Amore un corno! Sanremo in bianco e nero
Ha aperto in tempo, il 1° febbraio 2024, prima che l’edizione del Festival di Sanremo 2024 avesse inizio il 6 febbraio. L’ho vista a Festival finito. La potrete vedere sino al 12 maggio la mostra curata da Aldo Grasso “Non ha l’età. Il Festival di Sanremo in bianco e nero 1951-1976”, alle Gallerie d’Italia, in piazza San Carlo a Torino. Si tratta di 85 foto selezionate tra le 15.000 scattate dai fotografi dell’Agenzia Publifoto (fondata da Vincenzo Carrese nel 1937) durante i 25 anni iniziali della manifestazione, ospitati nel Salone delle Feste del Casinò di Sanremo in collaborazione con la Rai, prima alla radio, dal 1955 in televisione. L’immenso archivio di quella importante agenzia giornalistica è stato acquisito dall’Archivio Storico di Intesa San Paolo, è materialmente visibile attraverso le vetrate sotterranee delle Gallerie qui a Torino, e tutta la sezione dedicata a Sanremo è stata in questa occasione catalogata e restaurata.
Vintage piccolo-borghese
La popolarità del concorso canoro, di per sé non molto rilevante in quanto tale, cresce esponenzialmente con il farsi della televisione di Stato democristiana il nuovo focolare dell’era consumistica, in cui le famiglie vengono atomizzate nei loro piccoli appartamentini. La connessione “virtuale e nazionale” è già un prodotto di massa, e il Festival è uno dei caterpillar che Pier Paolo Pasolini vedeva arare secoli di cultura popolare e di umanità condivisa in pochissimi anni, omologazione alla forma mentis del vincitore della WWII, gli Stati Uniti d’America. Sin dalle origini a Sanremo si cercano di identificare i fili che portano le generazioni postbelliche al loro passato ancestrale, a un universo manzoniano di bontà umile e semplice che la comodina valanga piccolo-borghese sta spazzando via.
L’uomo-cantante doveva essere un bel giovanotto elegante, che trasferiva la sua devozione amorosa dalla mamma alla promessa sposa. La donna-cantante doveva essere graziosa, tenera, virtuosa, fanciulla, e meritarsi quel transfert dei giovanotti dall’Edipo nella famiglia d’origine al patriarcato di cui sarebbe divenuto padroncino nei metri quadri delle camerette arredate con le nuove meraviglie americane: una televisione, appunto, un frigorifero, le poltrone del salotto davanti alla tivù, la cameretta per i bambini che verranno, eccetera.
La mostra non ha l’ambizione di fare “cultura popolare”; l’approccio è minimalista nell’allestimento e nelle poche isole simboliche: fa molta tenerezza il riallestimento del desk di un giornalista di una sala stampa sanremese, con oggetti prestati dall’ADI Design Museum – Compasso d’Oro di Milano.
Attraverso l’app delle Gallerie all’ingresso si possono cercare su un videowall le fotografie per ognuno più interessanti e scaricarne alcune sul proprio smartphone. Quel muro di “rullini” è in fondo la cosa più magniloquente di una mostra crepuscolare per estensione e intenti; una cara cosa di pessimo gusto, se vogliamo criticare parte di quel nostro passato.
Disarmo della verità
Nel pannello che introduce alle pareti fotografiche Grasso scrive, del Festival di Sanremo delle origini, che «la colonna sonora dell'esercito di liberazione americano era stato il boogie-woogie, musica piena di eccitazione ma a noi sconosciuta, adesso bisognava trovarne una tutta italiana, legata alla tradizione melodica e del bel canto. Senza abusare delle trite metafore del Festival come specchio della società o espressione del costume collettivo, Sanremo è pur sempre una sorta di grande album di famiglia su cui si fonda la nostra identità, la nostra emotional community, una storia "minore", piena di nostalgie, aneddoti ed entusiasmi, capace di integrare quella "maggiore"».
La foto che testimonia la prima incrinatura di quella patetica chiamata al disarmo della verità che sempre è stato il Festival di Sanremo è quella che fa la locandina: Adriano Celentano che si gira di schiena e di chiappe al pubblico e all’occhio delle telecamere: il Sessantotto appare così, travestito e addomesticato dallo “svitato” Adriano, nei salottini italiani, mentre fuori dal Casinò, a Villa Ormond, Dario Fo e Franca Rame un anno organizzano il “Controfestival”. Grande pantomima con bandiere e pupazzi piccoli e medi” tappezzando la cittadina balneare di manifesti che sono autentici, nel loro impotente contrasto politico.
Il titolo della mostra è intelligente, ma è cosa cui aderisco per inverso. Ha la sua età, invece, una manifestazione che ha 70 anni, e la presenza al Festival di Sanremo di Gigliola Cinquetti (nel 60° anniversario di Non ho l’età, canzone con cui l’allora minorenne vinse quella edizione) è ciò che conferma. L’introduzione sempliciotta e didascalica del direttore artistico Amadeus era tra l’altro un esempio di come nel 2024 una Rai populista cerca di “dare due dritte culturali” al suo elettorato ‘gnorante e populista.
Community poco emotional
Da minorenne abusata dal sistema dello spettacolo negli anni Sessanta, con dignità, con qualche emozionata stonatura, Cinquetti è tornata con un volto invecchiato nobilmente, con rughe non smantellate da grottesche chirurgie estetiche, con umile marginalità in una società che bada alla vecchiaia per forza, con imbarazzo e vergogna, scaricando su quasi anziani caregivers angoscia e disorientamento… Cinquetti è stata l’unica con Ghali (più esplicito) a fare un riferimento “ai tempi che corrono”: «Questa ondata di amore non è casuale.
Credo che cresca nei momenti difficili. Questo è un periodo duro, difficile. Ma quest'onda di amore, che c'è qui nella nostra “casa” sanremese, credo che ci faccia sperare che tutto andrà bene». Detto a un Paese che non sa trasformare l’amore virtuale e temporaneo di un evento televisivo in una rete organizzata, efficiente, pubblica, accogliente, dignitosa per chi arriva povero da noi, o per chi lavora molto e guadagna poco, o per chi invecchia nel fatalismo assistenziale e nell’arrangiatevi come potete. Tutto andrà come andrà, quindi, per ora, a casa nostra, che resta una casetta piccolo-borghese, ogni tanto emotional e da qualche parte community. Amore un corno!