Oggetti d'infanzia | Compagno

28 Novembre 2012

Qual è l’oggetto della mia infanzia? Io non riesco a dirlo, qual è. La sua immagine mi appare chiaramente, in testa, ma il suo nome non mi esce di bocca. Al massimo, penso, potrei disegnarlo su carta, come quando da bambina non avevo avuto il coraggio di chiedere al mio compagno di classe una cosa che per me era davvero importante e allora gli avevo passato sotto banco un foglietto tutto accartocciato sopra cui avevo  scritto: “Vuoi diventare il mio fidanzato?”.  Mi ci era voluto del gran coraggio, per farlo. Poteva rispondere “Sì” e mi sarei sentita l’undicenne più felice del mondo, oppure “No” e avrei probabilmente cercato di cambiare scuola, quartiere, città, nazione, pianeta: potendo. Invece lui, all’intervallo, mi aveva detto: “Forse”. Panico: tutto l’ampio ventaglio di se-ma-però non  l’avevo assolutamente previsto, e non sapevo neanche come gestirlo.

 

Quelli erano gli anni dei bianchi e dei neri, privi di sfumature, fondati su assolute certezze. Dove potevi usare solo i punti esclamativi, mai di domanda o -tantomeno- di sospensione. Quindi ogni frase, che in realtà era quasi sempre una dichiarazione, poteva suonare unicamente così: “La minestra mi fa schifo!”, “Il latte senza Nesquik non esiste!”, oppure, se decidevi di lasciarti andare a un ragionamento più complesso, “Braccio di Ferro è un’invenzione pubblicitaria degli adulti che agisce subdolamente sul nostro inconscio per indurci a cibarci di quella roba verde, molliccia e cattiva che sono gli spinaci, cotti o crudi fa lo stesso!”. Più che parlare, affermavi. Senza esitazioni. L’epoca dell’incertezza, con tutto il suo carico di angosce e di ansie, si sarebbe aperta più avanti, al liceo per esempio: quando magari iniziavi a studiare filosofia e scoprivi che dubitare non solo è umano ma è addirittura necessario. Però, fino alle medie: nessuna via di mezzo. Prendere o lasciare. O mi vuoi o non mi vuoi. “Love me or leave me”: come cantava Nina Simone, anche.

 

Quindi quel “forse” non ci stava proprio, non solo nella mia mente ma nemmeno nel mio cuore. Così, per lenire ogni possibile sofferenza, ché l’indecisione è una palude dove non cammini, al massimo galleggi, ma di solito sprofondi, avevo deciso di lasciar perdere quel ragazzino tentennante. Riversando ogni mio sentimento su una presenza decisamente più sicura, che mi portavo dietro fin dalla nascita: che non mi aveva mai tradito, né contraddetto e né abbandonato. Non potendo parlare e, nemmeno, andarsene. Da quando lo conoscevo era sempre rimasto lì, muto e fermo, a fissarmi con i suoi grandi occhi neri di plastica: quasi incantato, praticamente perfetto. Il compagno ideale, peccato fosse di pezza. Ma io, fregandomene delle apparenze, avevo deciso di amarlo senza se-ma-però: senza forse, soprattutto. E mi ero buttata a capofitto in questa relazione: che ad oggi, tocca ammetterlo, è stato il mio legame più duraturo e stabile, forse anche più intenso.

 

Da quando l’ho scelto non ci siamo mai staccati: eravamo sempre insieme. Appiccicati: cozza e scoglio, più o meno.  L’ho portato con me ovunque, prima a scuola poi al lavoro, fino ai trent’anni circa. Ma, come ogni storia che si rispetti, anche la nostra ha avuto un finale tragico: una mattina, occhi ancora impastati dal sonno, l’ho visto penzolare sopra il mio letto, impiccato a una corda appesa al soffitto, dentro la squallida camerata di un ostello di Amsterdam. Ucciso da una punk drogata tedesca, sospetto. Gli aveva stretto talmente tanto il collo che quando mi sono svegliata e, sconvolta, mi sono alzata per slegarlo, mi è rimasta in una mano la sua testa e nell’altra il suo corpo. Non riuscendo a ricucire le due parti, senza dare origine ad un mostro cicatrizzato più inquietante di una performance di  Orlan,  l’ho bruciato e ho sparso le sue ceneri dentro uno dei tanti canali della capitale olandese.

 

Tornata a Milano, dentro un bar sui Navigli, ho rincontrato il mio compagno di classe che mi ha detto: “Vuoi diventare la mia fidanzata?”. “No”, gli ho risposto. “Sono in lutto”, avrei voluto aggiungere. “Non è possibile aprirsi al presente se non si è chiuso con il passato”, avrei desiderato spiegargli. Ma lui se ne era già andato. L’ho rivisto qualche giorno dopo, in un parco, seduto su una panchina con in braccio un peluche, uguale al mio.

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