Una disciplina colossale, una umiltà incredibile

3 Ottobre 2024

Negli ultimi tempi una pioggia di serie tv è caduta su di noi come petali di fiori di ciliegio in una primavera giapponese: un romanzo di uno scrittore americano che vive là (Sunny); un romanzo di una coreanoamericana che racconta una epopea popolare che percorre decenni di afflizione dei migrati e dei deportati coreani in Giappone (Pachinko); una serie giapponese che racconta una malavita che una volta tanto non è la yakuza, ma una banda di feroci truffatori immobiliari nella Tokyo contemporanea (Jimenshi); un bestseller americano che racconta il Seicento storico che portò il Paese all’unità politica (Shogun).

Un prossimo futuro

Sunny comincia in modo brillante. La serie della raffinata casa di produzione A24 (The Sympathizer 2024) ci mette in un prossimo futuro a Kyoto. Il romanzo da cui è tratta la serie (su AppleTV) è stato scritto da Colin O’Sullivan (HarperCollins 2023) irlandese che vive dal 1999 con la sua famiglia ad Aomori, nel nord; ci era andato per insegnare l’inglese, e lì si è innamorato di una donna giapponese: «Una notte ho sognato che un robot che avevo programmato io stesso stava cercando di uccidermi... Cercavo ovunque le istruzioni. Mi sono svegliato quella mattina e a colazione a mia moglie ho detto: “Ho appena fatto questo sogno folle: un robot stava cercando di uccidermi!” E lei ha detto: “Questo sarebbe un bel film di fantascienza”. Sunny è una miniserie che di fantascienza ha soltanto il prossimo, o già in corso, tanto temuto passo in avanti autonomo che potrà fare l’Artificial Intelligence programmandosi da sola, apprendendo dall’interazione emotiva con gli umani. Tutto il resto è roba nostra: lutto, amore materno, enigmaticità del padre, tenerezza gioiosa del figlio, amicizie e disgrazie inaspettate, gambling, mafia, crudeltà. Suzie è un’americana che si è trasferita lì, e ha sposato dopo un colpo di fulmine un brillante programmatore che lavora per la ImaTech, produttrice di frigoriferi domotici. Masa è un uomo taciturno, perlopiù, ma marito e padre adorabile per Suzie: ha anni passati da hikikomori, dove ha sviluppato, nella patologia, competenze straordinarie nell’AI; Suzie scoprirà nel corso della storia che in realtà Masa è un genio nella programmazione di una nuova serie di robot domestici, realizzati per riempire i milioni di case dove ormai vivono single di ogni sesso ed ogni età; i robot sono tutto: camerieri, sguatteri, confidenti educati e solerti, sono molto più utili della compagnia di un cane o di un gatto, che in casa aiutano poco. Un aereo precipita, e sopra c’erano Masa e il figlio Zen. Suzie piomba in una depressione luttuosa senza rimedio; beve come una spugna, si trascina da un divano a un letto e da un letto a un divano, è uno straccio. Un giorno suona il campanello: un anziano impiegato della ImaTech le ha portato in dono Sunny: un robot tondeggiante e bianco come il design Apple con una dolce voce di donna. Che fine hanno fatto i resti di Masa e Zen? Perché mai Suzie dovrebbe accettare quell’aggeggio? Prima lo ignora, poi lo maltratta, poi arriva la yakuza e glielo rapisce… Alla fine è Sunny a salvare almeno qualche umano; come ha fatto? Perché un jailbreak installato da Masa ha permesso all’AI di Sunny di evolversi affettivamente per modellarsi come un partner affettivo, emotivo di Suzie, nel bene e nel male. La serie diretta da Katie Robbins, che ha come protagonista una amabile Rashida Jones, comincia molto bene, appare gemellabile a Lost in Translation, per lo spaesamento di un americano nel Giappone contemporaneo, e Jones spesso è buffa quanto lo è Bill Murray, poi l’intreccio si mette a correre un po’ troppo, e prevalgono scene d’azione goffe e colpetti di scena deludenti.

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Un passato sontuoso e feroce

I divoratori di serie tv apprezzano particolarmente le serie in cui si parlano più lingue da godere in audio originale e sottotitolate (si leggono romanzi infiniti), con cast misti, di varia origine etnica, e spesso multilingue loro stessi; è un livello successivo di professionalità che lascia ammirati, con crew multiple, location multiple. Sunny è così, Pachinko è così, Shogun è così. Nell’arco di una serie possiamo smarrirci e poi educarci alle variabili delle civiltà e allo sforzo incredibile che uomini e donne nel corso della storia hanno fatto per capire e adattarsi e interagire con mondi che erano e restano lontani. “Shogun”, nel giapponese medievale, significava “comandante dell’esercito”; secoli di storia del Paese hanno visto guerre interne sanguinose qui come ne abbiamo viste in Europa tra casate che scalavano il trono: lo stesso fantasy Game of Thrones di George R.R. Martin ci ha riportati in una rievocazione di quel passato sanguinario e inclemente, e le serie tv derivate sono tra le più ammirevoli megaproduzioni infinite che Jason Mittell ha definito “complex tv” nelle sue lezioni accademiche raccolte nel libro tradotto da Minimum Fax nel 2017.

Shogun è un bestseller pubblicato dall’australianoamericano James Clavell nel 1975: ebbe un successo clamoroso, arrivando a 15 milioni di copie vendute a inizio Novanta. Ispirato a veri accadimenti storici, la narrazione è il P.O.V. di Jack Blackthorne, che era nella realtà l’inglese William Adams, una sorta di Marco Polo di inizio Seicento, che nelle sue navigazioni naufragò in Giappone in piena era finale dello shogunato unificatore dei baroni dell’arcipelago; Yoshi Toranaga è il personaggio del reale Togukawa Ieyasu; da prigioniero Blackthorne diventa maestro della nuova marina militare dello shogun, e il rapporto tra questi due uomini che all’inizio non capiscono una parola l’uno dell’altro, disprezzano le maniere e la civiltà dell’altro, si trasforma in una nobile amicizia virile. Se il romanzo aveva un sacco di inesattezze storiche, l’attuale serie (Disney+ 2024) ha ripristinato con cura miniaturistica costumi, architetture di interni, cerimoniali, e i writers hanno portato a livelli perfetti di delicatezza, di silenzi intermittenti, di percezione della natura la sceneggiatura dell’ultimo adattamento del libro di Clavell, che fu uno dei primi romanzi storici contemporanei a diventare serie tv in cinque puntate per nove ore complessive di montato già nel 1980 con super cast (Richard Chamberlain era Blackthorne, Toshiru Mifune era Toranaga). In questi incroci di cast, di crew, di attori e registi, certamente favorita da una società americana che vede nuove generazioni di americani di svariate provenienze geografiche (afroamericans, latinamericans, asianamericans…) è interessante che per Shogun gli esterni siano stati girati tutti nel Canada occidentale: come fa a sembrare natura giapponese quella canadese? Guardate quanto sono simili la costa orientale del Giappone e quella occidentale del Nordamerica, scorrendo il dito sullo stesso parallelo…

Più volte nel corso della maestosa serie i nove sceneggiatori (tra questi Rachel Kondo e Justin Marks sono gli showrunner), i sei registi (tra cui Takeshi Fukunaga) tornano le sfide di improvvisazione di poesie haiku (genere consolidato proprio nel Seicento con la diffusione del buddhismo zen in Giappone), recitate in lingua originale da attori come l’incantevole Anna Sawai (nei panni della sublime Mariko) o Hiroyuki Sanada in quelli di Toranaga.

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La diaspora coreana

Pachinko viene pubblicato nel 2017 dalla newyorchese Min Jin Lee (in italiano Piemme 2021), che dal 2007 al 2011 ha vissuto a Tokyo: 496 pagine, una saga famigliare che prende avvio a inizio Novecento e arriva sino alle New York e Tokyo contemporanee. La protagonista di questa Amica geniale è Sunja, una ragazza che vive in un’isola all’estremo sud della Corea, sul canale che divide la penisola coreana dalla più meridionale isola giapponese e dalla città di Nagasaki. La prima riga del romanzo è lapidaria, e introduce queste storie di diaspora coreana: «History has failed us, but no matter»; in un’intervista a Michael Luo per “The New Yorker” (17 febbraio 2022) la scrittrice ha spiegato perché Pachinko comincia così: «La Storia ha deluso le persone povere e quelle che non hanno voce. Ma non importa, le persone al potere sono degli idioti perché le persone normali, le persone comuni, hanno resistito e sono sopravvissute e hanno trovato un sacco di espedienti. Era particolarmente importante per me con i coreani in Giappone perché ho iniziato nella posizione di "Oh, queste sono povere vittime oppresse dal colonialismo e questo è orribile". Ed è tutto vero, ma loro non la vedevano in questo modo e mi hanno detto: "Ti sbagli". E io ero tipo: "Beh, ok, in che senso mi sbaglio?" Quando esci con loro, ti rendi conto che sono piuttosto – giapponese – molto genki. Sono molto robusti e forti. Quindi ho pensato: “Oh, beh, da dove viene?” e ho capito che è un po' come quello che dice Hemingway sull'essere distrutti, giusto? Sei più forte quando sei distrutto».

È stata la showrunner Soo Hugh a portare il romanzo alla produzione cinematografica e allo schermo televisivo; era tra le autrici di The Terror, la serie storica/horror AMC del 2018: ha detto a Sadie Dean di “Script” il 20 agosto 2024 parlando della seconda stagione: «Sunja è il personaggio, il cuore pulsante dello show, ci chiediamo sempre: “cosa farà Sunja?” Il pericolo di questa domanda è che i tuoi personaggi non ti sorprendono mai. E il motivo per cui lo dico è perché questa stagione volevamo davvero mettere alla prova anche i nostri personaggi. Quindi, stavolta ci chiediamo anche “cosa non farebbe Sunja? E perché?” Un esercizio che ci piace fare nella writer’ room è provare sliding doors: diamo ai nostri personaggi una possibilità di scegliere. Se prendono questa strada, succede quest’altro. Se prendono questa strada, succede questo. E gli sceneggiatori dicono: "Ma il nostro personaggio non farebbe mai una cosa del genere!". Il nipote Solomon non ha le stesse difficoltà che ha avuto sua nonna Sunja: cerchiamo di mettere alla prova Solomon, questa volta, mettiamo i nostri personaggi nel frullatore, cerchiamo davvero di lavorarli e di vedere fin dove possiamo arrivare».

Se avete snobbato la prima stagione di Pachinko, non perdetevi la seconda, ora su AppleTV.

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Squali disciplinati

Se in Pachinko Solomon, il nipote di Sunja, nella Tokyo di oggi lotta come un David contro i Golia-squali della finanza immobiliare per il suo riscatto di coreano in Giappone, in Jimenshi (Tokyo Swindlers; Netflix 2024) tutto è giapponese: cast, crew, location, registi, sceneggiatori e showrunner. Diretta e scritta da Hitoshi One, questa potrebbe essere l’ennesima storia di una banda raccogliticcia di geni e balordi che tenta il colpo grosso, l’ennesimo tentativo di rifare La casa de papel: in questo caso truffare documenti, simulare identità, vendere, incassare e sparire nel nulla per un po’ di tempo. La mente malvagia e spietata è interpretata da Etsushi Toyokawa; rovinare persone è il suo grande piacere, e si alleva il suo cucciolo, il futuro boss. Il ragazzo è stato vittima di una truffa immobiliare che ha distrutto la sua famiglia, e disciplinatamente (quanto è dura e disciplinata una serie tv ambientata in Giappone!) ora si vendica a ripetizione truffando. La sua coscienza e il suo crescente conflitto sono il carburante di Jimenshi. La serie è fredda e spietata, i sentimenti sono trattenuti, e i delinquenti sono violentissimi. Le cosiddette “persone per bene” (i funzionari delle banche e delle imprese immobiliari, i loro leccapiedi) sono meschini e grigi, senza pietà per il prossimo. Se questa è Tokyo oggi, non ci piace. Quanta bellezza e quanta delicatezza invece si rivelavano allo scorrere degli shoji in Shogun, alla luce calda delle candele dove regnavano le donne… 

Letteralmente commossa, il 21 agosto 2024 in una intervista televisiva con Aymeric Brut la scrittrice Amélie Nothomb (che ha vissuto da ragazza in Giappone come figlia di un diplomatico belga) elogia la disciplina della cultura giapponese, come argine ai nostri ego dilaganti in Occidente: «Ciò che è affascinante del Giappone è come il Giappone può aiutare noi, e i giovani di tutto il mondo. Questo perché il Giappone è una meravigliosa scuola di disciplina in un’epoca in cui la disciplina è così detestata. Il Giappone, con immensa umiltà, dice questa semplice cosa: qualunque cosa tu voglia fare nella vita, anche se la tua ambizione è la più piccola, richiede una disciplina colossale e un’umiltà incredibile, richiede anni di apprendimento, anni di fallimenti. E se non fai così? Beh, non otterrai nulla. Penso che i giovani lo sappiano istintivamente e che il Giappone sia l’unico Paese al mondo che ancora oggi può offrirlo alla gente in modo non umiliante e non autoritario, ma semplicemente come qualcosa di realistico». Visto anche il cinese Three body, vedendo il “coreano” Pachinko potremmo dire: “Questo può offrirci realisticamente l’Oriente”. (Con la sublime bellezza di Anna Sawai, che recita anche in Patchinko, nel ruolo della dirigente giapponese che lavora con Solomon in una banca americana a Tokyo).

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