Max Frisch. L’uomo nell’Olocene

3 Aprile 2012

Riappare in libreria in questi giorni, a trent’anni dalla sua prima pubblicazione, L’uomo nell’Olocene di Max Frisch. Riappare in piena salute, senza grinze, tanto per ciò che racconta che per come lo racconta. Per di più, e da lettore dichiaratamente di parte quale sono, riappare al momento giusto, e questo per almeno tre ragioni: una di metodo, una geografica, una geologica.

 

Accade infatti che il libro che abbiamo in mano, basta sfogliarne le pagine, sia sorprendente già come oggetto in sé, a partire dal modo con cui organizza visivamente i materiali che lo compongono, il testo certo, ma anche tutti quei ritagli, foglietti, annotazioni, liste e figure che vi si trovano disseminati ordinatamente qua e là. Perché così li dispone il signor Geiser, cittadino di Basilea, che un giorno ha deciso di stabilirsi in una valle del Canton Ticino. Si invecchia dappertutto, dice. Perché così ha immaginato di fare il signor Frisch, in questo che è un libro di cose. Di cose che provano a esprimere dei “sentimenti”, a “materializzarli”, come sottolineava lo scrittore svizzero in un’intervista a Le Monde (1981), e così facendo provano a non rendere astratta la riflessione che traversa il testo, ma a comunicarla “tramite ciò che può renderla visibile”. Rendere concreta un’esperienza. Attraverso l’empatia per le cose intorno. Nel modo in cui queste sono messe le une accanto alle altre. Esporre un pensiero, e allo stesso tempo un paesaggio, nel dettaglio.

 

Accade così che da alcuni giorni piova di continuo, e che la valle in cui il signor Geiser abita sia bloccata a causa di una frana. Così almeno si dice in paese, anche se le informazioni a riguardo sono contraddittorie. Il signor Geiser non crede a un diluvio. Però su uno di questi foglietti ha scritto “essere pronti è tutto”. Il tempo passa. La memoria traballa. Il signor Geiser si è dato come compito di appiccicare al muro del soggiorno - né troppo in alto né troppo in basso – le cose importanti, “ciò che è degno di essere saputo”. Per provare a mettere in ordine le cose. Per avere una visione d’insieme. Mentre fuori la pioggia continua a cadere, l’elettricità va e viene, nel soggiorno del signor Geiser è tutta un’esistenza a mostrarsi nel suo quotidiano farsi e soprattutto nel suo disfarsi sotto l’azione del tempo, dei tempi. L’erosione come fenomeno del mondo ci riguarda, perché riguarda il nostro essere al mondo e nel mondo. Questione fondamentale, questa, che Frisch introduce non senza ironia - tra parentesi - e con la quale giustamente Sergio Nelli sceglie di iniziare la sua prefazione a questa ristampa :

 

(In questi giorni i romanzi non funzionano, vi si tratta di persone nel loro rapporto con se stesse e con gli altri, di padri e madri e figlie rispettivamente figli e amanti ecc., di anime, principalmente infelici, e di società ecc., come se il terreno per tutto ciò fosse garantito, la terra una volta per sempre terra, l’altezza del livello del mare regolata una volta per sempre).

 

Se i romanzi “in questi giorni” non funzionano, in fondo, è perché ostinatamente ci dimentichiamo che per abitare questo mondo, e quindi poterlo pensare/scrivere, non possiamo dare per scontato che la “base”, ciò che fonda e sopporta la nostra umanità, sia garantita una volta per tutte, “la terra una volta per sempre terra, l’altezza del livello del mare regolata una volta per sempre”. Perché in Frisch accanto allo scrittore c’è, sempre, anche l’architetto – l’incipit del libro è lì a ricordarcelo: “Si dovrebbe poter costruire una pagoda di crackers...” - inteso come qualcuno che non dovrebbe dimenticare le questioni fondamentali e sfuggire “tutto ciò che è concreto, prima ancora di averlo compreso”. Per esempio, che tra noi e il mondo, lo scambio è continuo.

 

Accade, quindi, che nel rileggere di questi tempi L’uomo nell’Olocene si possa produrre una vertigine inattesa, almeno se accettiamo di seguire fino in fondo la tensione geologica che accompagna il signor Geiser (e il suo interesse per la storia lunga della terra, la deriva dei continenti, la scomparsa dei dinosauri, l’origine dell’uomo, la formazione dei ghiacciai etc.) e ci ricordiamo di un annuncio di alcuni anni fa fatto dalla Royal Geological Society di Londra. Secondo la rinomata istituzione inglese, quel lungo periodo interglaciale, che ha favorito la nascita dell’agricoltura e della civiltà urbana e che chiamiamo Olocene, è finito. Dopo 12.000 anni, più o meno. Non è la fine del mondo, ma un mondo è finito. Ormai, sostengono gli scienziati, siamo di fatto entrati in un altro periodo stratigrafico chiamato Antropocene. È nuovo, nel senso che è difficile da comparare con gli strati che lo precedono perché per la prima volta nella storia della Terra l’impronta umana “sovradetermina” ormai l’insieme dei meccanismi naturali. L’uomo nell’Antropocene. Ridondante come titolo, no?

 

“C’è ancora molto da fare”, leggiamo su un altro foglietto appeso in soggiorno. È questo invito a ripensare le cose, ad andare a vederle di persona, a trapelare dalla vitalità del vecchio - redivivo - signor Geiser. Perché, chiedeva Frisch in apertura di uno dei suoi diari (1966-1971), “siete certi che la conservazione della specie umana, una volta sparite tutte le vostre conoscenze e voi stessi, vi interessi realmente?”.

 

Al libro di Max Frisch si ispira il saggio/racconto di Piero Zanini Rilievi alpini che trovate nella nostra libreria.

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