici. Ma mentre la natura procede in maniera evolutiva e aleatoria per prove ed errori, il designer contrae il tempo, accelera un processo che è caratterizzato da tempi geologici, non solo perché la sua intelligenza è frutto di questa stessa evoluzione, ma anche perché la natura si presta immediatamente a essere copiata.

 

Negli stessi anni in cui dipingeva i quadri sopracitati, sulle pagine della rivista milanese di architettura Domus discuteva su quali fossero le forme del futuro per il design industriale, indicando nelle uova e nei pesci delle forme naturali coerenti dal punto di vista estetico e rispetto alle caratteristiche aerodinamiche. Nel 1962, Munari pubblica poi una plaquette dal titolo Good design, dove tenta di spiegarci quale sia il “buon design” (parte di questo testo verrà ripreso anche in Arte come mestiere), con riferimento alle discussioni che si stavano facendo a livello internazionale, soprattutto nel contesto nordamericano (il Chicago Athenaeum Museum of Architecture and Design nel 1950 aveva istituito il Good Design Award). Qui Munari ci dà tre esempi di forme funzionali del tutto naturali: l’arancia, i piselli, la rosa.

 

Si può stabilire un parallelo tra gli oggetti progettati dal designer e gli oggetti prodotti dalla natura? Alcuni oggetti naturali hanno elementi in comune con gli oggetti progettati: che cos’è la buccia di un frutto se non un “imballaggio” del frutto stesso? [...] Si potrebbe ragionare, col gergo della critica del design, su alcuni oggetti naturali e scoprire delle cose interessanti...

 

Arancia: Questo oggetto è costituito da una serie di contenitori modulati a forma di spicchio, disposti circolarmente attorno a un asse centrale verticale […] L’insieme di questi spicchi è raccolto in un imballaggio ben caratterizzato sia come materia che come colore: abbastanza duro alla superficie esterna e rivestito con una imbottitura interna, di protezione tra l’esterno e l’insieme dei contenitori. (AM 136)

 

E sui piselli:

 

Pillole alimentari di diversi diametri, confezionate in astucci bivalvi molto eleganti per forma, colore, materia, semitrasparenza e notevole semplicità di apertura. Sia il prodotto stesso che l’astuccio e l’adesivo derivano tutti da un’unica origine di produzione. Non quindi lavorazioni diverse su materiali diversi, da montare poi in una fase successiva di finitura, ma una programmazione di lavoro molto esatta, certamente frutto di un lavoro di gruppo. (AM 138)

 

Al di là dell’evidente parodia del gergo tecnico, Munari usa qui una modalità retorica che i critici letterari chiamerebbero di “straniamento”, cioè l’adozione di un punto di vista o di una strategia espressiva che fa vedere una cosa, un oggetto, un evento, una situazione, da un punto di vista insolito, straniante. Questo è una strategia retorica tipica di Munari che ci impone spesso un Gestalt-switch: un cambiamento percettivo, uno sguardo riorientato, che serve per fare capire meglio il problema in esame.

 

Ma come si possono trasferire le forme della natura nel campo del design industriale? Diciamo che nell’ambito del design contemporaneo, questo è un campo di ricerca ormai stabilizzato e diffuso. Viene di solito definito come biomimetico o mimetico biologico. Munari ne parla in termini di “bionica” in Da cosa nasce cosa (1981):

 

La bionica studia i sistemi viventi […] e tende a scoprire processi, tecniche e nuovi principi applicabili alla tecnologia. […] Si prende come punto di partenza un fenomeno naturale e da questo si può sviluppare una soluzione progettuale. Per esempio dalla struttura naturale del bambù, della sua tipica fibra, nasce l’idea di rinforzare le materie plastiche con fibre di vetro. Dallo studio delle forme di certi pesci nascono le forme adatte per le imbarcazioni. Dal movimento oscillante che fanno i pesci per muoversi nell’acqua può nascere l’idea di una pompa… (336)

 

Ma Munari, più che a forme di calco imitativo, è interessato a forme di strutturazione analogica. Le forme naturali vengono definite da Munari anche come “forme spontanee”, forme che non hanno bisogno dell’intervento umano per generarsi. È interessante vedere, però, come Munari parli proprio in questi termini della Lampada Falkland, una lampada a sospensione, fatta di maglia elastica tubolare, progettata per Danese nel 1964, e uno dei suoi prodotti di design industriale più famosi:

 

Le componenti formali di questo oggetto luminoso sono: l’elasticità del materiale usato, la tensione data dagli anelli metallici di circonferenze varie […] e il peso. Con questi tre elementi nasce questa forma spontanea, poiché essi sono strettamente legati tra di loro e l’oggetto si forma da sé stabilendo un equilibrio con queste forze (126-27).

 

Qual è il principio alla base di questo progetto? Un principio di semplicità e di razionalità costruttiva “naturale”:

 

Si potrebbe anche dire una forma naturale: la natura infatti crea le sue forme secondo la materia, l’uso, la funzione, l’ambiente. Forme semplici come la goccia d’acqua o forme più complicate come quella della mantide religiosa tutte queste sono costruite secondo leggi di economia costruttiva [...] Pare che una cosa esatta sia anche bella per cui lo studio e l’osservazione delle forme spontanee naturali risulta molto utile al designer il quale si abitua a usare i materiali per la loro natura [...]. Naturalmente il designer non opera nella natura ma nella produzione industriale e quindi sarà un altro tipo di spontaneità che nascerà dai suoi progetti, una forma di naturalezza industriale, dettata dalla semplicità e dalla economia costruttiva” (124).

 

Semplicità ed economia costruttiva sono due dei principi cardine dei progetti di Munari, che è interessato a un design “riduttivo”, leggero, e di costo contenuto.

 

Forme ed evoluzione

 

In tutte queste discussioni, si nota in Munari anche un decisivo interesse per le dinamiche che si stabiliscono tra struttura ed evoluzione, tra forme sincroniche e sviluppi diacronici. Tutte le forme naturali, infatti, partono da strutture di base e crescono creando infinite variazioni modulari, come nel caso già esaminato di Disegnare un albero o “Cresce e scoppia”. Per Munari questo diventa un principio applicabile non solo al design industriale ma all’arte stessa, a un’idea di arte che dovrebbe essere sempre in evoluzione, in continuo mutamento:

 

In natura tutte le cose mutano, gli alberi cambiano aspetto, i serpenti cambiano la pelle, il famoso ‘uovo’ di Brancusi potrebbe, un giorno, fare un pulcino. I quadri antichi hanno cambiato colore col tempo, le statue perdono i pezzi, sulle vecchie architetture le insegne luminose, come uno scherzo giovanile, modificano continuamente la facciata. Questa è la realtà, quindi è vano che gli artisti tentino di fare opere d’arte ‘eterne’. L’opera d’arte deve rinnovarsi. Continuamente l’opera organica sarà quindi in continua (veloce o lentissima) trasformazione. Una pittura potrà anche diventare una scultura. Una architettura può sparire in un minuto.

 

Questo principio è alla base delle sue opere più famose come le “Macchini inutili” o Concavo-convesso. Come una struttura geometrica di base – e i principi fisici collegati, la gravità, la leva, la torsione – possano creare infinite variazioni dinamiche, infinite forme, attraverso il movimento e la luce. D’altro canto, se leggiamo la spiegazione che Munari dà delle macchine inutili, già nel 1937, troviamo un ricorso continuo a immagini e metafore naturali:

 

[Sono] oggetti da guardare come si guarda un complesso mobile di nubi […] Trovano il loro motore nei fenomeni naturali, come spostamenti d’aria, sbalzi di temperatura, umidità, luce e ombra, ecc., assumendo l’aspetto di vita propria paragonabile al movimento delle erbe di un campo, al mutare delle nuvole, al rotolare di un sasso in un ruscello.

 

Un altro esempio di questo rapporto “naturale” fra struttura e variazione, secondo moduli di crescita, sono le Strutture continue, un’opera esposta per la prima volta a Milano alla Galleria Danese nel 1961. È un cosiddetto “multiplo”, ovvero un oggetto artistico progettato per essere prodotto in un numero potenzialmente illimitato di esemplari, e che va contro l’idea dell’arte come pezzo unico. 

 

Strutture continue, in particolare, è un’opera costituita da una serie di moduli incastrabili tra di loro e che possono essere variati e accresciuti a piacimento, producendo infinite forme modulari. L’ispirazione è anche in questo caso di tipo naturale:

 

Così nelle strutture naturali della materia: la nervatura di una foglia, gli elementi geometrici che danno forma a un minerale, a un cristallo di quarzo o a una pirite cubica, così questi elementi semplici danno forma a degli oggetti che si possono considerare come una natura inventata, strutturata allo stesso modo della natura che conosciamo. Oggetti continuabili all’infinito, come, teoricamente, un minerale potrebbe continuare, ma sempre riconoscibili e individuabili, direi classificabili secondo la loro particolare natura. 

 

Object trouvé - Ready made

 

Nel dicembre 1951, a Milano, nella Saletta dell'Elicottero del Bar dell'Annunciata, uno dei luoghi di incontro del Movimento Arte Concreta, Munari aveva presentato una mostra dal titolo Oggetti trovati, dove aveva esposto una serie di oggetti naturali e non, come fossero oggetti d’arte: un pezzo di una corteccia di quercia, dei sassi, delle corde annodate e schiacciate dalle ruote di una macchina, la scalmiera di una barca veneziana definita “bella come un’opera di Archipenko”. Tutti questi oggetti potrebbero ricordare i cosiddetti ready-made di Duchamp, quegli oggetti di uso comune che, collocati in un determinato incorniciamento simbolico e semiotico, diventano “arte”. Se dovessimo però trovare degli antesignani storici di questa disposizione estetica, potremmo risalire a Mikhail Matyushin, un costruttivista russo che, proprio come Munari, aveva fatto degli studi sulla ramificazione degli alberi come esempi di forme naturali dinamiche, e che, nel 1924, propose una mostra di rami e radici d’alberi come oggetti artistici. Anche il lavoro fotografico di Charlotte Perriard e Pierre Jeanneret, quest’ultimo cugino e collaboratore di Le Cobusier, si muoveva nella stessa direzione, con delle composizioni di oggetti naturali che acquisivano una dimensione estetica di carattere fortemente astratto – idea che venne ripresa in una mostra collettiva a Palazzo Grassi nel 1960, Dalla natura all’arte, a cui Munari partecipò.

 

Ma oltre a rifarsi a una tradizione sperimentale di carattere internazionale, gli oggetti naturali di Munari corrispondono a una propensione ancora una volta democratica e pedagogicamente densa del concepire l’arte e le sue forme.

Anche se in molti dei suoi scritti e in opere come queste si nota una certa irriverenza nei confronti dell’arte ufficiale, non c’è tanto la carica provocatoria di Duchamp, ma un sentimento quasi giocoso e infantile per degli oggetti che diventano sia occasioni ludiche, sia momenti estetici (in Arte come mestiere Munari ricorda che il termine Asobi, in giapponese, significa sia arte, sia gioco).

 

C’è infatti una naturale propensione nei bambini a trasformare ogni oggetto, sia naturale che non, in uno strumento di gioco, di immaginazione e di scoperta. E per Munari era importante riattivare questi meccanismi di creazione, di riposizionamento percettivo. L’intelligenza è costituita dalla capacità di vedere le cose in maniera nuova. In un capitolo di Fotocronache, un testo pubblicato da Domus nel 1944, Munari parla della sua passione estetica per i sassi. 

 

I sassi sono giocattoli forse un po’ primitivi ma però alla portata di tutti i bambini. Vi dirò che piacciono molto anche a me. Ne ho una bella collezione (non certo come quella del museo di storia naturale, altra cosa la mia: i sassi considerati come piccole sculture astratte, per intenderci Arp). E poi sono così umani, direi quasi (l'ho detto ormai) simpatici e antropomorfi. 

 

La passione per i sassi diventerà anche un bel libro per bambini Da lontano sembra un’isola, dove Munari raccoglie alcuni di questi oggetti naturali trovati negli anni, allestendo un piccolo teatrino naturale.

 

I sassi sono le sculture del mare e dei fiumi.

Ognuno è diverso dagli altri, non ci sono due sassi uguali, sono tutti “pezzi unici”, come le opere d’arte.

 

Alcuni di questi oggetti trovati hanno una evidente dimensione decisamente giocosa, ironica, come nel caso del Polpo di Monte Olimpino, o come per La signora Pocanzi e il Signor Conte Bigolin de la Nona (1971), due tronchi di betulla che ricordano le parti intime di una coppia, con un sottile riferimento a Brancusi e a sculture come Busto di un giovane del 1923, ironizzando sul suo tentativo di replicare in forme marmoree o lignee le forme della natura. 

 

Con l’ironica perfidia che a volte lo caratterizzava, Munari prendeva un po’ in giro i suoi contemporanei. Dei cretti di Alberto Burri diceva ad esempio che erano oggetti che si possono trovare già in natura, basta andare d’estate in qualche zona deserta o vicino a qualche fiume riarso. Allo stesso modo nel 1932, il fotografo americano Edward Weston affermava che: “Nature has all the abstract forms that Brancusi or any artist could imagine. With my camera I go directly to Brancusi’s source. I find ready to use what he has to “create” (The Daybook of Edward Weston, vol. II, p. 242).

 

Un altro esempio di questa disposizione estetica è il libretto Il mare come artigiano (1995): “Tu butti qualcosa in mare, e il mare (dopo un tempo imprecisato e imprecisabile) te lo restituisce lavorato, finito, levigato, lucido o opaco secondo il materiale, e anche bagnato perché così i colori sono più vivaci”.

 

In Artista e designer, Munari cita Hans Arp quando scriveva “Noi non vogliamo imitare la natura. Noi non vogliamo riprodurre ma soltanto produrre, così come una pianta produce il frutto” (21). Munari sembra prendere alla lettera questa affermazione spingendosi però più in là e chiedendosi se non sia il caso, a questo punto, di lasciar perdere la mediazione dell’artista.

 

Una delle iniziative più celebri di Munari nel campo del design industriale è stata la proposta di dare il prestigioso premio “Il Compasso D’oro” a ignoti, ovvero a tutti quei tecnici, ingegneri, designer anonimi che hanno progettato e realizzato degli oggetti di design che rimangono nell’uso comunque e non passano mai di moda, proprio per la loro semplicità, per la loro ergonomicità, la loro praticità, e l’intelligenza costruttiva. La sdraio da spiaggia, la lampada da garage, il lucchetto per saracinesche, il leggio (sono varie le pubblicazioni recenti che riprendono questa idea del design senza designer).

 

In questa prospettiva di esplorazione del naturale, sembra che Munari si chieda perché mai dovremmo adoperarci per produrre delle forme artistiche, o pseudo-tali, quando possiamo trovarle facilmente attorno a noi? Possiamo lasciare perdere Brancusi, o Arp, o Burri, e imparare a guardare direttamente il naturale, che ci dà forme analoghe, più strutturalmente e formalmente appropriate e interessanti, e totalmente gratis? È possibile un’arte senza artisti? In fondo, come scrive Munari in Verbale scritto

 

L’uovo ha una forma perfetta

benché sia fatto col culo.

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