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Oggetti d'infanzia | Il rullo
Quando avevo quattro anni mia madre portò a casa un pastore tedesco piccolo e nero. Era una femmina, un poco sbilenca e con le orecchie piegate; l’aveva vista in un negozio di animali e se ne era innamorata. In famiglia ci fu parapiglia e mio padre, preso alla sprovvista, annunciò teatralmente: «O me o il cane!». Mia madre scelse il cane e ad andare via con la coda tra le gambe fu il papà – che però tornò un paio d’ore dopo. La chiamammo Ottilia. Io rimanevo piccola e lei cresceva a vista d’occhio, mentre le orecchie si raddrizzavano e le ossa si rinforzavano; il pelo si infoltì e mutò colore, neri la schiena, il muso e il tartufo, miele le zampe possenti, nocciola i fianchi e la bella coda. Era dolce e molto protettiva nei nostri confronti, non voleva mai che ci allontanassimo da lei e ogni tanto ci girava intorno come se fossimo pecore da non perdere di vista. Era il nostro orgoglio ed era la mia migliore amica. Ottilia aveva sballottato la nostra casa, ma eravamo felici, nonostante i rotoli di carta igienica rubati, i pacchi di riso soffiato da dieci chili sparsi per la cucina, le mie Barbie orrendamente mutilate. E, soprattutto, nonostante i peli che si ammucchiavano su ogni letto, divano, cuscino, maglione. Fluttuavano nell’aria e andavano a posarsi nei luoghi più nascosti! Dentro l’armadio, dentro il frigorifero, nei costosi vasetti di crema antirughe: ovunque.
Fu così che il rullo levapeli entrò stabilmente nella vita della mia famiglia. Ricordo che mia madre comprò il primo un paio di giorni dopo l’arrivo del cane. Da quel momento non mancarono mai in casa, anche perché nel frattempo, una dopo l’altra, erano arrivate le gatte: l’aristocratica Fussi dal pelo rosso e folto, Mitzi bianca e nera scoperta in un canneto in riva al mare, Zighi certosina grigia trovata tremante sotto una macchina parcheggiata in via Cadore. Per quanto l’estetica del rullo non possa prescindere più di tanto dalle parti che lo compongono – un rotolo di carta adesiva montato su un manico – se ne trovano in commercio di varie forme, dimensioni e colori. L’impugnatura solitamente è ergonomica, le tonalità vivaci: giallo, verde prato, rosso, blu elettrico. Quello che fa la differenza è il rotolo: c’è il rullo con i fogli pretagliati, comodo ma non molto adesivo, e c’è il rullo da combattimento, massiccio come un soldato spartano, che toglie ogni pelo che incontra sulla sua strada, ma dallo strappo difficilissimo, perché non si riesce mai a capire dove finisce un foglio e inizia l’altro. Tutta questione di tecnica, comunque.
I periodi critici erano l’inizio dell’estate e la fine dell’autunno, quando il cane faceva la muta del pelo: soffici nuvolette venivano via alla più lieve carezza e a ogni movimento di coda si scatenava un tornado peloso – avremmo potuto riempire, con tutti quei peli, un piccolo cuscino al giorno. Molti anni dopo Ottilia morì: ricordo che ho pianto a lungo avvolta nel maglione pieno di peli color miele che avevo indosso l’ultima volta che l’ho abbracciata. Poi, dalle colline liguri dove un cacciatore scontento l’aveva abbandonato, arrivò nella nostra casa Jack, un elegantissimo setter inglese dal lucente mantello bianco e nero. Era talmente bello e talmente stupido che non si poteva non amarlo alla follia. Ovviamente, i peli neri finivano sui vestiti chiari e sulle lenzuola immacolate, i peli bianchi sui vestiti scuri e il divano blu. Sono passati, con Jack, tanti anni di amore e di rulli levapeli. Poi se n’è andato anche lui, una sera di novembre: altri abbracci, peli e lacrime. Ora ci sono Micol e Lea, altrettanto pelose e amate, anche loro setter inglesi. Una è bianca e rosso-arancio, l’altra bianca e marrone. Quando dormono accoccolate sul letto, illuminate dalla luce artificiale, sembrano fatte di raso. Dall’altra stanza proviene l’inconfondibile rumore del rullo levapeli: lo strappo, il rotolare, un altro strappo. È il rumore della mia infanzia e del suo calore, un rumore che spero non smetterò mai di ascoltare.