Vuoti e pieni / Diario di un’insegnante on-line

14 Marzo 2020
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Insegno. 

Il lavoro, quando può, se può, continua. In qualche modo. 

Le lezioni sono online. Si moltiplicano le piattaforme. Su Argo è necessario controllare l’uscita di nuove circolari, tutorial per classroom, per google meet, tutorial pure per avviare la mail istituzionale. E poi ogni consiglio di classe una mail. Provare a organizzarci, un file excel per scandire le lezioni on line. 

“Ragazzi magari iniziamo con Skype, che dite? E forse sarebbe meglio che facessimo una chat whatsapp, così vi comunico i codici di accesso per il materiale di classroom in modo piuttosto veloce”.

Sono giorni, insomma, di iperconnessione, dove alcuni argini non tengono più: “vi mando un vocale altrimenti non riesco a tenere più il ritmo delle comunicazioni”. 

La cattedra: mi viene da ridere, a pensarci. 

Altro che cattedra: qui vedono la mia foto profilo whatsapp. E io entro nelle loro stanze da letto, tra i loro poster. Vedo i mobili, intuisco il resto della casa. Mi commuove, la loro vita. Guardarli appena svegli, seduti a un tavolo che non è il banco e con un volto che non riesco più ad associare in maniera così non mediata al loro posto sull’elenco del registro. 

– Lezione finita, mi dite come state?

– Bene prof. Cioè, è strano.

E tutto questo avviene mentre in un tondo skype Silvia si accende una sigaretta – e mica posso dirle “hey, è vietato”, al più le dico “Ma santocielo! sono le dieci del mattino” – e in un altro tondo skype Carlotta inizia a mettersi lo smalto sulle unghie.

Abbiamo tutti del tempo in più. E stiamo lì. Ora mi scrivono che vorrebbero fare delle lezioni per parlare di cose generali: “Prof., vuole?”. Anche io faccio gli aperitivi in Skype con le amiche, la sera, mi stanno domandando qualcosa di molto simile – okay, forse non mi aprirò una birra davanti a loro – e io credo che in questo momento il mio lavoro possa essere anche questo. Non lo so. Tutti lavoriamo in un’incertezza e tutti ci muoviamo con modalità diverse. Non ce n’è una migliore dell’altra, sono tentativi: si tratta di cogliere l’inatteso. 

C’è anche un aspetto, in più. 

Non tutto “funziona”: intanto non siamo certi che tutti avranno un dispositivo, una connessione adeguata. Ma non è solo questo: è proprio che anche nel dispiegarsi della lezione un attimo siamo in video, poi qualcuno scompare, la conversazione si fa singhiozzo, tizio entra, tizio esce, tizio riesce di nuovo. Cosa ci sta dicendo tutto questo? Se vogliamo passare solo delle informazioni ci sono dei mezzi probabilmente migliori, più efficaci. E, dunque, l’insegnamento non è un passaggio di informazioni. Ma non è nemmeno un fatto di competenze, non è della trita immagine della testa ben fatta e non solo ben piena che qui si parla. 

 

In campo, in questo tempo difficile, mi pare essere il tema della relazione.

Alcuni tra noi docenti sono in difficoltà con le tecnologie, altri sono in difficoltà con i vissuti emotivi. Alcuni scelgono la lezione on line, altri costruiscono mappe preziose, che affiancano a materiali caricati su classroom. Quasi tutti, attorno a me, sono in un qualche contatto; cambia poco che sia via mail o via telefono o via schermo. Si tratta, io credo, di non accomodarsi, di non restare nell’isolamento, di usare quel che abbiamo a disposizione per ritrovare qualcosa dei corpi, in modo nuovo. Qualcuno ha più paura di altri, qualcuno fa più fatica di altri. Non è così semplice il video, non è così semplice, in video, tenere quella posizione che l’entrare in classe, così collaudato, rende più facile. Trovo che il nostro compito, ora, sia testimoniare la nostra presenza, e la presenza della scuola, in questo tempo di inciampo. Scandire la giornata con le lezioni e conservare alcuni aspetti della cornice istituzionale: la lezione, i contenuti, quel che resta di un programma. Interrogheremo? Vediamo. Qualcosa si sfalda e non accorgersene o provare a fingere che non sia così ho idea che ci farebbe perdere una grande opportunità. Trovo importante mandare i miei appunti scritti a Francesca, che seguo come insegnante di sostegno, fotografandoli in tempo reale su whatsapp, mentre l’insegnante di matematica prova a inquadrare il foglio con la penna e intanto parla, anche se l’immagine si fa sfocata. 

 

Opera di Ole Marius Joergensen.


Chiamare Francesca in Skype, aspettare che la mamma le posizioni la videocamera e poi fare una versione di latino con lei. Questo non è il mio lavoro di insegnante di sostegno, ma in questo momento ho idea che quest’ora in più possa dire a Francesca che la scuola è qualcosa che risponde all’emergenza con modalità inedite. Imprecise. Diverse per tutti. Alcuni ragazzini come li raggiungi? Non tutti sono Francesca, non tutti hanno una madre che posiziona la videocamera. Si tratta, io credo, di provare a tenere una posizione in un’incertezza radicale, incertezza nella quale, in alcuni momenti, il loro sapere può venire in soccorso al nostro: “Prof.! Giri il tablet”; “Guardi che Google meet funziona meglio di Skype”. Forse dovremmo ricordarlo anche in classe che c’è un loro sapere – e non è solo il sapere informatico – che può venire in soccorso al nostro: non lo facciamo nell’abitudine di un operare, che è l’abitudine di un funzionare. 

Quando il procedere abituale delle cose si interrompe vediamo elementi impensati prima: ognuno mantiene il proprio ruolo ma si apprende qualcosa di nuovo. Emergono, in questi giorni, elementi che credo di avere un po’ imparato occupando la posizione dell’insegnante di sostegno. Se dipendesse da me renderei obbligatorio l’insegnamento del sostegno per qualsiasi insegnante di materia: un anno, non serve molto di più. Un anno di questo stesso non-funzionare, un anno di imprevisti, di un sapere più o meno clinico che viene in soccorso molto poco, un anno in cui incontri l’uno a uno delle vite individuali degli studenti. Un anno in cui il tuo corpo è in mezzo alla classe, non in cattedra. In cui nulla fa barriera, con tutti i lati positivi e negativi che questo implica. Magari faremo tesoro della prospettiva diversa occupata in questo stato di eccezione, e non servirà nessuna dislocazione obbligatoria: questo tempo che stiamo attraversando insieme si rivelerà sufficiente. Sarebbe bello. 

 

Credo, insomma, che qualcosa stia insegnando a noi insegnanti il peso della relazione all’interno di un’aula scolastica. Quale è il nostro compito, ora, ora che nemmeno sapremo se e quando torneremo in classe? Quale è l’impatto con l’onda dell’imprevisto per le istituzioni? Cosa resta della scuola nella rottura degli automatismi? 

Io non so se faremo l’esame di maturità, ragazzi. Non so nemmeno quando rientreremo a scuola, a dire il vero. Vi dico con certezza che la gita non ci sarà, questo sì. Per il resto capiremo giorno per giorno. Ma ditemi come state, prima di tutto. 

 

E intanto, là fuori, in uno stesso non-funzionare, facciamo esperienza di una polis-pianeta in cui scopriamo che tutto è legato: anche di questo ce ne accorgiamo solo ora, e in modo ancora troppo confuso. Per chi ha la fortuna di avere una casa, e di poterci stare in questo momento, sono giorni in cui si prende contatto con un nuovo modo dello spazio e del tempo, o così mi sembra. Oggi guardavo i boccioli in fiore sul mio balcone e pensavo che sembra quasi uno scherzo che tutto questo accada mentre là fuori la primavera esplode, come se qualcosa ci dicesse che non è vero che si sta fermando tutto, ma che anzi, semplicemente, non siamo noi i protagonisti. Dobbiamo solo stare a guardare e, paradossalmente, la responsabilità grande cui siamo chiamati come specie sembra essere quella di stare fermi. Con i familiari, nel tempo domestico. Fatta eccezione, ovviamente, per chi, tra noi non è affatto nella propria casa e nell’attesa, ma, anzi, lavora senza nemmeno poter interrogare lo smarrimento per salvare più vite possibili.

 

Noi, tutti gli altri, invece, sembra che: facciamo bene se non facciamo nulla. E quasi, allo stesso tempo, nessuno può fare a meno dello stare fermo degli altri. Sembra un messaggio – ovviamente è una lettura un po’ forzata – che prende in giro il come ci siamo pensati fino a qui.

E in quegli spazi dove il tempo può continuare a scorrere allo stesso modo, negli spazi virtuali dell’informazione, le notizie, il ritmo, e il rumore, sembrano quasi aver subito un’accelerata, o solo ce ne accorgiamo di più, per contrasto. O, ancora, moltiplichiamo il dire per timore, saturiamo il vuoto. La scuola, per fortuna, inciampa e accoglie il rallentare. Insieme allo stare fermi potremmo pensare forse allo stare zitti. Un po’ di quel silenzio di cui parla Chandra Livia Candiani. Scrive che imparare a stare e assaggiare l’assenza è un dono. Fingere che non chiami, riempire ogni attimo con distrazione, è, invece, farsi a pezzi. Sappiamo prendere sul serio questo tempo fragile? Candiani scrive: “Ti prego, morte, non lasciarti addomesticare, continua a farmi assoluto male”. 

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