L'infinito è nello sguardo del lupo

15 Dicembre 2015

Giancarlo Ferron è guardiacaccia di professione. Da quindici anni pubblica libri per Biblioteca dell'Immagine di Pordenone, alcuni dei quali oggetto di clamorosi riscontri di pubblico. È rilevante il fatto che in questi libri (penso a Ho visto piangere gli animali e La zampata dell'orso), Ferron sa esprimere la natura e la nostra appartenenza come raramente si legge, non solo in Italia. Ci siamo incrociati la prima volta all'Alpe Campogrosso e abbiamo camminato e parlato di massimi sistemi e richiami della foresta. Nel cuore d'inverno, eravamo a nostro agio. Voglio citare questo episodio perché è rarissimo sentire la forza interiore e selvatica di un uomo esprimersi con l'energia pervasiva, perentoria, mai prevaricante, di quel fascio di luce che è Giancarlo. Ricordo quella mattina con emozione, soprattutto adesso, dopo avere letto il suo straordinario romanzo Lo sguardo del lupo, pubblicato da poche settimane. Perché quello, era e resta il suo sguardo.

 

Per essere guardiacaccia o guardia forestale, o ancora addetto di un parco naturale, a non molti è chiaro che occorre una grande preparazione e la capacità di interpretare il territorio e le sue creature – umani inclusi. Da ciò che scrive (e da come lo fa) Ferron nei suoi libri è chiaro che il talento, abbinato a una spaventosa preparazione scientifica, naturalistica, geografica, antropologica (lui divora cultura e si immerge negli studi a tavolino tanto quanto in quelli sul campo, dove magari trascorre giornate intere in appostamento o esplorando il territorio), sa produrre libri che hanno un senso duraturo e che sarà sempre più importante da preservare e diffondere, con il passare del tempo umano. Perché il tempo dei suoi libri, è il tempo infinito dello sguardo del lupo.

 

È evidente a chi vive considerando la relazione con la natura come la chiave fondamentale per rimetterci in riga in quanto esseri umani ai quali un ruolo è stato affidato dall'evoluzione e che non può essere solo quello di parassiti divoratori di risorse nella gaia incoscienza del mito di una "crescita" che solo un economista o un folle può considerare auspicabile. I cambiamenti climatici sono ben più di un'emergenza e COP21 è diventato un "tema" per i mass media perché non poteva non diventarlo. Ma i cambiamenti climatici sono solo il riflesso più noto di risvolti che non si vogliono vedere, nodi che non si vogliono sciogliere: nessun altro animale consuma più risorse di quante ne ha a disposizione. Nessun altro animale contrae debiti che non può pagare con l'universo e con la Terra. Noi, invece, sì. Eppure ci sono centinaia di milioni di esseri umani consapevoli che hanno ben compreso la drammaticità dell'effluvio euforico di benessere materiale che ci droga ogni giorno, riducendo le capacità cognitive, frenando l'elaborazione, massacrando l'immaginario.

 

Purtroppo facciamo finta che con qualche accorgimento, potremmo tranquillamente andare avanti a usare combustibili fossili (l'esempio eclatante sono le estrazioni a cielo aperto degli oli bituminosi), godere della fusione dei ghiacci (il 75% nell'Artico, in dieci anni – tremano i polsi solo a pensarci) perché adesso si aprono nuove rotte commerciali con la Cina (dove però 300 milioni di persone non hanno accesso all'acqua potabile) e tutto ciò, sempre convinti del fatto che la nostra intelligenza possa sempre essere coniugata al negazionismo con spruzzate di furbizia e dosi soffocanti di ridicole trattative "politiche". La colpa, insomma, è sempre di qualcun altro: del clima, dell'alta pressione se ci sono le polveri sottili. E del lupo, se un pastore non alza qualche protezione per il proprio gregge (anche metaforicamente) perché deve essere l'uomo a decidere come si vive, non la natura di cui è parte. Come se quello stesso pastore non porti mai a macellare una bestia o non mangi carne che è stata un tempo viva e ora è morta per nutrire lui.

 

Con Ferron spesso parliamo di queste cose e in maniere diverse, ma convergenti, ne scriviamo. A lui, come a me, non piace accumulare frasi che possano essere copiate e incollate sui social perché suonano bene, ma provare a sondare le profondità vertiginose della psiche in relazione al territorio, che è il nostro corpo a sua volta immerso nel territorio più vasto: la Terra, l'universo. Nel suo romanzo, Giancarlo racconta la storia di un giovane ingegnere che raggiunge un'ottima posizione. Sa vendere bene i macchinari per costruire strade, ponti, scavare, rimuovere terra, cementificare, consumare suolo. A un certo punto dice basta e torna al paese di montagna da dove viene. Si spoglia. Contemporaneamente Lo sguardo del lupo racconta la storia di una giovane studentessa universitaria che incontra un professore "giusto", capace di darle una piccola casetta di montagna da dove studiare l'alpe, gli animali, gli abitanti e le storie non dette, segrete, custodite gelosamente. Non le dà una tesi preconfezionata: da vero maestro, le dice di elaborare e immaginare. In quel luogo i destini del giovane ingegnere e della giovane studentessa si incontreranno, due facce della stessa medaglia: la natura madre che ci contiene e che ci dà la vita.

 

Il lupo è anche una grande metafora (penso al capolavoro di Barry Lopez Lupi e uomini del 1978 e ristampato da Piemme quest'anno). Eppure la maestria del narratore guardiacaccia sta nel farci arrivare dentro questo simbolo potente, insuperabile, atavico, primordiale e meraviglioso smontando inesorabilmente – con fondate osservazioni cucite nella fibra della narrativa – i pilastri effimeri della società che proprio a COP21 dovrebbe essere dichiarata defunta, per cambiare, subito e radicalmente, paradigma. Ferron lo fa inchiodandoci alla pagina, dall'inizio alla fine. Come per ogni grande scrittore, dentro Lo sguardo del lupo trovo un passo avanti della letteratura e ripenso a Il lupo di Jospeh Smith (Bompiani, 2009), che riprendeva da dove Jack "Wolf" London aveva lasciato. Un passo forse invisibile al "sistema editoria" che avrebbe bisogno di un COP21 per comprendere di essere un ecosistema incapace di produrre – sistematicamente – principalmente letteratura e illuminare la via della confraternita umana, invece che essere così prigioniera di una visione a breve termine. Perché i Ferron esistono ma devono avere le radure dove prendere luce.

 

Lo sguardo del lupo esprime cose importanti e lo fa con la maestria, la semplicità, la verità istintiva (ma elaborata e sofferta) di chi è intrinsecamente consapevole che non siamo al centro dell'universo, ma parte di un'evoluzione misteriosa, entusiasmante, affascinante, e non i suoi dominatori: "per arrivare a certi livelli della percezione occorre prima passare attraverso il vuoto, attraverso uno stato di necessità, di isolamento e paura. Il corpo e i sensi sanno sempre come cavarsela quando si giunge al limite estremo; l'istinto conosce cose che sono ignote all'uomo".

 

 

Il libro: Giancarlo Ferron, Lo sguardo del lupo, Biblioteca dell'immagine 2015, pp. 224, € 14,00.

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