Indicativo presente | Duecento giorni in classe / Una cioccolata per Mariella

17 Novembre 2018

Se potessi essere l’insegnante di ognuno di loro, se potessi trascorrere tre ore al giorno seduto accanto, con i libri sul tavolo, o uscire all’aperto in una bella giornata di sole, camminare come Socrate con i suoi pargoli, non credo ci sarebbero problemi. Il punto non è la loro estraneità alle conoscenze che propongo. Il malessere è svegliarsi alle sei di mattina, quando è ancora buio, con la pioggia battente magari e ritrovarci in 20, 25 chiusi in questa stanza. Con i neon che ci fanno male agli occhi. La vita può essere ancora più dura, certo, ma se partissimo da un principio di felicità e di benessere non dovremmo fare della scuola un decoroso campo di concentramento, o più precisamente un campo di detenzione temporanea in una stanza di 20-25 ragazzini pieni di energie. 

Il regolamento mi chiede di essere in classe cinque minuti prima che suoni la campanella. Non entrano più tutti insieme, con un boato festoso o animalesco: arrivano alla spicciolata. Ognuno ha il suo ritardo, la sua riluttanza ad arrivare e sedersi per sei ore in quel cubo di cemento. Sono anche abbastanza educati, quasi tutti, e entrando dicono “buongiorno prof!”. Si siedono abbastanza estenuati, con addosso ancora la giacca a vento, sacchi flosci di scarsa motivazione, e fissano il vuoto assonnati (vanno a letto tardi consumandosi gli occhi al buio sugli smartphone). Certe mattine cominciano così, in silenzio ideale per “fare lezione”, ma certamente non è un silenzio fatto per ascoltare, ma per riposarsi un po’, non sentire più nulla per un po’.

 

Certe mattine, invece, arrivano a gruppi, urlano. Tendenzialmente, pur essendo vicinissimi, non parlano: urlano. Una delle mie prime attività è stata restituire la consapevolezza che la voce è uno strumento meravigliosamente regolabile; faccio teatro: bisbiglio e dico «vedete? Il volume della mia voce è troppo basso, non mi sentite»; poi urlo: «Non è veramente sgradevole se pur essendovi a un metro o due di distanza vi urlo a questo modo?». Se si parlano uno ad uno urlano; se si “parlano” in tre urlano; e certe mattine, alle ore 8.10, la classe è un boato di drappelli che si urlano il report dei loro pomeriggi e delle loro serate. Sono del tutto auto-referenziali; non hanno bisogno di interfacciarsi con me; non mi fanno proprio vedere le facce, ma le spalle; girano, saltano, i maschi accennano spintonamenti e strattonamenti. A quel punto non c’è più alcun margine per farsi notare: devo urlare io, e spaventarli. Regredire al confronto fisico-animale. Posso usare la voce, e qualche minaccia “didattica” (interrogazione a raffica, verifica scritta istantanea), e per ora funziona. Se loro sono “la classe” e tu sei “un professore” le cose non funzionano. Avere da loro un silenzio spaventato e obbligato non serve a molto. E per urlare come si deve, pur con qualche tecnica di base teatrale (si urla in piedi, ovviamente, per aprire il diaframma e corredare la voce dell’incombere di un corpo adulto molto arrabbiato) occorre una tale scarica di adrenalina che il resto dell’ora (50 minuti ancora!) sarai già stanco come una bestia.

 

Sembra una impresa improba, ma non c’è altro modo che farli sentire uno a uno con te, il prof. Sono in una classe che non si sono scelti. Ci sono simpatie, antipatie, estraneità. Ci sono ragazzi e ragazze pieni di rabbia e frustrazione. O di tristezza. Qualcuno ha una voglia di imparare qualcosa di nuovo. E tutto fluttua sul filo di ondate emotive. Quello che puoi fare è fare in modo che il flusso non ti ignori. Portare le 20 correnti verso di te, evitando che diventino un’ondata frontale.

Quando ognuno di loro comincia a sentirsi ascoltato individualmente da te, comincia la relazione educativa. Che la ragazza sia la prima della classe, o il ragazzo abbia il certificato dalla ASL con disturbi dell’apprendimento e del comportamento, se non impari presto il suo nome proprio, se non capisci presto perché ognuno di loro si comporta in quel modo, ci saranno soltanto minacce e sordità.

 

Mariella ha sempre il muso. Entra abbracciandosi nella giacca a vento e sul banco non si siede; butta giù lo zaino, in cui ha messo non so cosa, perché non ha mai né un quaderno aperto per gli appunti, né un libro, nulla, e si va a sedere sulla mensola del termosifone; vuole guardare fuori ma vicino al vetro ha freddo. Non disturba e non vuole essere disturbata. Se qualche professore le chiede i compiti, lei non li ha. Se le chiede il diario, lei non ce l’ha. Se le danno una nota sul registro elettronico lei se la prende. Ha degli occhi bellissimi, e un volto paffuto. Dicono che in prima e in seconda litigasse con tutte e con tutti. In terza è arrivata Anna, che è paffuta come lei e che urla come una belva se un compagno osa canzonarla. Così Mariella vuole andare in bagno con Anna.

 

Una mattina Anna è tornata dopo un bel po’, si è avvicinata alla cattedra e mi ha bisbigliato: «Mariella non vuole più tornare in classe». Dopo quindici minuti ho chiesto alla bidella del piano (dovrei definirla “collaboratrice scolastica” ma nessuno la chiama così) di tenere a bada un attimo le belve (sto violando il regolamento: se uno di loro si tagliasse un dito in quei minuti verrei denunciato dai genitori) e sono andato da Mariella. Rannicchiata contro un termosifone del bagno delle femmine piangeva. Mi sono rannicchiato e le ho chiesto cosa succedeva. «Niente, sniff». Le ho fatto sentire il calore di una mano sulle spalle e le ho chiesto di tornare in classe con noi. Mentre entravamo mi ha chiesto «Sniff, prof, mi prenderebbe una cioccolata calda?». Mmm… l’ora successiva vado alla macchinetta della scuola e schiaccio il bottone per la terribile “bevanda al gusto di cioccolato”. Faccio toc toc toc alla porta della classe e chiedo al collega se può uscire un attimo Mariella. Nell'auletta sostegno sta fumando il suo bicchiere di cioccolato, e mi dice tutto:

– Mia madre non c’è più, se ne è andata, e mio padre vive con la sua nuova compagna.

Perché dici “compagna” con quella smorfia? Perché non è tua madre o perché ti tratta male?

– No no mi tratta bene, ma non è mica mia madre!

– Come mai molte volte non vieni a scuola?

– Perché mio padre è in ospedale da settimane e devo fare io in casa, c’è anche mia sorella, che ha 21 anni ma va a lavorare e la compagna di mio padre è sempre in ospedale.

– Cos’ha tuo padre?

Una malattia strana: forse devono tagliargli una mano perché è tutta nera (singhiozza).

Quando si riprende le chiedo se sa cucinare per tutti; sì, soprattutto la pasta, tanti tipi di pasta. «Sono siciliana, chiaro che so fare la pasta!» La pasta alle sarde? – Certo. La pasta alla Norma? – Ovvio. Allora una volta mi cucinerai una buona pasta, ok? Sorride e annuisce: sì che me la farà, lei l’anno prossimo vuol fare l’Alberghiero e aprire un bar.

La riaccompagno in classe e stavolta si siede sulla sedia; senza quaderno e senza libro, ma mette la guancia sul braccio e guarda fuori dalla finestra.

 

Qui la prima puntata.

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