Speciale

Diario (3) / Una notte di Paradiso

9 Maggio 2021

“Le carriere sono cose complicate”, rispose Stefano Pioli anni fa, a un giornalista che gli chiedeva perché un allenatore galantuomo, bravo e preparato come lui, fosse arrivato ad allenare una grande squadra solo a cinquant’anni, l’Inter in quel caso. La risposta di Mister Pioli arrivò venata di saggezza, e una punta di sarcasmo: quanti intrecci, casuali e non, di amicizie importanti, di frequentazioni dei salotti che contano, di conoscenze tra i giurati dei premi, di atteggiamenti da “personaggio” mediatico, fanno sì che la bravura e la preparazione non bastino. E il mondo del calcio non è dissimile da quello della cultura: scrittori, autori di teatro e di cinema, giornalisti, storici più o meno televisivi, e così via. Ma la questione è di lungo corso: già Marco Vitruvio Pollione, nel De Architectura, l’unico trattato sull’arte di edificare templi e teatri che ci sia giunto dall’epoca antica, si lamenta che non ci sia “una finestra aperta sul petto” di ogni artista. Quella immaginaria finestra renderebbe manifesto a chiunque il valore vero di questo o quell’architetto, i suoi veri “sentimenti e pensieri”: solo “l’effettiva portata del valore e delle conoscenze artistiche riposta con l’ingegno nelle profonde oscurità del petto” verrebbe premiata. E invece? Invece, si lamenta Vitruvio, contano di più le amicizie influenti, gli intrighi nei concorsi, se sei di bel volto o bel corpo, se te la cavi bene con la parlantina a vendere la tua “arte” (la tua mercanzia), tutto questo conta più che la bravura, la competenza, il rigore. Il risultato è che i migliori faticano a far fortuna, superati da chi possiede altre doti che non quelle richieste dalla disciplina. Davvero, le carriere sono sempre state cose complicate

 

Dante vede la questione sotto un’altra luce e lo fa capire nel canto XI del Purgatorio, quando, incontrando il miniaturista Oderisi da Gubbio, prorompe in una lode che suona come una entusiasta “recensione”: oh sei tu quell’Oderisi così famoso, la cui arte, detta “alluminar”, che fa luce insomma, è conosciuta perfino a Parigi? La risposta di Oderisi lo spiazza: mi hanno già dimenticato, fratello! Ora, lo ammetto, Franco di Bologna è ben più considerato. Oh certo non sarei stato così “cortese” in vita, quando mi ossessionava il desiderio di primeggiare. La fama, quella che tutti inseguiamo, l’apprezzamento dei giornali e dei media, quella che ci fa soffrire se qualcuno scrive male di noi e delle nostre opere, la ricerca di questo o quel riconoscimento, il non averne mai abbastanza, tutto questo non è che un “mondan romore”, un “fiato di vento”, una banderuola che ora va di qua ora di là. Un tuo discendente, Giovanni Pascoli, la chiamerà, con distaccata ironia, “la gloriola”. Bene, qui, nella cornice di questo alto monte, la nostra “superbia” è messa a dura prova, dura ma giusta. Dobbiamo purificarci, fratello, dalle invidie e dai rancori, dalle gelosie forsennate, dalle ingordigie che oscurano di ombre il cuore: altro è quello che importa, Amore, solo Amore è degno di rapirci, e farci liberi, e restituirci lo sguardo di bambini sulle cose, e gioire del canto degli uccelli, i figli dell’aria, e dell’abbraccio a tutte le creature, come sapeva quel Francesco di Assisi che esalterai nel canto XI del tuo Paradiso.

 

Dante impara da quella risposta, come da tutti i penitenti che incontra nel salire la montagna. Quella montagna è la sua scuola. Ma impara in particolare dall’artista di Gubbio, perché è proprio lì, nella cornice dei superbi che avanzano curvi, come facchini, sotto il peso di enormi macigni, che Dante sconterà il suo male. Con quelle parole Oderisi gli ha appianato un “gran tumore”. 

 

Intanto siamo arrivati a definire cosa sarà verso Paradiso: un happening all’interno della programmazione di Ravenna Festival, che si svolgerà nei giardini pubblici davanti alla facciata rinascimentale della Loggetta lombardesca del MAR-Museo d’Arte della città di Ravenna, diretto da Maurizio Tarantino. Verranno letti, in successione, i trentatré canti del Paradiso, e il tutto avrà luogo dal tramonto del 25 giugno all’alba del 26. A leggerli stiamo invitando tutte le attrici e gli attori di Ravenna, senza distinzione tra professionisti e semiprofessionisti e appassionati dilettanti. I pericoli da coronavirus saranno ridotti al minimo: ogni attore con gli abiti e il libro che si porta da casa, un solo giorno di prova insieme a Luigi Ceccarelli e ai musicisti, e il 25 giugno tutta la cantica in un unico respiro, dal solenne incipit “La gloria di Colui che tutto move”, passando per i ritratti incandescenti – è tutto un fiammeggiare il Paradiso, come ci ha ricordato qui Gianni Vacchelli –  di Giustiniano, di Cunizza da Romano, di Francesco d’Assisi,  di Cacciaguida, del ravennate Pier Damiani – uno degli intellettuali più grandi che la città ha dato alla cultura europea – fino all’ultimo verso, che illumina tutto il cammino del pellegrino smarrito nella selva oscura: “l’Amor che move il sole e le altre stelle.” Un segno di speranza, un gesto politico, nel senso di una orizzontale “chiamata al lavoro” per tanti artisti singoli, molti dei quali fanno parte di gruppi e compagnie, sì, ma, nel tempo della peste, sono meno coperti delle istituzioni teatrali. Una lunga, intensa preghiera. Io e Ermanna assegneremo i canti tenendo presente le caratteristiche dei più che 70 lettori, dando loro giusto qualche indicazione via zoom e per telefono. Perché, nonostante i teatri aperti, non ha senso rischiare. Della serie: la regia per telefono ai tempi del coronavirus.

 

Ma no, non chiamiamola regia, che è cosa seria che non si fa per telefono: chiamiamola “cura”, ecco, cercheremo di orientare l’avvenimento, niente di più. E poi che happening sia: happening, ovvero “quello che sta accadendo”.

 

Gianni Plazzi, Catone.


Tra gli attori di verso Paradiso non ci sarà Gianni Plazzi, classe 1936, che il virus ci ha portato via lo scorso marzo.

Il sorprendente Gianni-Catone, che davanti alla tomba di Dante, nell’estate 2019, si mostrava inerme e fiero davanti agli spettatori, esortandoli a purificarsi col “giunco schietto" prima di affrontare la salita della montagna, ci ha lasciati in questo passaggio di primavera. Da tanti anni camminavamo insieme, dalle origini delle Albe, quando una sintonia profonda legò dei teatranti ventenni al pittore “prestato alla banca”, come diceva lui sorridendo. Al pittore chiedemmo di segnare le scene e i costumi dei nostri primi spettacoli, e poi di fare da guida nella non-scuola, infine assunse i panni dell'attore sul palco del teatro Valle a Roma, in uno spettacolo degli anni Novanta che, ispirato ad Aristofane, portava il titolo anticipatore di All’inferno!. Anticipatore perché quella fu per Gianni la prima discesa agli inferi della scena, continuata poi per un quindicennio con la Socìetas Raffaello Sanzio. E proprio per un nuovo “inferno”, questa volta dantesco, gli avevamo chiesto nel 2017 di impersonare la figura di Cavalcante Cavalcanti, da lui disegnata con commovente fragilità, con la sua “voce di vetro”, come la definiva Ermanna. Ci eravamo promessi di chiudere il cerchio con una sua nuova “apparizione” nel Paradiso, e per lui pensavamo a San Pietro che interroga Dante: “Dì, buon cristiano, fatti manifesto / fede, che è?”. Nella fede che gli apparteneva, Gianni avrebbe dentro di sé risposto come Dante: “fede è sostanza di cose sperate / e argomento delle non parventi”. La morte è il passaggio verso la dimensione delle “cose non parventi”, l’invisibile che non appare, e che tutti attende. L’invisibile che, a tratti, come in queste gemme di primavera, come in un lampo, si manifesta in forma di misterioso Amore, capace di muovere l’intero universo.

 

Dopo che varcando il Teatro Rasi si era precipitati nella città dolente, dopo che si era imparato il “noi” nella cantica dell’ascendere insieme per le strade di Ravenna, e di Matera, ci sarebbe stata una nuova chiamata pubblica e, insieme, si sarebbe dovuti arrivare al Paradiso nel 2021. Come fare, costretti alla distanza? Come celebrare Dante nell’anno del settimo centenario della morte del poeta? Teatro delle Albe e doppiozero hanno immaginato lo spazio della scrittura come spazio di un’attesa condivisa, un racconto-diario scritto da Marco Martinelli e racconti-sapere di studiosi e amici del Sommo, fili differenti per “dialogare con l’ago” e tessere visioni. Oggi il primo di questi quattro contributi. Il Cantiere Dante di Marco Martinelli e Ermanna Montanari è una produzione Ravenna Festival/Teatro Alighieri in collaborazione con Teatro delle Albe/Ravenna Teatro.

 

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